La repubblica degli scrittori

17 Settembre 2011

Fra i festival che punteggiano quello che dovrebbe essere l’inizio rinvigorente dell’autunno – ed è invece, quest’anno, strascico estenuato dell’estate – Pordenonelegge si conferma il più stimolante perché il più multiprospettico. Non per interdisciplinarità – ché anzi, rispetto a manifestazioni più giovani e fighette, qui resta la scrittura il focus dell’attenzione – ma nel senso che il fenomeno letterario lo affronta a più livelli e da molteplici punti di vista.

 

 

Conversando un paio di anni fa con Carla Bernini e Luca Nicolini – ideatori della manifestazione-pilota e rivale, il Festival di Mantova – si conveniva che queste realtà spettacolari (e talora sin troppo spettacolarizzate) hanno un pregio fondamentale: quello di affiancare alle lit-star globalizzate (da Pordenone sono passati Cunningham e Lansdale, Baricco e la Mazzantini – ma anche Bella Achmadulina e Michel Butor, Naipaul e Yehoshua, Judith Butler, Jean-Luc Nancy e Carlo Ginzburg, Rorty e Agamben, Sloterdijk e Žižek …) le proposte più ricercate e peregrine. Giovedì sera, per esempio, a centinaia ascoltavano in piazza, attentissimi, le voci poetiche nuove e stimolanti nonché, è il caso di dire, site-specific – di Antonella Bukovaz, Pierluigi Cappello e Azzurra D’Agostino. In questo modo i festival mantengono viva la circolazione fra livelli culturali e consentono l’incontro di pubblici diversi – facendo sì, insomma, che magari la groupie di Andrea De Carlo, per sbaglio o perché nella sua sala non si trova più posto, un giorno (che magari si rivelerà per lei decisivo) si imbatta, invece, in Franco Arminio (premiato giovedì per il suo Cartoline dai morti, Nottetempo, insieme a Massimo Rizzante per la saggistica e a Milo De Angelis per la poesia, alla seconda edizione che del Premio Stephen Dedalus – da me coordinato assieme ad Alberto Casadei e Guido Mazzoni – è stata organizzata appunto in collaborazione con Pordenonelegge). È proprio questo tipo di cortocircuiti – quella cioè che da qualche anno è invalso definire bibliodiversità – che la monocultura a bestseller delle majors editoriali, invece, ormai non consente più.

 

 

Le grane dell’editoria: ecco un modo per parlare di letteratura che non tutti i festival se la sentono di affrontare. Gli interventi pubblicati da una serie di protagonisti, il mese scorso su queste pagine, non si sono offerti alla puntura del contraddittorio, con osservatori che potessero far le pulci a quelle di per sé legittime (e talvolta illuminanti) chiacchiere di bottega. Ma si sa: anche la più compiaciuta delle autorappresentazioni, se osservata con attenzione, finisce per rivelare più di quanto vorrebbe. È stato prezioso, per esempio, un inciso di Antonio Franchini – intelligente editor della narrativa Mondadori e scrittore notevole lui stesso – il quale ha osservato come da qualche tempo «si sia andata sviluppando una sorta di critica dell’editoria che, limitandosi a volte all’obiettivo di inquadrare le strategie degli editori, altre volte si sostituisce alla critica letteraria tout court, tanto che capita di leggere critiche agli scrittori che in realtà sono prima di tutto critiche agli editori che li hanno pubblicati».

 

Diciamo che l’opinione pubblica dei lettori – di professione o meno – ha finalmente preso atto che qualcosa, nella cosiddetta «filiera editoriale», non funziona più come dovrebbe. E invoca maggiore trasparenza nella selezione dei titoli, nella gestione degli autori, nell’organizzazione delle collane e delle strategie promozionali – a partire dai premi. Mostrano ormai la corda le retoriche della naturalezza, per non dire della Provvidenza, di dio-Mercato: se qualcuno ci ha mai davvero creduto ora, spiacenti, non se le beve più nessuno. Non è un caso che proprio le pratiche più o meno etiche dell’editoria siano al centro del manifesto TQ (appena pubblicato, finalmente in forma integrale, sul numero 12 di alfabeta2): dove si legge che quello in cui viviamo è «un tempo in cui gli editori non scelgono più i bei libri sperando che vendano, ma i libri che vendono sperando che siano belli». Correggerei il tiro: non si «spera» che quei libri siano belli; oggi, molto semplicemente, lo si decide (impressiona per esempio come la scorsa estate lo stesso Franchini abbia voluto accompagnare con una sua introduzione – nella collana «I capolavori dello Strega» del Sole 24 oreNon ti muovere di Margaret Mazzantini: pregiandone la scrittura «densa, corposa, spesso ruvida per aderire alle cose in modo più stretto […]; una lingua piena di scarti, di soluzioni non canoniche […] una forza in qualche modo esogena, estranea al sistema letterario ufficiale»): nello sforzo, cui nessuno credo abbia obiettato alcunché, di far coincidere una buona volta valore letterario – relativisticamente sostenuto indecidibile – e  valore merceologico  – considerato, invece, oggettivamente misurabile.

