L’amico lontano (L’Intime Lointain)

19 Novembre 2015

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La storia di Naama Asfari sembra una fiaba al contrario, dove ad avere la meglio sul protagonista sono sempre crudeltà e ingiustizia. Noto attivista per la difesa dei diritti umani e giurista sahrawi, nel 2010 Naama è stato condannato dal tribunale militare marocchino a trent’anni di carcere per aver organizzato una manifestazione pacifica per il diritto all’autodeterminazione del popolo sahrawi nel Sahara Occidentale (ex Sahara spagnolo), territorio annesso militarmente al Marocco nel 1975 e da allora occupato dall’esercito marocchino. La vicenda di Naama Asfari rappresenta in maniera emblematica una delle battaglie più asimmetriche dei tempi odierni, la lotta del popolo sahrawi per la rivendicazione del diritto all’autodeterminazione attraverso un referendum organizzato nel 1992 sotto l’egida delle Nazioni Unite. I negoziati sono stati costantemente ostacolati dalla monarchia marocchina, che controlla illegalmente il territorio in violazione dei principi del diritto internazionale sui territori non autonomi riconosciuti dalle Nazioni Unite.

 

La Francia si è sempre schierata a favore del Marocco, giustificando l’invasione, l’occupazione e il saccheggio delle terre sahrawi e favorendo l’accettazione dello status quo da parte degli altri paesi europei. Inoltre, come membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, la Francia ha posto sistematicamente il veto a ogni proposta di indagine sulla situazione dei diritti umani nei territori occupati. Un’evidente contraddizione per la nazione che ha dato i natali alla Déclaration Universelle des Droits de l’Homme. Nel frattempo, questi territori sono diventati una nuova colonia africana. La temibile prospettiva di una ricolonizzazione del continente africano – messa in atto, con la complicità della Francia, attraverso l’invasione e l’occupazione marocchina del Sahara Occidentale, con l’intento di sfruttare illegalmente le risorse naturali del territorio su scala mondiale – è diventata una triste realtà. Ma la Francia non è l’unica ad avere responsabilità. L’intera comunità europea, la Russia, gli Stati Uniti e perfino l’Australia avallano l’occupazione illegittima e lo sfruttamento delle risorse naturali del Sahara Occidentale da parte del Marocco, facendo affari con quest’ultimo e commerciando i beni sottratti illegalmente al territorio. L’Office Chérifien des Phosphate (OCP), l’ente statale del Regno del Marocco che sfrutta massicciamente i fosfati del Sahara Occidentale illegalmente occupato, ha donato a Hillary Clinton cinque milioni di dollari, divenendo il principale finanziatore della sua campagna presidenziale negli Stati Uniti. Il Marocco ha stipulato accordi illegali con le industrie ittiche di tutto il mondo per lo sfruttamento delle acque territoriali del Sahara Occidentale, depredate ogni giorno dalla pesca industriale, e ha siglato illegalmente contratti per l’avvio di prospezioni petrolifere, dando in concessione alcune zone dei territori occupati a compagnie petrolifere internazionali.

 

In qualità di co-fondatore del Comitato per il rispetto delle libertà e dei diritti umani nel Sahara Occidentale (CORELSO), con sede a Parigi, Naama si è recato assiduamente nei territori controllati dal Marocco per accompagnare delegazioni straniere interessate a conoscere la situazione dei sahrawi. A causa delle sue attività in difesa dei diritti umani, Naama è diventato il bersaglio di attacchi sistematici da parte delle autorità marocchine. Negli ultimi sette anni, è stato arrestato sei volte con accuse del tutto arbitrarie, come il possesso di un portachiavi raffigurante la bandiera sahrawi, che gli è costato una condanna a quattro mesi di prigione. Nell’aprile 2008 è stato nuovamente portato via dalla polizia marocchina, legato nudo a un albero per tre giorni, preso a randellate e bruciato con sigarette, per poi essere rilasciato senza alcuna spiegazione. La tortura è diventata parte integrante della sua vita. Nella prima settimana dei trent’anni di carcere che sta attualmente scontando è stato costretto a rimanere in ginocchio, con le mani legate dietro la schiena con fascette di plastica, senza poter mangiare né bere, e umiliato nelle sue naturali funzioni corporee. È stato poi bendato per 45 giorni. Per Naama è una questione di famiglia: quando aveva appena sei anni, entrambi i genitori sono stati deportati a causa della loro militanza per i diritti umani. Il padre è scomparso nei gulag segreti del Marocco per sedici anni e la madre ha avuto un aborto mentre veniva torturata dalle autorità marocchine.

