Storia e cronaca / Il terremoto, Wikipedia e il tempo

4 Novembre 2016

Domenica 30 ottobre ero inchiodata, come milioni di italiani, di fronte alle immagini del terremoto che ha colpito, di nuovo, il centro Italia. Le immagini erano un po’ sgranate, pixellate, e già questo, in tempi di Full HD e banda larga e fotocamere sensibilissime nei cellulari, dava tangibile evidenza della difficoltà delle comunicazioni. Era un segno evidente dell’inciampo, dell’inadeguatezza della tecnologia, o per meglio dire dei suoi limiti, anche della sua fragilità, che a volte rischiamo di non percepire più.

Sentiti per telefono i miei parenti, saputo che stavano bene fisicamente, benché fossero provatissimi nello spirito, gli occhi tornavano alle immagini televisive. Soprattutto a quella facciata della basilica di San Benedetto, foglio di pietra rimasto miracolosamente in piedi mentre, dietro, mura e tetto sprofondavano, accumulandosi in macerie scomposte. Era come guardare il volto di Medusa, col fascino e l’orrore che si rincorrevano a gara.

 

Guardando quella chiesa bellissima, che colpevolmente non avevo mai visto di persona, pensavo che – come la Siria, ad esempio – esistono luoghi, nel mondo, che sembrano scolpiti nell’eternità: uno pensa “prima o poi devo andarci, devo andare a vedere, posare i piedi lì, girare intorno a quelle chiese, vedere come il sole del mattino batte su quelle pietre”, e pensa di avere tutto il tempo del mondo per farlo: perché la vita è lunga, le pietre eterne. E poi all’improvviso, il tempo finisce: quella possibilità si cancella, un pezzo del mondo scompare, e un pezzo di noi – quello che potevamo essere, essendo lì – scompare con lui.

 

 

Guardando quella facciata senza più niente che la sostenesse, senza pinnacoli, senza croce, ho avuto voglia di vedere com’era prima, ripercorrere le vicende che aveva attraversato riuscendo a rimanere in piedi, nei quasi inevitabili avvicendamenti di costruzione e ricostruzione, di morte e resurrezione, che ogni monumento attraversa: vederla ancora viva, ancora battuta dal sole; con i suoi colori, i colori che aveva fino a ieri, non con quel biancore lattiginoso della polvere sollevata dal terremoto.

Ho fatto ciò che facciamo tutti, tante volte: ho aperto la voce “Basilica di San Benedetto” di Wikipedia. E lì, lo shock. A distanza di non più di tre ore dalla scossa di terremoto delle 7.40, alla voce primaria riassuntiva, quella per intendersi che raccoglie i dati geografici e cronologici e precede l’Indice («La basilica di San Benedetto è un importante luogo di culto cattolico di Norcia, in provincia di Perugia, situato nel centro storico della città; rientra all’interno del territorio della parrocchia di Santa Maria nella Concattedrale [...]. La basilica sorge su quella che secondo la tradizione era la casa natale dei santi Benedetto e Scolastica, nati nel 480 d.C. da una nobile famiglia, come riferisce san Gregorio Magno nei suoi Dialoghi»), era stata aggiunta questa riga e mezza: «La basilica è in gran parte crollata in seguito al violento sisma del 30 ottobre 2016. Soltanto la facciata e parte delle navate sono rimaste in piedi».

L’effetto di terremoto temporale è stato fortissimo.

 

Ciò che stavo e stavamo vedendo come cronaca, come irruzione dell’hic et nunc nei tempi lunghi della vita, si era già trasferito sulla pagina dell’enciclopedia digitale. Evidentemente qualcuno non si era fermato e smarrito, come me e come tanti, davanti a quelle immagini, ma aveva aggiornato la pagina: fissando l’esito ultimo, a oggi, della storia di quella chiesa.

