Fate ogni giorno una ricerca con parole casuali su Google / Disobbedienza digitale

24 Aprile 2018

Su Topolino n. 1106 del ‘77 Paperone ordina ad Archimede di produrre in serie sosia-robot per le attività più incresciose (“accompagnare vostra moglie nelle massacranti spese estive, insomma per vivere meglio”), ma gli automi si sostituiscono completamente ai loro padroni: è arduo distinguere la macchina dal papero. L’unica soluzione è comportarsi irrazionalmente. I robot si ingegneranno così in cerca di impossibili soluzioni logiche, ma lo sforzo manderà in fumo i transistor, decretando la vittoria dei costruttori sulle macchine. La storia a fumetti Disney somiglia ai racconti di Asimov e ricorda l’ammonimento del filosofo tedesco Hans Jonas riportato nell’intervento di Longo su Hawking di qualche giorno fa: «La Natura non poteva correre rischio maggiore di quello di far nascere l’uomo. Nell’uomo la Natura ha distrutto se stessa». È la “singolarità”, termine con cui Raymond Kurzweil, futurologo del MIT, descrive il momento del sorpasso dell’intelligenza artificiale sulla umana. Non dovrebbe mancare molto, se è vero quanto rivela George Dyson in La cattedrale di Turing: Google Books non avrebbe scansionato tutti i libri del pianeta per l’umanità, ma «per farli leggere a un’intelligenza artificiale». Dietro questa prospettiva si nasconde «il timore enorme che una delle prime vittime possa essere la capacità di esprimerci, di dire i sentimenti, di manifestarli in modo normale o sublime». 

 

Ci mette di fronte a inquietudini che dovrebbero essere di noi tutti Nicola Zamperini, autore del Manuale di disobbedienza digitale (Castelvecchi, 2018), prontuario di sopravvivenza con ennalogo finale in cui testare la propria resistenza. L’autore, docente di Digital Literacy per le aziende, ci svela l’economia dei polpastrelli, giacché tutto è monetizzato grazie a la man che move i click e l’altre stelle. Zamperini è un baby boomer entusiasta della tecnologia, fan ma non fanatico, è lettore colto prima che scrittore: possiede gli strumenti per comprendere gli ingranaggi che alimentano «il digital dream, variante globale del sogno americano». Ma chi nasce all’interno di un dato ambiente (come la Zero Generation) può accorgersi della differenza con un ecosistema in cui mai è vissuto prima? Un pesce che oggi nuota in laghi più ristretti e acque più calde di 50 anni fa non conosce le condizioni in cui sguazzavano i suoi “predecessori”, e che fa? Si adatta. Ma noi abbiamo sviluppato capacità ignote ai pesci pesci: dimostriamoci più tecno-illogici e meno tecno-ligi, disobbedendo a chi finge di lavorare per noi. «Siamo sicuri che vivere meglio significhi leggere la recensione di uno sconosciuto su una pizzeria? (…) La tecnologia digitale contribuisce a migliorare la mia interiorità? Ad acuire i conflitti interiori, le ansie, le ossessioni e le paure di ciascuno di noi? Direi di no.

 

Opera di Alessandro Gallo.


La tecnologia digitale strappa alle guerre, alla povertà, alla fame milioni di donne e uomini che vivono negli slum di megalopoli inquinate? Direi di no. (…) Altro che meglio, viviamo fisiologicamente peggio». Solo che in pochi vogliamo ammetterlo. 

C’è qualcosa che stiamo irrimediabilmente modificando o perdendo: la memoria, l’amore, la morte, la privatezza, “cose che non sono cose” e nemmeno secondarie nelle nostre vite. «Ogni volta che non ricordiamo qualcosa e lo chiediamo a Google, esternalizziamo un processo. Attiviamo un meccanismo di outsourcing cognitivo». Zamperini ricorda «come una tortura le ore trascorse a imparare verso dopo verso brani della Divina Commedia, poesie di Manzoni e di Foscolo, date e fatti storici. Tutto materiale di cui ho perso traccia. Ciò che rimane di quelle fatiche immani credo sia la disposizione alla concentrazione. (…) I non-concentrati saranno assimilati a controllori di robot. Staranno accanto alle macchine per verificare che facciano il loro lavoro». Pure Archimede c’era cascato, poi era finito chiuso in uno sgabuzzino a quattro mandate dal suo automa. Ma lui non aveva il wifi. «Un mondo senza internet oggi non sopravvivrebbe. Però, con molta probabilità, e di sicuro con molte difficoltà, il mondo (…) potrebbe fare a meno di Google, Apple, Facebook e Amazon. Noi tutti potremmo farne a meno. Quando accade lo notiamo con un certo compiacimento». Zamperini non è certo un luddista, il suo non è un libro di protesta, ma di consapevolezza, per questo ci chiede «di essere più spesso imprevedibili», portando così l’algoritrmo ad attraversare una strada che non porta da nessuna parte. Algoritmo che è – ironia della sorte – il Page Rank, «figlio dell’impact factor, il meccanismo di valutazione dell’autorevolezza dei saggi scientifici».

