Carla Lonzi. Scritti sull’arte

22 Febbraio 2012

Esce oggi il volume di Carla Lonzi, Scritti sull’arte (a cura di L. Conte, L. Iamurri e V. Martini, edizioni et. al) che raccoglie saggi, articoli e conversazioni: testi noti e meno noti, prodotti dal 1955 al 1970, che ricostruiscono l’interessante percorso umano e intellettuale della filosofa e critica d’arte.

 

Anticipiamo qui un breve testo del 1968 dedicato all’opera di Mario Nigro e la copertina del volume.

 

Leggi il testo di Carla Lonzi, scaricabile in pdf

 

In occasione dell’uscita del volume abbiamo voluto ricordare l’autrice e il suo rapporto con Mario Nigro attraverso un testo di Michele Dantini, che pubblichiamo di seguito.

 


 

Storiografia e “crudeltà”. Microsaggio su Carla Lonzi

 

Possiamo considerare Autoritratto (1969) di Carla Lonzi una sorta di dialogo o convivio tra invitati elettivi, una conversazione attorno a un mistero che Cy Twombly, musa silente, si incarica di custodire. Quale sia il mistero attorno a cui la giovane critica si muove in veste di lieve, carismatica e perspicace sacerdotessa - così la ritraggono al tempo sia Luciano Fabro che Giulio Paolini - è presto detto: spetta a Lucio Fontana rivelarlo almeno in parte, con parole insolitamente esplicite. “Anche la mia arte”, leggiamo, “è tutta portata su questa purezza, su questa filosofia del niente, che non è un niente di distruzione, è un niente di creazione, capisci?”.

 

Il rito di Autoritratto ha caratteri per lo più ludici (o “divagati”) e in parte giovanilistici: pure non sono da trascurare le minoritarie voci e i frammenti di conversazione che introducono a dimensioni più composte e severe. Gli orientamenti né laicistici né progressisti (in senso ideologico) dell’attività di Lonzi, che sceglie per la copertina di Autoritratto l’immagine di santa Teresa di Lisieux nel ruolo di Giovanna d’Arco in prigione, attendono di essere riconosciuti adeguatamente. L’invocazione di una “purezza” né stilistica né convenzionalmente morale potrà forse risultare più trasparente se connessa alle esplorazioni di liturgie in corso, per quel che ne sappiamo, nella cerchia di Longhi, maestro e mentore di Lonzi almeno sino al 1963, e particolarmente di Anna Banti.

 

Nei mesi in cui supponiamo si accumulino le prime sbobinature di Autoritratto, nel 1968, Lonzi ha sul tavolo di lavoro gli appunti per un breve saggio dedicato a un artista tra i più anziani di Autoritratto, Mario Nigro: è prevista la pubblicazione di un volumetto monografico per le edizioni Scheiwiller. Presentato da Giulio Carlo Argan in chiave Optical nel catalogo della Biennale dello stesso anno, Nigro è tra gli artisti italiani più in auge e attrae critici di differenti generazioni. Ne hanno scritto recentemente Ludovico Ragghianti, Maurizio Calvesi, Germano Celant, Tommaso Trini. Nell’autunno 1967 Paolo Fossati ha curato la mostra di Nigro alla galleria Notizie e introdotto all’attività dell’artista i lettori torinesi dell’Unità. Nigro richiede un suo contributo per la monografia Scheiwiller: Lonzi si trova quindi a pubblicare il proprio testo fianco a fianco del più qualificato giovane critico di area neo-marxista, da cui la dividono molte cose, e sa che la notorietà di Nigro è connessa al dibattito su arte e industria.

 

Le circostanze che spingono Lonzi a manifestare un ampio e duraturo interesse per Nigro possono essere molteplici e (nel caso della pubblicazione Scheiwiller) in parte persino contingenti. Il testo che qui ripubblichiamo è per più versi paradossale: polemizza in modo strategico con le assunzioni correnti attorno all’artista. L’interpretazione insiste sull’inquietudine etico-religiosa e tralascia riferimenti politici. Lonzi afferra l’oggetto di indagine, Nigro, lo trascina sino al punto cui desidera giungere, forse oltre le possibilità di Nigro stesso, e poi lo abbandona, prefigurando il prossimo distacco dall’arte e dall’attività di critica.

