5 per mille

Il permesso di essere umani. Il quinto referendum

3 Giugno 2025

“Aspettano il permesso di essere umani”: così su “Time Magazine” lo scrittore e fotografo Teju Cole, commentando un’immagine dall’alto di una fila “serpeggiante” di migranti nel campo profughi di Moria in Grecia.

Lo cita, in uno dei libri più belli di questa stagione, Cronache di un mondo in movimento (Gramma Feltrinelli, 2025), splendida e drammatica raccolta di saggi narrativi sul nostro tempo, Anna Badkhen, scrittrice e reporter. Nata in Unione Sovietica, Badkhen vive negli Usa e, appunto, gira il pianeta in cerca di storie significative e, spesso, le trova tra la gente in movimento, tra i migranti, sulle loro piste e nei luoghi da cui parte il loro cammino: “Quando inizia un viaggio? Quando la siccità secca la terra, o quando le frane travolgono intere fattorie e le scagliano in un burrone, oppure quando le inondazioni sommergono i raccolti? Quando le mandrie diventano sempre meno numerose o i pesci se ne vanno in cerca di mari più freddi? Quando i pozzi vengono contaminati dalle trivelle? Quando scoppiano le guerre per il controllo delle risorse? Quando la disgregazione della politica rispecchia l’inesorabile deterioramento della Terra?”.

Il libro è molto altro, ma, in un certo senso, è anche una sapiente guida al presente, a scegliere una posizione morale e politica su cruciali questioni che ci interpellano. Perfino sul prossimo referendum dell’8 e 9 giugno, ad esempio. In particolare, sul quinto quesito proposto, spesso indicato come “diverso” dai quattro precedenti, dedicati al lavoro.

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Com’è noto, i primi quattro quesiti, puntano a rendere il lavoro più sicuro e protetto: il primo mira a fermare i licenziamenti illegittimi, abrogando le norme che, nelle imprese con oltre 15 dipendenti assunti dopo il 7 marzo 2015 (3,5 milioni di occupati), impediscono il reintegro, previo risarcimento, anche nel caso in cui la giustizia dichiari infondata l’interruzione del rapporto; il secondo mira ad abrogare la norma che riduce tale risarcimento a sei mensilità al massimo per chi lavora nelle imprese con meno di 16 dipendenti (3,7 milioni di occupati); il terzo mira a ripristinare l’obbligo di una causale per il ricorso a contratti a tempo determinato (2,3 milioni di occupati); il quarto chiede di abrogare le norme che in caso di infortunio negli appalti impediscono di estendere la responsabilità all’impresa appaltante (sono oltre mille all’anno i morti e almeno 500 mila le denunce annuali di infortuni sul lavoro).

Il quinto quesito referendario, dunque, sembra proporsi obiettivi diversi, riguardando la cittadinanza, cioè mirando a ridurre da 10 a 5 gli anni di residenza legale in Italia richiesti, oltre ad altri requisiti (conoscenza della lingua, fedina penale pulita, permesso di soggiorno…) per poter fare domanda di cittadinanza italiana, poi trasmissibile a figli e figlie minorenni. È una modifica – una conquista – che riguarderebbe all’incirca 2,5 milioni di persone (oltre alle generazioni future) che in Italia nascono, crescono, vivono, studiano e lavorano e che tuttavia vengono considerate straniere.

In realtà, proprio la mancanza della piena cittadinanza mette molti lavoratori alla mercè delle condizioni oggetto degli altri quattro quesiti referendari. Sui lavoratori regolari e in possesso del permesso di soggiorno, ma non della cittadinanza, grava la spada di Damocle della possibilità, sempre incombente, di perdere quel permesso e, comunque, di uno status dimidiato, che li rende inermi di fronte al ricatto di situazioni altrimenti inaccettabili, dal punto di vista sia salariale che delle modalità di lavoro, e in forte difficoltà a ottenere giustizia nei tribunali (anche se, grazie all’assistenza dei sindacati, confederali e di base, le cose stanno cambiando). Quanto alle persone senza permesso di soggiorno, “irregolari” (“clandestine”, per l’odioso linguaggio di tanta politica e tanti media), sono la massa destinata ai circuiti del lavoro nero, sfruttato spesso ai limiti della resistenza fisica. Molto produttivo e redditizio, tuttavia, per chi ne sfrutta la forza lavoro e ne estrae il plusvalore. Un circuito economico e un settore dell’occupazione “marginale” soltanto per quel che riguarda la condizione soggettiva di chi vi lavora, ma dal punto di vista oggettivo, economico e produttivo, niente affatto trascurabile, anzi.