 

 

Nel corso degli anni, ho incontrato Naama e altri attivisti sahrawi in posti improbabili come Bir Lahlou, set del film Mad Max situato nel mezzo di un “deserto nel deserto”, con temperature record di 57 gradi. Percorrendo sentieri fantasma noti soltanto ai sahrawi, ci sedevamo sotto le chiazze d’ombra di qualche raro cespuglio spinoso, circondati da distese desertiche interamente lastricate di fossili marini dell’antica Gondwana. In vista di conferenze e incontri politici, discutevamo di geopolitica, diritto internazionale e della loro applicazione al Sahara Occidentale, tra meraviglie naturali come le formiche predatrici dalla superficie cromata, che riflettevano il calore infuocato del deserto e correvano sulla sabbia incandescente come una colata di perle di mercurio, dirigendosi temerarie a ispezionare il fuoco dove preparavamo il tè. Sopra di noi pendeva una fitta schiera di pezzi di carne di cammello dall’intenso color porpora, messi a essiccare sulle spine di un’acacia. Era questo il nostro ufficio. Altre volte ci incontravamo nelle periferie di Parigi, Madrid o Roma, e insieme lavoravamo a questioni di varia natura, come lo sfruttamento delle risorse naturali sahrawi a causa dei contratti illegalmente stipulati dal Marocco con la comunità internazionale, o alla preparazione di pubblicazioni, interviste e dibattiti. Nel 2007 Naama ha prestato il suo prezioso contributo al mio film Building Oblivion (“La costruzione dell’oblio”), centrato sul grande muro della repressione costruito dal Marocco e sulla violenta oppressione del popolo sahrawi da parte delle autorità marocchine. Ho visto Naama per l’ultima volta ad Algeri, qualche giorno prima che tornasse nei territori occupati per allestire un accampamento per 20.000 sahrawi che protestavano pacificamente contro la repressione marocchina. Il campo di Gdeim Izik fu poi violentemente attaccato e distrutto dalle forze marocchine l’8 novembre 2010, un evento che Ken Loach, Noam Chomsky e io stesso consideriamo come il vero punto di partenza della Primavera Araba del 2011.

 

Se in questa storia vi è un lato positivo, un raggio di speranza, è grazie alla moglie francese di Naama, Claude Mangin-Asfari, che ha lavorato strenuamente e senza alcun aiuto per fare pressione sulle ambasciate straniere a Rabat (inclusa quella statunitense), denunciando le circostanze dell’arresto del marito, le torture e le condizioni della sua detenzione. In fin dei conti è stata lei che ha posto fine al limbo in cui si trovava il marito. Insieme all’Associazione cristiana per l’abolizione della tortura (ACAT), nel febbraio 2014 è riuscita ad appellarsi ai tribunali francesi e al Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura, denunciando i crimini commessi da Abdellatif Hammouchi, capo dei servizi segreti marocchini (DGST), secondo solo al re del Marocco, responsabile delle torture dei prigionieri civili sahrawi. Il Marocco ha reagito sospendendo ufficialmente ogni accordo di cooperazione giudiziaria con la Francia. Da allora, Parigi ha fatto ammenda, rifiutando di perseguire ulteriormente Hammouchi e insignendolo persino della Légion d’Honneur, il riconoscimento più alto conferito dalla Francia.

 

Quanto a Naama, non si fermano le sue azioni di protesta, come il recente sciopero della fame di 38 giorni nella sovraffollata cella che divide con decine di attivisti sahrawi. Trenta uomini costretti a utilizzare un unico secchio per i loro bisogni e a dormire a turno, vista la mancanza di spazio sul pavimento. Nei territori del Sahara Occidentale occupati dal Marocco, non esistono diritti umani per i sahrawi, che ogni giorno vengono portati via, arrestati, torturati, violentati o fatti sparire per sempre, o giudicati dai tribunali militari degli occupanti e condannati a pene sconcertanti, superiori a vent’anni, per aver semplicemente protestato per i diritti più elementari.

