Occhio rotondo 19. Nero

19 Novembre 2023

Durante questo mese ho aperto e sfogliato più volte il catalogo della mostra di Paolo Pellegrin, L’orizzonte degli eventi (fino a gennaio a “Le Stanze della Fotografia” a Venezia, curata da Denis Curti e Annalisa D’Angelo, Marsilio Arte). Contiene una serie di fotografie scattate nei territori di guerra, dalla Ucraina a Gaza, e in altre martoriate zone del Pianeta. Sono immagini che ti lasciano a bocca aperta per la loro crudezza e nel contempo per la loro bellezza, che non nasce però da aspetti estetici, ma morali. Meglio: dalla partecipazione di Pellegrin. Sono foto in bianco e nero – più nero che bianco – in cui la distanza tra chi è raffigurato e chi scatta è quasi assente: il fotografo è dentro alla foto. Si sente l’aria che fluisce intorno a lui, che è la stessa che scorre intorno ai soggetti dei suoi scatti.

Partecipa, non solo con gli occhi, cosa ovvia per chi guarda e preme il pulsante, ma con il suo stesso corpo. Pellegrin non c’è nell’immagine. Non si fotografa dentro la scena, eppure è dentro. È qualcosa di particolare, perché il luogo che inquadra comprende quasi sempre il terreno su cui lui poggia i piedi. Aria e terra intorno a lui, e a tutti: la stessa aria e la medesima terra. Qualcosa di unico, che non riguarda tanto il punto di vista, bensì il modo con cui Pellegrin si pone mentre scatta. Non c’è nessun pathos della distanza; questa è abolita, e tuttavia ciò non significa che dentro la foto ci sia davvero il corpo del fotografo. Piuttosto il suo fantasma. Questo del fantasma è un tema importante nell’opera di Pellegrin. Lo ha visto per primo Germano Celant scrivendone nel catalogo della mostra al Maxxi anni fa, nel 2018.

Lo ricorda Denis Curti nel suo testo veneziano: il fotografo si rapporta all’orrore come se fosse un fantasma trasfigurando il tutto in un “incubo per il nostro inconscio”. Pellegrin fotografa in modo che i soggetti che passano davanti al suo obiettivo si trasformino in qualcosa di evanescente. Come accade? Sfuocando l’immagine e inclinando il punto di vista. Meglio: usando la macchina fotografica come se fosse in bilico, spostata, instabile. L’effetto è quello di qualcosa di fluido, sfuggente, inafferrabile, anche quando l’immagine è perfettamente a fuoco. Restituisce l’instabilità della fotografia di guerra mentre si sta combattendo. E non c’è solo questo.

Anche quando fotografa non le vittime, o i partecipanti al conflitto – mentre sparano o fanno altro per difendersi o offendere – tutto sembra comunque fantasmatico. Scrive Curti: si vedono immagini immateriali, fluide. L’hanno colto bene altri critici che mettono l’accento sul chiaroscuro simbolico delle sue immagini (Kathy Ryan): sembrano immagini fuligginose e insieme grintose. C’è energia nei suoi scatti, che deriva dall’ossessiva ricerca di una “briciola di chiarore nell’oscurità”. Tutto è caliginoso, ma quel nero, che ricorda immancabilmente quello di Goya, contiene anche qualcosa di vitale. Non sono solo fantasmi quelli raffigurati da Pellegrin, come nei Disastri della guerra dell’artista spagnolo, ma è un fantasma lui stesso in mezzo ad altri fantasmi che ritrae.

Dentro la foto, anche se non si vede. O forse no, si vede benissimo: nel nerofumo del riquadro c’è anche il fantasma Paolo Pellegrin. Che siamo tutti dei fantasmi, creature destinate a scomparire, cioè mortali, lo sappiamo bene. Ma un conto è saperlo seduti in poltrona o al tavolo di lavoro, come io in questo momento, e altra cosa è saperlo sul campo di battaglia, tra le macerie di Gaza o di una qualsiasi città della Ucraina o dell’Iraq. Pellegrin partecipa della natura di tutti quelli che ritrae. Non solo perché rischia la vita ad essere lì in quel momento, ma perché s’identifica con la natura stessa di fantasma di tutti i presenti. La ricerca della luce è l’acquisizione disperata della speranza, l’ultima a morire. La fotografia registra questa indefessa cattura del lume, come la lampada che appare nel quadro Guernica di Picasso. Fate luce! sembra dire Pellegrin, la luce in mezzo alla guerra, la luce dei corpi, anche di quelli morti. Cerca questo e perciò registra l’oscurità del suo essere in quel luogo.

Ho scelto tra le fotografie di questo libro scuro, emozionante e terribile insieme, una foto in cui tutto ciò emerge con meno evidenza, e che proprio per questo ci dice qualcosa sull’umanità di Pellegrin. Si tratta del ritratto di alcune donne serbe che piangono un uomo ucciso dagli albanesi a Obillc nel Kossovo, ventitré anni fa. Ricorda il Compianto sul Cristo morto di Guido Mazzoni. Appartiene a quella ritualità del cordoglio. Siamo dentro una casa. S’intravede la parte alta della porta composta di nude assi di legno e il muro sbrecciato che ha perso il suo intonaco e ora mostra i mattoni. Non si scorge il corpo dell’uomo. Ci sono solo donne, che guardano all’ingiù, verso l’assente presente. Lo strazio si disegna sui loro visi in forme diverse: dolore, rassegnazione, curiosità, sorpresa, prossimità. Ci sono tante sfumature sui volti delle donne.

Il nero è il protagonista dello scatto, il nero e i grigi dipinti in vari punti dell’immagine. Non è una foto stravolgente come altre della mostra veneziana. Rappresenta un momento di pausa nell’eterna vicenda dell’odio delle guerre e delle rivalità e vendette, una pausa di dolore, comunque una pausa. Pellegrin vuol dirci qualcosa di più intimo, qualcosa che è legato alla morte e alla sofferenza umana, qualcosa che possiamo condividere, e che lui stesso ha condiviso con la sua partecipazione. Il fotografo guarda i vivi che guardano il morto. Lui è vivo e ce lo dice; è vivo perché guarda e ci fa guardare. La luce nella stanza è scarsa, ma a fissare la porta si capisce che là fuori c’è più luce: s’insinua tra le tavole, sono interstizi bianchi. È notte dentro ma fuori il giorno è pieno e luminoso. 

Paolo Pellegrin, Donne serbe piangono un uomo ucciso dagli albanesi. Obilić, Kosovo, 2000. ©Paolo Pellegrin/Magnum Photos

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