5 per mille

Dopo il referendum: una sconfitta e una sfida

11 Giugno 2025

A volte è vero che le sole battaglie che si vincono sono quelle evitate. È vero, fuor di metafora, soprattutto per quelle cruente, in cui si sparge il sangue. Non se ne evitano mai abbastanza.

Le battaglie politiche e sociali, però, sono altro dalla metafora e dalla realtà bellica, per fortuna. Ce ne sono diverse che, invece, vengono perse in partenza proprio perché evitate. Non vengono combattute e, dunque, lasciano le cose come stanno. Ingiuste, inique, discriminanti. Non ci si prova nemmeno, a cambiarle, pur reputandole tali.

Prendiamo gli obiettivi di tutela del lavoro ed estensione dei diritti al centro dei quesiti referendari dell’8 e 9 giugno scorsi. Una sconfitta, certamente, per chi li sosteneva, in primo luogo della sinistra politica e sindacale.

Cosa avrebbe significato, tuttavia, non dare questa battaglia? Semplicemente, lasciare le cose come stavano. Non provarci nemmeno, appunto.

Chi sostiene che ricorrere al referendum significhi usare lo strumento sbagliato per uno scopo condivisibile non dice (tutta) la verità. È certamente vero che se ne è fatto un uso non sempre ben comprensibile al corpo elettorale, al paese. Ed è pure vero che, nella tendenza generale a un forte ridursi dei votanti, è rischioso ricorrere a uno strumento il cui esito, per essere validato, richiede un quorum di votanti fissato sulla base dell’intero elettorato degli aventi diritto, mentre da decenni un forte e crescente astensionismo è diventato strutturale (alle elezioni europee del 2024 ha votato solo il 48%) al punto da mettere quel quorum, per così dire, in fuorigioco, con gran parte del corpo elettorale che se ne sta al di qua della linea di contesa.

Altrettanto vero è che, quasi sempre, ha avuto mano facile chi, volendo far fallire una battaglia referendaria, non l’ha più combattuta apertamente bensì obliquamente, o aggirandola, o provando a svuotarla, cioè ricorrendo al non voto (stando a casa o, come adesso, nella variante “ci vado e non ritiro la scheda” praticata dalla nostra premier, nella sua personale reinterpretazione di Ecce Bombo: “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”).

Oltre ai limiti dello strumento referendario per come è venuto definendosi da una ventina d’anni in qua e, ovviamente, oltre al silenzio obliante e, nelle ristrette agorà in cui se ne parlava, alle chiacchiere mistificanti che l’hanno circondato anche stavolta, occorre valutare quali diversi strumenti si sarebbero potuti utilizzare al posto del referendum, concordando sulla necessità e sull’urgenza di affermare i diritti oggetto del voto.

Certo: scioperi, manifestazioni, petizioni, appelli, mobilitazioni di vario genere. Ma non ne sono mancati, in questi anni, in questi lustri, da quando riforme specifiche hanno indebolito e precarizzato il mondo del lavoro. O in questi decenni, quanto al tema della cittadinanza. Ebbene, è cambiato qualcosa? Si trattava di cambiare norme di legge che soltanto in parlamento si possono stabilire o modificare. E in parlamento, invece, dopo essere state peggiorate a suo tempo, non si è mai trovato il tempo né la volontà di ridefinirle secondo quanto si aspettavano molti soggetti del mondo del lavoro, oltre alle generazioni tenute del limbo della non cittadinanza. Ma le domande restavano, urgevano nel concreto della realtà sociale e della vita delle persone. E anche se lotte e vertenze si accendevano, quegli aspetti discriminanti permanevano, e anche se la cittadinanza sembrava cosa fatta nell’esperienza reale (lingua parlata, cultura e stili di vita assimilati e mixati, appartenenza a un mondo esattamente uguale a quello degli italiani di diritto) quella legale delle nuove generazioni formalmente non italiane restava al di là, irrisolta, umiliante. Anch’essa, infatti, andava e va conquistata in parlamento, il luogo delle leggi.

