Franco Cordelli racconta Sebastiano Vassalli

22 Ottobre 2011

Lo scrittore Sebastiano Vassalli compie settanta anni. Lo festeggia la rivista “Microprovincia”, edita da Interlinea, con numero tutto dedicato a lui.

Franco Cordelli gli ha dedicato questo scritto che pubblichiamo, testimonianza di amicizia e ammirazione nel corso degli anni.

 


 

Ci fu l’amore cortese, l’amore da lontano. Ci fu e, travestito, non più reso celebre, c’è ancora. A volte, per chiarire le cose, lo si chiama amore platonico. Lo si dice, quasi sempre, a un altro che potrebbe avere, su un rapporto di cui non sa nulla, idee diverse dalla realtà, così com’è. Comunque, sempre di amore si parla. Mai d’amicizia. Può mai un’amicizia esser detta platonica? Sembrerebbe, forse, pleonastica - una simile definizione; o rumorosa; o fuor di luogo. Ma non è vero. Io penso, seriamente, solennemente, che tra Sebastiano Vassalli, lo scrittore, e me, vi sia un’amicizia platonica. Che tra due scrittori, per di più della stessa generazione e di diversissima fortuna, vi sia amicizia è raro, è difficile. Ancora più difficile che, come gli amori, resista al logorio del tempo e delle abitudini. Ma se gli amori spesso si corrompono è proprio perché, al tempo e alle sue intemperie, e alle abitudini che impediscono il mutamento di passo, a tutto ciò gli amori espongono il loro corpo, la sua naturale consumazione. Tra me e Sebastiano, l’uomo, la persona, così non è successo: la nostra platonica amicizia si è corroborata nelle assenze. Perché ne sia data ragione, perché sia reso esplicito come ciò sia accaduto, rammenterò brevemente alcuni fatti, i pochi su cui posso credere (ne sono anzi certo) che lui e io abbiamo, senza saperlo, intrapreso l’inconsumabile strada di una singolare amicizia: i fatti, niente altro che i nudi fatti che riesco a ricordare. Vedo Sebastiano, vestito di nero, con una camicia slacciata sul petto, in un giorno di luglio del 1979. Eravamo a Roma, forse fu la prima volta che ci parlammo, lui aveva trentotto anni, io trentasei, parlammo di tutto e di niente, le petits rien, come chiamava Lampedusa, con il suo consueto modo scherzoso, affettuoso, le parole (ovvero i fatti) su cui s’era edificato il matrimonio con la moglie Alessandra. Poi lunghi anni di silenzio, o forse no, non so. Ma nel 1990 uscì La chimera, lo lessi, me ne invaghii. Forse cercai il suo numero, forse gli telefonai, o glielo scrissi. So che ci rivedemmo a Cortina, per la presentazione del libro, che concorreva a un premio. Su La chimera scrissi qualcosa, testimoniai la mia ammirazione, io ammiro ciò che non sono capace di fare. Può darsi sia avvenuto prima, o può darsi sia avvenuto dopo quell’incontro di Cortina. Quando non ricordo, ma sono certo che ero a Milano, presi un treno, scesi a Novara, Sebastiano era lì, che mi aspettava e che mi portò, in macchina, nella sua casa leggendaria (e ora che se ne è costruita un’altra, che non ho visto, già remota). Era una casa nell’aperto, cioè nella illimitata pianura, a me sconosciuta. Quella casa aveva una sua negligente maestà, una potenza raccolta e segreta, come sono quasi tutti i libri di Vassalli. Un altro incontro, che direi il quarto, avvenne molti anni dopo, di nuovo a Roma, cenammo con altre due persone, nella memoria percepisco le luci del ristorante, la voce di Sebastiano, il suo tutto apparente distacco – quasi la rabbia di un tempo, ben nota attraverso i mutamenti stilistici, fosse ormai dimenticata. Penso che da allora non ci siamo rivisti, sono passati una decina d’anni. Come dunque s’è sviluppata, o ha resistito la nostra amicizia? A Cremona incontrai un’infermiera nata a Novara che mi parlò di lui come di un uomo scontroso, come ognun sa, sebbene, nell’intimo, fedele a quanto è dovuto. Lo scorso anno, in treno, cominciai a parlare con un’altra donna, impegnata nell’amministrazione della sua città, la città, dico, di Sebastiano. Anche lei lo aveva conosciuto, non aveva molte occasioni d’incontrarlo, ma le poche parole che mi disse di lui, diciamo l’involontario ritratto che ne fece, somigliava a quello dell’infermiera. Sebastiano ha una legge inflessibile, che hanno pochi scrittori: non spende parole inutili, ma se vuole farti sapere o capire qualcosa di te o di ciò che hai fatto, si fa capire. È una buona legge, perché anche all’altro consente l’eloquente silenzio. Per il resto, una o due volte l’anno ci telefoniamo, compulsiamo come poco a poco, ci avviciniamo al traguardo, il traguardo lo disdegniamo, l’amicizia platonica ha questo di valoroso, che è più luccicante e sprezzante di ogni traguardo.

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