 

Ma cosa sono oggi Facebook, Google, Amazon, Apple? Tecno-corporation, certo, ma la definizione che ne dà Zamperini è più precisa: «sono meta-nazioni digitali senza territorio fisico, con cittadini, regole, territori, vessilli, interessi nazionali e dunque anche commerciali», tanto che «per prima la Danimarca, nel 2017, ha spedito un ambasciatore a rappresentare i propri interessi nella Silicon Valley, a Palo Alto, una sorta di tech-diplomacy». Non è un caso se crescono le possibilità che Zuckerberg possa un giorno candidarsi alla Casa Bianca. E se Dio fosse Google, Apple il suo architetto e Facebook una Chiesa? Amazon sarebbe un evangelizzatore, Instagram un artista devoto? Entriamo, ascoltiamo qualche passo dalle scritture e alla fine non ricordiamo che ci eravamo andati a fare. Tanto i peccati, i fallimenti, le tristezze infinite che i social per fortuna non hanno eradicato li confessiamo solo in segreto, mica pubblicamente. Il pericolo più cocente è che il digitale assurga inconsciamente a religione. D’altronde «l’interesse di Jobs per la spiritualità orientale, l’induismo, il buddismo zen e la ricerca dell’illuminazione non fu il capriccio passeggero di un diciannovenne». Zuckerberg, invece, si è recato in pellegrinaggio a Black Rock City, città-cattedrale nel deserto del Nevada che vive solo negli otto giorni del festival “Burning Man”, chiusi da fiamme che bruciano un fantoccio. «Non è solo un evento e un festival tecnologico, è soprattutto (…) una comunità aperta, libera, anarchica, di hippy, nudisti e millenaristi, che ha scritto i propri Dieci comandamenti e che non accetta moneta di scambio che non sia il baratto». Solo a guardare le foto, pare una magia: per una settimana compaiono dal e nel nulla giganti sculture e migliaia di uomini per poi scomparire in un esercizio di presti-digitazione, tipo Snapchat o le storie Instagram. «Questo dell’impermanenza è uno dei tanti debiti – o furti – che la controcultura californiana è andata a contrarre in Oriente». 

 

«“I computer sono inutili”, avrebbe detto Picasso. “Possono darvi solo risposte”». Cosa avrebbe cercato Picasso su Google? Glielo avrebbe suggerito lo stesso motore di ricerca, che mentre scriviamo ci suggerisce i termini della ricerca. Utilizziamo spesso Google come una “macchina-oracolo”, come già aveva predetto un genio come Turing. «Siamo convinti di sapere cose, di conoscere dossier complicati solo perché abbiamo controllato in tempo reale un fatterello su Google. (…) Da questa presunzione discende il continuo dibattito vuoto, sterile, inconcludente, che proprio lì prende corpo. Un dibattito che non è tale. Si tratta di uno scambio di affermazioni apodittiche, un dialogo immenso tra sordi, in cui ciascuno dice la sua e basta. Non è un’impressione: si chiama effetto Dunning-Kruger, secondo il quale gli incompetenti raggiungono conclusioni errate, pensando di saperne più degli altri, proprio a causa della loro incompetenza». La forza del libro di Zamperini risiede in un assioma: per produrre contenuti che nell’oceano della rete siano acchiappati prima e più di altri, bisogna padroneggiarlo con lo studio. Per ora stiamo solo vendendo una forma, nuova e luccicante. «Facebook e Google sono i più importanti distributori di contenuti del pianeta, ma ciò non significa che li producano o che abbiano intenzione di farlo. E noi annoveriamo tra i contenuti il genere notizia, genere che per gli algoritmi non mostra alcuna differenza rispetto al genere barzelletta. (…) La guerra alle bufale ricorderà, tra qualche anno, quella alla pirateria musicale, dei film o dei giornali. Il sistema troverà contromisure, ma le fake news continueranno a esistere». 