 

Apprendiamo in primo luogo che Nigro è un artista della “totalità”: un “cosmico”, potremmo dire citando proprio Lonzi interprete (nel 1966) del Doganiere Rousseau, oppure un “orfico”. La costellazione entro cui appare situato non è neoplastica, suprematista o neofuturista, per quanto possiamo essere inclini a ritenere che le variazioni di Nigro costituiscano eco visuale delle Iridescenze di Giacomo Balla. Nessun enunciato prescrittivo o norma razionale reggono, agli occhi di Lonzi, l’attività di Nigro: questi indaga la “vita”, il desiderio, l’“infinito” in modo che agli occhi dell’interprete richiama Pollock, Tobey, Duchamp o “un monaco zen”.

 

La genealogia stabilita è a dir poco bizzarra: in controtendenza, tale da desocializzare e depoliticizzare l’attività dell’artista. Sia pure indirettamente, Lonzi iscrive Nigro nella tradizione spazialista e coglie il proposito di oltrepassamento del quadro in direzione dell’“esperienza”. Un sottotesto storico-politico sorregge l’interpretazione: il tempo delle grandi narrazioni è venuto meno, l’ideologia non può modellare le attese di futuro, “Nigro si trova a impostare il lavoro in un momento in cui l’esperienza della vita appare tutta da imbastire di nuovo”.

 

Non stupisce che Lonzi opponga pratiche sperimentali a “progetto” e “aut aut” politico-culturali: lo ha fatto già nel 1963 in polemica con Argan. Per di più Nigro le sembra rilevante per “l’elemento febbrile e nevrotico”: non certo per la saldezza della sue composizioni. Colpisce invece un confronto inatteso e per più versi rivelativo. “L’essenza più autentica del manierismo, nei suoi aspetti non culturalistici, [è] la capacità acuta di dramma in una costruzione formale che è l’opposto della drammaticità. Certi riquadri, certe fughe di superfici di Nigro sono allucinati come certi sguardi o certi panneggi verdastri... di Pontormo”.

 

Il richiamo a Pontormo si chiarisce in Autoritratto, attraverso rare affermazioni autobiografiche di Nigro stesso. “Io, nella pittura, vedo come fondamentale quel problema che deve trovare una giustificazione di segno”, leggiamo. E ancora: “ho sempre seguito un ragionamento per assurdo... Quando ero ragazzo, sui 13-14 anni, ho cominciato a dipingere e avevo una passione formidabile... Avevo bisogno sempre di questo fatto psicologico, un fatto di amore, poi, in definitiva. A quell’epoca mia mamma mi portava sempre in chiesa, ero abbastanza religioso, lo confesso”. Giungiamo dunque al punto che preme a Lonzi, attraverso e oltre Nigro, attraverso e oltre l’aneddoto. Le scelte tecnico-stilistiche sono secondarie. Prioritaria è l’istanza di “autenticità”, addirittura (scrive Lonzi stessa in Taci, anzi parla, 1978) di “santità”. Il luogo dove collocarsi, per l’artista, non è l’“espressione” per sé sola né tantomeno la norma, la convenzione o la “scuola” pittorica: ma il punto (preformale) di intersezione tra scelta esistenziale e storia.

 

Più volte, nel corso del saggio, abbiamo accennato come a una dismisura di Lonzi, o all’arbitrarietà di taluni passaggi dell’interpretazione. In altre parole: che ha a che fare Nigro con Pollock o Tobey? L’arbitrarietà è deliberata e del tutto consapevole; conseguenza quasi di una scelta (mai resa esplicita) di “crudeltà” storiografica. Non appena posta la questione del rapporto tra arte e vita, o sollevata l’istanza dell’“autenticità”, Lonzi sembra come perdere interesse all’artista, distaccarsene per illuminarne il limite storico-generazionale e per così dire antropologico. “In [Duchamp, Tobey o in un monaco zen] il tempo appare sottoposto a una tecnica che assicura il permanere del godimento biologico individuale”, osserva Lonzi. In Nigro invece “l’assillo di una vita pienamente godibile... viene neutralizzato sul piano della razionalità”. Verticali e oppositive, le composizioni con “reticoli” manifestano “impotenza” e “fatalistica separazione”. L’artista, stabilisce l’interprete, non ha conosciuto “rivolta” e non conduce alla “liberazione”. Tra i più autorevoli esponenti della cultura italiana postbellica, Nigro appare non di meno dibattersi in un’infelice preistoria: “arte” e “cultura”, il gioco delle forme o l’equivoco della moralità collettiva, in lui uccidono ancora la “vita”.

 

Michele Dantini

 

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