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Il solo strumento diretto per incidervi, oltre alle elezioni politiche e alla rappresentanza parlamentare che possono produrre (un discorso che andrebbe fatto a parte, cominciando dall’insipienza e dall’autolesionismo dimostrato da chi nel 2022 guidava le forze ora promotrici di questi quesiti…), era, è, esattamente il referendum, nelle modalità possibili, abrogative di norme specifiche, quelle che nelle schede vengono spesso descritte con lunghi e tortuosi riferimenti a commi e articoli etc. etc., inevitabili in quei busillis: proprio in diebus illis, in quei giorni in cui le questioni vengono pedissequamente formalizzate secondo tali procedure. Val la pena di ricordarlo, perfino in latinorum, perché attorno a questi aspetti si è sviluppata a volte una polemica, come se la relativa incomprensibilità dei quesiti o la limitatezza del raggio d’azione dello strumento fossero colpa dei promotori e non le forche caudine attraverso le quali sono costretti a passare.

La battaglia bisognava darla. Poi, si poteva condurla meglio, studiare meglio i tempi, tutto discutibile. Non sempre, ad esempio, è stato chiaro che gli aspetti oggetto del referendum erano parte di una più vasta iniziativa sul lavoro, capace non solo di contrastare quelli ma anche di ridefinirne il senso e di affrontarne le sfide più generali e profonde, a cominciare da salari e stipendi insopportabilmente bassi e dall’impatto delle nuove tecnologie e dell’intelligenza artificiale (non sono la stessa cosa…), dalla dinamica e cangiante composizione della forza lavoro nella nuova stratificazione della società (cfr. Piergiorgio Ardeni, Le classi sociali in Italia oggi, Laterza 2024, ma anche Carlo Trigilia, La sfida delle diseguaglianze. Contro il declino della sinistra, Il Mulino, 2022).

Per quanto riguarda l’Italia, poi, nella discussione referendaria è rimasta sullo sfondo, insieme alla storica incapacità delle classi dirigenti del paese di sviluppare una politica industriale all’altezza dei tempi, la consapevolezza del peso crescente assunto dall’emigrazione delle nuove generazioni che se ne vanno all’estero (150 mila nel solo 2024) in cerca di un lavoro decente (a fronte di una sua qualità qui frequentemente depressa: Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita, Francesca Coin, Einaudi, 2023) e di una vita più limpidamente affidata alle capacità e alle speranze di ognuno, a un sistema più trasparente ed efficiente e a società più consapevolmente aperte. Una nuova generazione di spatriati (diversa e successiva a quella narrata benissimo da Mario Desiati nell’omonimo romanzo del 2012 per Einaudi).

La sacrosanta battaglia ingaggiata col referendum sul piano che non era possibile evitare (abrogazione/cambiamento di norme che il legislatore non aveva finora accolto, ignorando l’istanza, o che aveva addirittura peggiorato) ha avuto, in questo senso, dei limiti che hanno pesato sul risultato finale. Si poteva fare meglio: comunque, ci sono oltre 13 milioni di Sì, ai quesiti sul lavoro, in prevalenza espressi da donne, a chiarire chi guidi davvero oggi nella società il cambiamento. Diverso e per certi aspetti inquietante il dato sulla cittadinanza, relativo non solo all’insieme della società italiana ma, in particolare, al rapporto non di rado difficile che con l’immigrazione ha la stessa base sociale della sinistra.

Giusto, dunque, valutare criticamente contenuti e modi della battaglia data. Ma la sostanza resta: non si poteva – e non si doveva – evitarla.

Unire le forze che hanno votato e partecipato alla campagna (e unirle alla piazza per la pace del 7 giugno) è ciò che va fatto ora. Non si tratta di consolarsi con quello che si è racimolato. Si tratta di vederne il potenziale, la forza che contiene: milioni di persone motivate ad agire, a non sopportare la stasi ingiusta in cui vengono calpestati diritti fondamentali, motivate a fare qualcosa davvero. A stringere un patto, perfino. Questa è la sfida.

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