 

 

Il Sahara Occidentale è un territorio diviso in due dalla struttura repressiva più grande della storia dell’umanità, una spaventosa barriera lunga 2.700 chilometri, costeggiata da oltre tre milioni di mine e controllata a vista da 140.000 soldati marocchini. Questo muro militare separa i sahrawi che vivono sotto l’occupazione marocchina da quelli dei campi profughi al confine occidentale con l’Algeria, con una vasta zona intermedia, quella dei Territori Liberati, reclamata dal Fronte Polisario, il braccio armato della nazione sahrawi. Nonostante le dimensioni, il muro della repressione rimane ancora quasi del tutto sconosciuto. Un paradosso nell’era di Internet e dei social network, nella quale siamo fermamente convinti che nessuna ingiustizia possa rimanere inosservata. Quanto alla risoluzione del conflitto, la comunità internazionale non si è ancora, incredibilmente, liberata dall’atavico riflesso di guardare alla Francia come l’autorità storicamente deputata a risolvere tutte le questioni relative al Maghreb, di cui conosce in dettaglio le circostanze, vista l’esperienza coloniale in Nord Africa. Il paradosso più evidente è che in Francia non vi è alcuna libertà di stampa su questa particolare faccenda, visto che quasi tutti gli editori dei maggiori quotidiani francesi e i direttori dei media hanno i loro riad (residenze private) in Marocco. Come potrebbero dunque degli ospiti pubblicare un articolo o mandare in onda un programma contro gli interessi di chi li accoglie?

 

Oltre alla rivista Mamba, l’unica pubblicazione francese ad aver affrontato la questione del Sahara Occidentale è il settimanale indipendente Charlie Hebdo, che vi ha dedicato una doppia pagina nel 2005. Se è vero che dall’attentato terroristico del 7 gennaio 2015, nel quale sono rimasti uccisi undici membri della redazione, “Siamo tutti Charlie”, allora dovremmo anche essere in grado di accorgerci dell’oppressione marocchina dei sahrawi nel Sahara Occidentale, rivelata dallo stesso Charlie. I pochi giornalisti che riescono a raggiungere i territori occupati vengono cacciati via e le loro attrezzature sono confiscate dalle autorità marocchine (solo nel 2014, sono stati espulsi dal Sahara Occidentale 56 giornalisti). Ad essere cacciati sono stati anche numerosi membri del Parlamento Europeo che indagavano sulla situazione dei diritti umani dei sahrawi. Perfino la Missione delle Nazioni Unite per il referendum nel Sahara Occidentale (MINURSO) ha subito l’umiliazione della confisca delle proprie attrezzature da parte dell’esercito marocchino.

È rintracciabile in questa situazione un elemento importante, fondamentale dal punto di vista simbolico, che funge da barometro del diritto internazionale. L’invasione e l’annessione forzata e unilaterale dell’agognato territorio del Sahara Occidentale da parte del regime espansionista marocchino nel 1975, lasciata impunita dalla comunità internazionale, ha dato il via all’analoga invasione del Kuwait da parte di Saddam. Azioni illegali, prive delle opportune sanzioni, incoraggiano dunque altri soggetti a fare lo stesso.

 

Paradossalmente, alcuni dei peggiori luoghi di tortura sono percepiti come paesi turistici, campioni di giustizia internazionale. In maniera del tutto cinica, nel novembre 2014, nel bel mezzo della brutale repressione del popolo sahrawi, il re del Marocco Mohamed VI organizzava a Marrakech il Forum Mondiale dei Diritti Umani. Nel febbraio 2015, il sedicente “re dei poveri” veniva additato da Le Monde come uno dei protagonisti dell’inchiesta SwissLeaks sui conti HSBC per aver frodato milioni di euro. Il tutto con la complicità di Parigi. In flagrante violazione della Carta delle Nazioni Unite, nello specifico dell’articolo 24, la Francia ha abusato del suo ruolo di membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ponendo sistematicamente il veto ad ogni mozione volta ad indagare lo stato dei diritti umani nei territori illegalmente occupati dall’alleato marocchino. Eppure la risoluzione del conflitto potrebbe essere semplice: se la Francia cessasse ogni interferenza e si attenesse all’imparzialità richiesta per legge ai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, il conflitto avrebbe maggiori possibilità di risoluzione. Ma Parigi gioca ostinatamente le sue carte nel Maghreb, favorendo sistematicamente il Marocco e opponendosi all’Algeria e alla maggior parte delle nazioni africane favorevoli all’autodeterminazione dei sahrawi. Al di là dei forti legami commerciali e politici che la Francia ha con il Marocco, verrebbe da pensare che questa continua opposizione a tutto ciò che proviene dall’Algeria sia dovuta al fatto che la Francia non ha mai digerito l’indipendenza faticosamente conquistata dall’ex-colonia. Una sorta di rancore psico-politico trasmesso alle successive generazioni di governanti francesi sin dall’indipendenza algerina del 1962.