 

L’obiettivo del libro di Zamperini «è mettere sull’avviso il lettore circa alcune conseguenze della cessione continua di sovranità personale che si realizza senza utilizzo della forza, senza artifici segreti, senza agenti e repressione, ma grazie alla nostra sciocca arrendevolezza». Perché scrivere sulla home che “Facebook è gratis, e lo sarà sempre” non corrisponde a verità: secondo Siegel, ad esempio, il nostro prezzo esatto è di 1200 euro annui nell’ecosistema pubblicitario di internet. Il caso di Cambridge Analytica parla chiaramente. Eppure secondo il saggista “integrato” israeliano Yuval Noah Harari, autore di Homo Deus, «dovremmo utilizzare la tecnologia al fine di creare Homo Deus, un modello di umano molto superiore. Homo Deus conserverà alcune caratteristiche umane essenziali, ma potrà anche contare su abilità fisiche e mentali avanzate. (…) Se Hitler e i suoi seguaci progettavano di generare superuomini attraverso la procreazione selettiva e la pulizia etnica, il tecno-umanesimo del XXI secolo spera di raggiungere questo obiettivo in maniera molto più pacifica, con l’aiuto dell’ingegneria genetica, della nanotecnologia e delle interfacce cervello-computer». Chiamarlo “tecno-nazismo” suona troppo duro? Vance Packard, “apocalittico”, nel 1957 già scriveva in I persuasori occulti: «A lunga scadenza – diciamo nel 2020 – i biofisici avranno probabilmente assunto il comando delle operazioni con il “biocontrollo”, ossia la persuasione del profondo portata alle sue conseguenze estreme. (…) Gli aeroplani, i missili, talune macchine, sono già guidati elettronicamente; lo stesso principio si può applicare al cervello umano, che ha in sostanza la struttura di una macchina calcolatrice». 

 

Ci siamo: le techno-corporation detengono «le chiavi dell’io globale». Ma non solo le chiavi, anche i palazzi. «The Economist stima che “l’universo digitale [cioè i dati creati e copiati ogni anno] raggiungerà i 180 zettabyte [una cifra composta da 180 seguito da 21 zeri] nel 2025”, e questo volume mostruoso va archiviato anno dopo anno in costruzioni apposite. Magazzini di cui non esistono mappe esaustive, raccolte complete, che non si trovano cercando su Google (…). Dentro queste oscure costruzioni, misteriose ed energivore, vive l’archivio di tutte le nostre parole, delle nostre immagini, di tutte le nostre emozioni. Conservate per sempre, per l’eternità: analizzate, vivisezionate, studiate, mescolate e utilizzate per vendere pubblicità». In fondo, come ci ricorda Dyson, «Google è partita cercando di misurare quello che le persone pensano ed è finito per diventare quello che le persone pensano. Facebook è partito cercando di disegnare la mappa del tracciato sociale ed è diventato il tracciato sociale». La nostra memoria è in mano loro, possono ricostruirci. Dal “gnòti sautòn” – conosci te stesso – al “quantified self” – conosci te stesso attraverso i numeri: «assistiamo a una continua applicazione del principio di Heisenberg in cui noi siamo gli elettroni, misurabili solo all’interno della dimensione del social network, in funzione delle reazioni che produciamo e per come l’algoritmo le misura; altrimenti vaghiamo come particelle nello spazio infinito». Se spegnere smartphone e post-smartphone appare ipotesi remota, possiamo fare questo: restare accesi noi. Qualche suggerimento espunto dall’ennalogo di Zamperini:

 

1. Quando vi iscrivete a un social network, fornite informazioni false.

5. Taggatevi su Facebook in luoghi nei quali non siete mai stati.

15. Scattate fotografie incomprensibili. Ad esempio fotografate marciapiedi, muri, porzioni di oggetti, tipo una forchetta o un pezzo del cestello della lavastoviglie.

36. Fate una dieta da smartphone quattro volte l’anno: una settimana per ogni stagione senza la connessione dati. Si può fare e si starà benissimo.

41. Se siete una coppia non parlatevi sui social network. Mai.

48. Entrate in un ristorante a caso che vi ispiri. Discutete con il gestore se cucina male e non tornateci mai più. Consigliate la trattoria agli amici più cari a voce, al telefono.

54. Al semaforo fate gli occhi dolci alla bionda che sta nella macchina a fianco e viceversa: vi darà la sensazione poetica di aver lasciato fuggire l’amore della vostra vita almeno un paio di volte al giorno. Ne uscirete più romantici e con maggiore autostima.

56. Sulla metro guardate gli sconosciuti, leggete un libro, oppure fissate il muro della galleria: è ipnotico e rilassa di più che leggere 100 inutili tweet.

61. Designate come erede uno sconosciuto dall’altra parte del mondo e dite ai vostri figli chi è. Faranno un viaggio avventuroso per scoprire il curatore testamentario del padre o della madre.

80. Fate ogni giorno una ricerca con parole casuali su Google.

Ne aggiungo uno:

101. Vivete.

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