 

 

In attesa di una riflessione specifica sulla distribuzione libraria, ossia la strozzatura della «filiera» che davvero mette a repentaglio la bibliodiversità (al Teatro Valle occupato, a Roma, è intanto annunciata per martedì 20 un’assemblea-dibattito sulla distribuzione cinematografica), oggi e domani a Pordenonelegge (entrambe le tornate alle 10, al Convento S. Francesco) è prevista l’edizione-pilota di una manifestazione che promette di riaccendere una luce da tempo spenta sulla produzione – cioè sulle modalità di scelta ed editing dei testi. Il titolo è Roland-Scritture emergenti, e s’inquadra in un’esperienza più vasta che vedrà il proprio numero zero il prossimo 1 ottobre a Milano, nello spazio Assab One: dove alle Scritture emergenti si affiancheranno autori affermati, dibattiti, mostre e concerti. Gli ideatori sono Giorgio Vasta, che con Il tempo materiale e Spaesamento s’è affermato come uno degli autori più valenti e consapevoli della sua generazione, e Marco Peano, sensibile junior editor (pare si dica così, ohibò) di una narrativa Einaudi negli ultimi anni non sempre all’altezza del suo prestigio. Ecco cosa avverrà: sei autori inediti di generazioni diverse (Eleonora Caruso, Piergianni Curti, Francesca Esposito, Renzo Vinzio, Alessandro Romeo e Michele Lamon) – selezionati da «bacini di scrittura» diversi (riviste cartacee e on line, scuole di creative writing ecc.) – discuteranno dei loro lavori con sei editor: Giulio Mozzi (Einaudi Stile Libero), Giulia Ichino (Mondadori), Vincenzo Ostuni (Ponte alle Grazie), Dalia Oggero (Einaudi), Michele Rossi (Rizzoli) e Nicola Lagioia (minimum fax). Le persone appena citate sono notoriamente, chi più chi meno, non solo fra le più attive e competenti ma anche fra le più sensibili ai valori specifici della scrittura (al di là del suo potenziale di saponettificazione massmercatista, voglio dire); non è un caso che siano a loro volta scrittori tre di loro, cioè Mozzi, Ostuni e Lagioia (e gli ultimi due, oltretutto, membri di TQ: Lagioia anzi, insieme proprio a Vasta, è fra gli ideatori del movimento). E giustamente i promotori fanno notare che non si parli dell’emergere di scrittori bensì di scritture.

 

Evidente l’inversione di tendenza proposta da Roland. Per come la presenta Vasta, l’iniziativa intende «scrutare i meccanismi che intervengono da un lato nell’immaginare e scrivere un libro, dall’altro nel decidere di pubblicarlo o di non pubblicarlo […]. Se certamente esiste una parte di prassi editoriale concentrata sul “caso” e sul mainstream, sui cosiddetti bestsellers, esiste anche un’altra parte di lavoro editoriale, quella che ci sta più a cuore, per sua natura critica e problematizzante. Esiste un “fare” editoria che continua ad assumersi la responsabilità di scelte coraggiose e spiazzanti decidendo di svolgere un ruolo attivo di regia culturale».  La stessa provenienza eterogenea degli autori preselezionati, se non la garantisce, certo incoraggia l’idea della bibliodiversità; ma soprattutto è da sottolineare l’opportunità di dare una dimensione pubblica, visibile a tutti e da tutti discutibile, alla dimensione più intima e delicata del processo editoriale. Decisivo è il gesto di sottrarre gli autori alle dinamiche tecnocratiche, nelle pretese «oggettive», dell’atteggiamento industriale: per restituirli a quella rischiosa e senza rete, squisitamente intersoggettiva, del più alto artigianato. Perché, come è stato detto con paradosso felice, proprio un animus artigianale è lo specifico dell’industria del libro: il quale fa sì che ad essa ci si dedichi, infatti, con spirito diverso che a quella delle saponette.

 

Chi negli ultimi quindici anni abbia seguito il farsi della nostra letteratura pensa subito a un precedente: cioè a Ricercare che – per almeno sei o sette edizioni memorabili, dal 1993 della fondazione a Reggio Emilia (e poi, con minore slancio e il titolo modificato in RicercaBO, a San Lazzaro di Savena) – ha avuto un ruolo trainante nel presentare e discutere appunto i nuovi scrittori, o le scritture più problematiche di autori affermati, prima che quei testi raggiungessero la loro dimensione definitiva, e dunque lo stadio della pubblicazione. Fra le decine di narratori poi affermatisi si misero in luce a Ricercare, negli effervescenti anni Novanta, Aldo Nove e Tiziano Scarpa, Rossana Campo e Vitaliano Trevisan, Mauro Covacich e Laura Pugno. Fra gli ultimissimi exploits, a RicercaBO nel 2007, lo stesso Giorgio Vasta appunto (Il tempo materiale uscirà da minimum fax l’anno seguente). Proprio la crisi e la decadenza di Ricercare – si può dire oggi, a posteriori – hanno coinciso con la svolta autoritaria e tecnocratica, il fondamentalismo mercatista abbracciato dall’industria editoriale.