L’effetto, su di me – lettore ideale –, non è tuttavia stato di riconoscenza, ma di dispetto. Aprendo quella pagina, io cercavo di fermare il tempo: cercavo un appiglio allo sgretolarsi delle cose, cercavo di fermare gli occhi su una parola che permanesse, mentre la res si era distrutta poche ore prima. Cercavo una pagina che trattenesse come tesoro prezioso l’immagine e la storia di quella chiesa, prima che la natura rapinosa se ne facesse beffe, e la leopardiana «una ruina» la travolgesse. Cercavo di pensarla com’era, prima di essere costretta dalle cronache a vederla così com’è.

Non è questo che chiediamo ai libri? Una sospensione del tempo, il racconto e l’immaginazione di ciò che era e che potrebbe continuare a essere, se solo gli concediamo lo spazio della nostra memoria. Ma la memoria dell’enciclopedia digitale non è fissata su carta, quella carta lenta che ci consente di trattenere il passato e di dare forma al tempo: vive dei tempi brucianti dell’ora, dell’aggiornamento dello status – che cosa stai facendo in questo momento? dove sei? che cosa stai guardando? che cosa stai fotografando, senza neanche guardarlo?

 

Leggere che la basilica «è in gran parte crollata» in seguito al terremoto che è accaduto oggi, stamattina, a me provoca un grande turbamento. È come se non avessi ancora avuto il tempo di pensare a quel crollo, di metabolizzarlo, di piangerlo, e già mi viene indicato come storia. Un simile shock l’aveva messo in carta forse solo Petrarca, quando all’inizio del sonetto 18 scriveva: «Quand’io son tutto volto in quella parte / ove ’l bel viso di madonna luce, / e m’è rimasa nel pensier la luce / che m’arde e strugge dentro a parte a parte...». Solo Giuseppe Ungaretti aveva avuto il coraggio di guardare in faccia la realtà temporale, e grammaticale, di quel “m’è rimasa”: un passato che si insinua nel presente più assoluto («Quand’io son tutto volto») e lo travolge, trasformandolo in memoria non dopo che si è compiuto, ma nel momento stesso in cui si compie. Però per Petrarca è un azzardo logico, un enigma, l’ennesimo gesto antidantesco, forse la traduzione di un rapporto temporale agostiniano: una sfida all’intelletto, la vita che si trasforma in memoria e in letteratura senza neanche vivere come vita. Wikipedia ha meriti grandissimi e innegabili, ma quella riga e mezza non è una sfida: semplicemente, liquida la storia ponendola sotto le insegne dell’oggi.

 

Ma il lutto ha i suoi tempi: scrivere che la basilica «è crollata», senza darsi il tempo della percezione, dell’accettazione, dello smarrimento e del lutto, non può, appunto, che liquidare la vicenda, saltando a piè pari il tempo del pianto. Vedere scritto che la basilica «è crollata», mentre quasi la si vede crollare, non dà scampo. La lunga storia della basilica di San Benedetto si chiude qui, senza il conforto di un rifugio possibile: quello che darebbe, ad esempio, un’enciclopedia cartacea che uno potrebbe sfogliare, per sospendere il tempo e continuare a far vivere nella memoria ciò che gli accidenti dell’oggi hanno distrutto.

La lotta della cronaca contro la storia è crudele. Basterebbe, a insegnarla, la struggente ottava finale dell’Innamorato del Boiardo, in cui l’entrata in Asti, nel 1494, delle truppe di Carlo VIII mette fine ai giochi e ai sogni e al tempo lungo del racconto. Boiardo vede dalla finestra «questi Galli», che vengono a conquistare non si sa quale prodigioso e glorioso luogo, li guarda con irrisione, ma è costretto a deporre la penna:

 

Mentre che io canto, o Iddio redentore,

Vedo la Italia tutta a fiama e a foco

Per questi Galli, che con gran valore

Vengon per disertar non so che loco;

Però vi lascio in questo vano amore

De Fiordespina ardente a poco a poco;

Un’altra fiata, se mi fia concesso,

Raccontarovi il tutto per espresso.

 

«Un’altra fiata», l’altra volta del racconto, non gli fu concessa: Boiardo morì tre mesi dopo. Nello scontro tra la storia e la cronaca aveva già vinto la seconda.

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