Speciale

Ecce Humus

3 Agosto 2015

Dedico una buona percentuale della giornata a prendermi cura di me, nel senso originario del termine, ovvero a preoccuparmi, angosciarmi o nel migliore dei casi, provare un certo fastidio. La Cura nella mitologia romana era una divinità femminile che un giorno, mentre attraversava un fiume per andare chissà dove, chissà perché, plasmò l’uomo con l’argilla. Mentre impastava questo pupazzo era pensierosa, scrive l’autore latino (“cogitabunda”). Sicuramente sapete che quando una donna sta impastando qualcosa, con un’espressione cogitabonda, è il caso di preoccuparsi. Era pensierosa perché stava pensando, adesso come faccio a dare vita all’uomo. Così chiese a Giove di infondervi il suo spirito. Poi Cura disse a Giove, voglio chiamare l’uomo con il mio nome. Eh no rispose Giove. Gli ho dato vita io, questo pupazzo si chiamerà come me. E poi, Cura è un nome da femmina. A questo punto si intromise anche la Terra, dicendo: ho fornito io la materia prima, chiamiamolo Terra. Che per inciso, in latino sembra un nome maschile (“tellus”) e invece è femminile. I tre consultarono Saturno che decise così: a questo pupazzo d’argilla, Giove diede lo spirito e quindi quando morirà, si riprenderà la sua anima; Terra diede la materia e quindi, quando morirà, si riprenderà il suo corpo; Cura invece, siccome ebbe l’idea di plasmarlo, se ne prenderà cura durante la sua vita. Cioè, in sintesi, questo pupazzo sarà sempre inquieto. Ok dissero i tre, ma non era questa la domanda. Ti abbiamo chiamato per chiederti: come lo chiamiamo. Ci stavo arrivando, disse Saturno. Siccome è fatto di fango, che in latino si dice humus, lo chiameremo uomo.

 

Insomma io più che prendermi cura, mi prendo Cura. Ma mentre sono seduto sul divano, e penso che martedì ho un appuntamento per fare una spirometria, che il succo di limone forse non fa venire il cancro, che ormai gli occhiali per vedere da vicino li porto anche per vedere da lontano, mi allevia un po’ sapere che in fondo non è colpa mia se sono sempre così preoccupato, angosciato e fastidioso, è colpa di un certo Caio Giulio Igino, bibliotecario romano che tramandò questa favola.

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