Un recente numero di “Economia e società regionale”, rivista dell’Ires - CGIL Veneto, Il lavoro degli immigrati in Italia: forme, tendenze, condizioni (1/2024, Franco Angeli editore), evidenzia esattamente questo. Nelle profonde trasformazioni del lavoro che le rivoluzioni tecnologiche, in particolare la digitalizzazione e il generalizzato ingresso della Intelligenza artificiale, hanno apportato, combinate con la continua ristrutturazione della divisione internazionale del lavoro, uomini e donne di origine straniera sono divenuti un elemento strutturale del mercato del lavoro e dell’economia nazionale: “Ciò è avvenuto all’insegna di una forte segregazione occupazionale che lo ha trasformato – come nel caso dell’agricoltura, dell’edilizia, della logistica, del lavoro di servizio, del lavoro di cura, del lavoro domestico – in un elemento insostituibile” e, se una parte comunque rilevante della forza lavoro immigrata si è stabilizzata e ha acquisito posizioni più centrali nel mercato del lavoro ufficiale, persiste un’ampia zona segnata dai cosiddetti “impieghi 3D” (Dirty, Dangerous, Demandig: sporchi, pericolosi, pesanti – e malpagati, ovviamente), caratterizzati da “precarietà, sotto-inquadramento, bassi salari, lavoro povero, alto rischio infortunistico, vulnerabilità” condizione che “alimenta costantemente la disuguaglianza strutturale che interessa buona parte delle popolazioni immigrate in Italia”.

La questione riguarda tuttavia anche l’insieme del mondo del lavoro, poiché la vulnerabilità (per carenza di diritti ed esposizione ai ricatti) della forza lavoro immigrata è un fattore di precarizzazione generale e “un laboratorio di sperimentazione di pratiche da estendere a fasce più ampie di lavoratori e ad altri settori”. Si comincia sempre dai meno tutelati e poi si passa agli altri. Il mondo del lavoro ha tutto da perdere, nel suo insieme, dall’assenza di diritti di una sua parte. A ciò mirano da sempre le componenti più ciniche dell’impresa e dell’economia e le forze politiche che della vessazione della popolazione immigrata hanno fatto un punto cruciale del proprio discorso pubblico e del proprio programma (anche di governo). Analogamente, a figure che l’assenza di diritti sbatte ai margini estremi della società ricorrono le organizzazioni criminali.

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Sono ragioni forti e cristalline per favorire la massima regolarizzazione e la piena cittadinanza di queste persone. Un paese che sapesse leggere le proprie interne dinamiche sullo sfondo del mondo contemporaneo avrebbe agito da tempo in questo senso. In realtà, fin dagli albori della legislazione sull’immigrazione (la legge 28.2.1990, la cosiddetta legge Martelli) la pressoché unica preoccupazione del legislatore è stata quella, velleitaria, di impedire o limitare i flussi migratori, invece che governarli con senso storico e buon senso politico, fino a usare le leggi come uno strumento di gestione dello sfruttamento e dell’esclusione, della discriminazione. Rendere difficoltoso ottenere il permesso di soggiorno, rendere un miraggio l’ottenimento della cittadinanza (non sono mai davvero dieci gli anni necessari, ma sempre molti di più), disseminare il percorso di ostacoli, di lentezze burocratiche sia kafkiane che brutalmente vessatorie, imporre costi e attese e umilianti pratiche, tutto ciò è da decenni esperienza quotidiana di milioni di persone migranti.

Come ha scritto la ricercatrice e filosofa della politica Lea Ypi (in Confini di classe. Disuguaglianza, migrazione e cittadinanza nello Stato capitalista, Feltrinelli, 2025): “Sotto il capitalismo, i datori di lavori non prediligono la circolazione delle persone in quanto tali. Prediligono il movimento di persone senza diritti”. Persone utilizzate anche per dividere la classe lavoratrice, sia mettendole in concorrenza sul mercato, sia giocando spregiudicatamente sul piano culturale ed etnico, con il concorso degli imprenditori politici della paura e dell’odio che non esitano a ricorrere alla disumanizzazione dell’altro, dello straniero in particolare. Solo disumanizzandolo, infatti, si può rendere accettabile il cinismo costante e a volte la ferocia con cui lo si tratta, solo così si può assistere agli annegamenti nel Mediterraneo, alle morti per sete nel deserto, alla consegna di uomini, donne e bambini agli aguzzini libici e ai loro lager, alla tortura, allo stupro, alla schiavitù. Ma ci si allena a disumanizzare fin da qui, sotto casa, discriminando, di fatto e con le norme, rendendo le vite difficili, penose, fin dai bambini: le testimonianze e le indagini sono innumerevoli, ormai, ma si può farsene un’idea, ad esempio, anche tramite un divertente e struggente graphic novel come Italiana, con permesso (Rizzoli, 2025), di Takoua Ben Mohamed (Douz, Tunisia,1991) che vive a Roma dal 1999 e racconta come ci abbia messo 23 anni (altro che dieci!) per ottenere la cittadinanza.

È, dunque, evidente il nesso che lega il quinto quesito referendario agli altri quattro e, più in generale e in profondità, in “un mondo in movimento” e le cui dinamiche più violente e diffuse sradicano e scagliano in interminabili esili, ciò che connette la questione della piena cittadinanza delle persone migranti – quelle che aspettano il “permesso di essere umane” – con quella della democrazia, dei diritti e della giustizia sociale nel nostro paese. Se in questa difficile ma cruciale battaglia civile l’8 e 9 giugno prossimi prevarrà il SÌ, l’intero mondo del lavoro sarà più protetto e l’intera comunità si arricchirà di diritti, di persone rassicurate e – migranti e native – più libere e più umane.

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