 

 

Ironicamente, la nazione sahrawi rappresenta un fulgido esempio di libertà che dovremmo urgentemente riscoprire in tempi come questi, in cui in Medio Oriente e in Nord Africa dilagano corruzione e terrorismo. Siamo in presenza di una giovane nazione dove regna la democrazia, dove chi combatte per la libertà depone le armi e sceglie la strada della diplomazia e del diritto internazionale, senza dover mai ricorrere ad alcuna forma di terrorismo. Un paese dove vengono rispettati i diritti delle donne e la parità di genere (le donne hanno sempre fatto parte del governo sahrawi in qualità di ministre). Questa giovane nazione, patria di un Islam moderato, detiene il record di alfabetizzazione del continente africano, con il 100% della popolazione in grado di leggere e scrivere. Soprattutto, a mio avviso, vi è il fatto fondamentale che questa nuova nazione è riconosciuta dalla maggior parte dei paesi africani, tra cui Algeria, Angola, Nigeria e Sudafrica. Avendo sostenuto recentemente delle dure battaglie per la conquista dei propri diritti, la loro visione di questioni come l’emancipazione e l’indipendenza è di gran lunga più perspicace della nostra.

In qualche occasione, sono riuscito a comunicare con Naama dal carcere. “È questo il mio posto, è qui che adesso appartengo”, mi ha detto, e ho appreso che trascorre il suo tempo aiutando i prigionieri dell’Africa sub-sahariana, immigrati irregolari catturati dalla polizia mentre attraversavano il Marocco e sottoposti alle peggiori condizioni di detenzione per aver commesso l’errore di passare attraverso il territorio marocchino nel loro viaggio alla ricerca di un posto migliore.

 

Liberare Naama è una priorità. La sola sproporzione della condanna inflitta da un tribunale militare a un manifestante è in sé un dato allarmante, in termini di violazione dei diritti umani. Naama è in carcere da cinque anni e deve scontarne altri venticinque. Fin quando lui e gli altri detenuti rimarranno in carcere in condizioni così deplorevoli, sottoposti quotidianamente ad abusi e torture, il concetto di diritti umani progressivamente svanirà, come dell’acqua abbandonata al caldo torrido di quelle zone. Come scrive T.E. Lawrence in The Iraq Letters, “Si gode della libertà quando si è così ben armati, o così ribelli, o si vive in un paese così spinoso che i costi dell’occupazione del proprio paese da parte del vicino sono maggiori del profitto”. I sahrawi sono ben armati, ribelli, e non vi è terra più spinosa della loro. La loro causa prevarrà. Abbiamo finalmente l’esempio perfetto di ciò che definisco un caso di “pedofilia politica”, in cui una monarchia senescente, il Marocco, stupra una giovane nazione, la Repubblica Democratica Araba Sahrawi (RADS). Rabat e Parigi devono essere fermate e la maschera da paese turistico strappata dal volto dell’orco.

 

(Traduzione di Laura Giacalone)

 

 

 

Jean Lamore è autore e co-produttore del documentario Building Oblivion, sull’oblio della causa del Sahara Occidentale (andato in onda in anteprima su BBC World News nel 2007); co-fondatore e direttore della rivista culturale indipendente Mamba, con sede a Parigi; e autore di The Polisario Diaries (Diario del Polisario), La costruzione dell’oblio, The Sahrawis and the Polisario Front an Absolute Modernism, AKA Book of Fever e UQ11 Dawn’s Improbability.

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