 

 

Fatto sta che la formula di Reggio Emilia (ereditata dai convegni del Gruppo 63 e a sua volta mutuata dal Gruppo 47 tedesco – ideatori erano stati non a caso Nanni Balestrini e Renato Barilli) era davvero simile a quella di Roland: se non che nel circuito virtuoso fra autori ed editor (i quali erano presenti eccome, osservatori non sempre silenti; i loro interventi erano anzi, per ovvi motivi, tra i più seguiti: ricordo benissimo, per esempio, l’incisività con cui Severino Cesari e Paolo Repetti, avventurosi – allora – corsari di Stile Libero, parteciparono al dibattito su Paolo Nori e Tommaso Pincio, che di lì a poco decideranno di pubblicare; scherzando solo un po’, si diceva allora che i corridoi del Teatro Valle somigliassero a quelli dell’Hotel Gallia, tradizionale sede del Calciomercato…) si inseriva una terza forza, un’interposizione animosa e tutt’altro che pacifica: i critici.

 

Se un appunto c’è da muovere agli ideatori di Roland è proprio quello di aver escluso i critici dal dibattito di Pordenone. Ricordo come un anno a Reggio Emilia, credo fosse il ’97 o il ’98, un’editor de cuyo nombre no quiero acordarme, fra le più spregiudicate e considerata allora una vera potenza, con enfasi annunciasse l’eclissi, una buona volta, di quella gran rottura di scatole della critica – e dunque un confronto diretto (nonché, ovviamente, «non ideologico») fra autori e Mercato. Di quell’editor oggi s’è quasi persa memoria (perché appunto è il mercato, baby!), ma quello che appariva allora un suo wishful thinking s’è rivelata una profezia precisa, e per me abbastanza terribile, del decennio da allora intercorso. Perché poi, se esiste un percorso formativo per i narratori, c’è anche per i critici. E spero non sia solo per spirito di corpo se penso che anche questo abbia la sua importanza.       

 

Effetto collaterale di Ricercare fu infatti quello di mettere in contatto i nuovi narratori, e le realtà più vive dell’editoria di ricerca (appunto!), con critici di generazioni diverse, alcuni dei quali magari per la prima volta si confrontavano con autori e testi allo stato fluido; altri, alle prime armi, in quella sede si fecero letteralmente le ossa. È stato per esempio il mio caso: partecipare a quei lavori, a partire dal ’95, senz’altro ha contribuito in misura decisiva a ripensare il mio ruolo come multiprospettico, obliquo e (almeno in qualche occasione) felicemente impuro: da un lato interprete di testi canonizzati, dall’altro interlocutore di autori nuovi – nella convinzione ferma che, senza gli sforzi e gli errori dei secondi, mai avremmo potuto leggere quelli che oggi consideriamo gli inevitabili trionfi dei primi.

 

Vasta ha spiegato con duplice suggestione il nome della manifestazione-erede: Assab One, lo spazio milanese dove Roland presenterà come detto il proprio numero zero, «è un’ex fabbrica tipografica all’interno della quale c’è una specie di meraviglioso monumento industriale, una grande macchina tipografica che si chiama Roland. Questo mi ha fatto ricordare un brano da un libro di Dubravka Ugrešic, Il museo della resa incondizionata, in cui c’è un elefante marino che si chiama anche lui Roland e dentro il quale, alla sua morte, si scoprono i tanti oggetti eterocliti che negli anni aveva ingerito: «anche la scrittura è una specie di enorme ventre all’interno del quale precipitano elementi diversi che in quello spazio trovano significazione; Roland-animale a un certo punto entra del tutto fisiologicamente in Roland-macchina, ovvero l’esperienza individuale della scrittura si confronta con la pubblicazione, dunque con l’editoria».

 

Questa immagine esprime bene la stoica tenacia, l’applicazione strenua, l’onestà intellettuale per certi versi spaventosa di Giorgio Vasta. Ma a me il nome Roland fa venire in mente, anzitutto, la sua antica Chanson: il disperato, meraviglioso risuonare del suo corno alla rotta di Roncisvalle. A Roland e a tutti noi – si sia scrittori, editori, critici e in generale lettori –  si augura di non essere arrivati a quell’ultimo, eroico e agonico richiamo.   

 

(pubblicato su il manifesto di sabato 17 settembre con il titolo Parole artigiane esposte in pubblico)

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