Occhio rotondo 12. Palo

30 Luglio 2023

Che cos’è questo strano palo che si leva al di là della palizzata di legno?

E cosa sono quelle forme simili a piccole zucche che pendono dai bastoni disposti a distanze quasi regolari nella parte alta della pertica?  Lo dice la didascalia scritta da Dorothea Lange nel 1936: “Nidi per rondini, per tenere lontani i falchi”. In quell’anno la fotografa americana viaggia per gli Stati Uniti insieme al suo secondo marito, l’economista Paul S. Taylor; stanno documentando la situazione delle zone rurali della California, Utah, Arizona e New Messico. Lange fotografa le condizioni di vita di uomini, donne e bambini colpiti dalla recessione economica e dai disastri ambientali: le tempeste di polvere e sabbia che affliggono alcune delle regioni nel centro degli Stati Uniti. Nel marzo dello stesso anno Lange ha scattato a Nipono, in California, in un campo in cui convivono duemila braccianti impegnati nella raccolta dei piselli, una delle fotografie più iconiche della Grande depressione, Migrant Mother.

Questo scatto, diventato il simbolo stesso dell’umanità ridotta in povertà, ritrae una giovane donna con la mano destra appoggiata sul viso mentre tiene in grembo un bambino piccolo, che s’intravede appena, mentre due figli più grandi si raccolgono contro la sua spalla in un’azione di nascondimento. Il punctum della foto è rappresentato contemporaneamente dal gesto elegante della mano della donna, unita al suo sguardo serio, ma non disperato, e da quello dei suoi due figlioli che si negano girando la testa davanti all’obbiettivo fotografico che li ritrae. Dorothea Lange è nota per la cura con cui redigeva le didascalie delle sue immagini, come si ricorda nella mostra a lei dedicata presso Camera a Torino, che ne riproduce in modo rigoroso il dettato originale anche nel catalogo che accompagna l’esposizione (Dorothea Lange, a cura di Walter Guadagnini e Monica Poggi, Dario Cimorelli Editore). La didascalia che riguarda il palo con i nidi per le rondini riporta la seguente frase: “Una vista familiare nel paesaggio rurale della Georgia”. È il riconoscimento d’un oggetto appunto “familiare”, un momento di letizia, e forse di tranquillità, nel paesaggio devastato dalle inclemenze della natura e dalla miseria estrema di migliaia e migliaia di persone: i migranti interni dell’America.

Tra gli stati visitati da Dorothea Lange, la Georgia non è uno in cui le condizioni sociali ed economiche fossero tra le peggiori – gli stati maggiormente colpiti dalle tempeste di polvere si trovano al centro degli Stati Uniti. Questo spinge a pensare che l’oggetto da lei ritratto non appartenga strettamente alla ricerca documentale sui contadini poveri americani commissionata dal Farm Security Administration (FSA), cui parteciparono negli anni Trenta i nomi più importanti della fotografia sociale, e non, americana del XX secolo. A colpire sono le forme rotonde appese alle barre di legno, le quali conferiscono all’asta il sapore d’un totem, sorta d’oggetto misterioso e insieme magico, quasi una scultura – almeno così appare ai miei occhi oggi. Ricorda il palo d’una linea telefonica forse dismessa; tuttavia non ci sono fili appesi. Perché in cima le traversine che si susseguono non hanno appese le buffe bocce? Sarà davvero possibile che le rondini s’infilino nei buchi aperti sulla superficie di questi contenitori dal sapore artigianale?

Inoltre la palizzata che si scorge sotto, nel limite inferiore della fotografia, è composta a sua volta di assi di legno dalla forma tronca e puntuta, che sembra contrapporsi con la sua regolarità al feticcio selvaggio che la sovrasta. Per lungo tempo Dorothea Lange ha evitato di definirsi un’artista. Voleva privilegiare l’aspetto sociale del suo lavoro, faticava a riconoscersi come tale, come ha spiegato in un’intervista del 1951 in cui ammetteva d’esserlo. In realtà la forza delle immagini scattate nelle pianure desolate dell’America tra le baraccopoli dei lavoratori stagionali, lungo le strade polverose del paese, nei campi e nelle fattorie abbandonate, consiste proprio in questo aspetto “artistico”: sono belle, anche se quello che ritraggono fa male al cuore e turba.

Un tema davvero difficile da affrontare per chi antepone l’etica all’estetica. Eppure, come mostra questa piccola fotografia, l’arte può andare d’accordo con l’impegno politico che Dorothea e suo marito praticavano: denunciare la situazione dei migranti e cercare innanzi tutto di ottenere degli interventi da parte del governo americano. Mi sono immaginato che questo totem sia un oggetto a suo modo prodigioso. Non saranno proprie le rondini il simbolo di quella umanità degradata delle campagne americane, e le “zucche” il loro rifugio contro gli uccelli rapaci che le insidiano, qualcosa appunto di semplice, affabile e amichevole nel deserto della loro terribile condizione?

In copertina, © Dorothea Lange

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