Le Parc: le luci della città elettrica

24 Febbraio 2024

In uno dei film più celebri e celebrati di Woody Allen, Manhattan del 1979, la città di New York, e in particolare l’omonimo distretto, è rappresentata con le sole tinte del bianco e del nero. Lo scorcio del ponte Queensboro, con quella panchina e quel lampione da cartolina, sono tra i fotogrammi più suggestivi non solo della pellicola, ma di tutta la cinematografia di Allen. C’è un dettaglio che mi ha affascinato: la maniera con cui il regista americano ci restituisce le luci di questa città elettrica senza l’uso del colore. La telecamera offre questi squarci sulla città, sui suoi grattacieli: panorami in cui la natura è l’artificio umano, dove tutto è ferro, cemento, elettricità. Nella notte Manhattan è un enorme lampadario di superfici riflettenti, e le note di Gershwin (autore di quella Rapsodia in blu in cui suonano musica e colore) donano un alone come di un’opera, di una sinfonia cui si allacciano nella nostra mente altre immagini, altre luci, altre idee di città. Forse non è un caso che il titolo della personale di Julio Le Parc alla galleria Continua di Roma si intitoli proprio Melodia, e che una delle opere più suggestive sia la Sphere Noir, una sorta di grande lucernario naturale con piccoli tasselli neri lucidi appesi con fili di nylon che si muovono, riflettono, risuonano a seconda dei nostri movimenti nello spazio. La città è questa sfera nera riflettente, il moto che le imprimiamo, e la luce di questo movimento.

Da Manhattan a Venezia: per chi vi si recasse la prima volta appaiono subito molteplici i livelli di lettura che si presentano allo sguardo e al sentire. I ponti, il silenzio delle calli, le strade che non portano da nessuna parte, il colore verde smeraldino dei canali, e certamente, dunque, la luce. Quella luce, soltanto quella luce. Daniele Del Giudice è uno degli scrittori che ho più amato negli ultimi anni (e che più maniacalmente rileggo), così prima di partire per la città lagunare ho rivisto un breve documentario Rai che s’intitola “Atlante veneziano”, un ritratto del narratore italiano e al contempo di Venezia, dal momento che viveva e lavorava in quel luogo da trent’anni. Guardando l’acqua, il cielo, le cose (la “cosità”), Del Giudice dice: «è così difficile descrivere la luce. Come parola è sempre troppo forte, non si sa mai bene da dove prenderla. Uno dice luce e qualcun altro pensa subito a una cosa fuori misura, fuori nel tempo, ovunque nello spazio, non circoscritta e senza solidità. Ci vogliono così tanti aggettivi per la luce: potrei dirle luce pallida, luce meridiana, luce fredda, luce sfuggente, ma la luce resta sempre uguale a se stessa, cambiano soltanto i sentimenti. Scriverò un atlante della luce». Luce, come parola, è sempre troppo forte: capita di leggere un testo e di fermarsi, come abbassando gli occhi di fronte a una fonte di luce, che è una fonte di linguaggio, troppo forte, accecante. Spegniamo per un attimo, verrebbe da dire. Del Giudice era capace di definire la differenza tra la luce di Venezia in un sestiere rispetto all’altro, capace di fotografare letteralmente, cioè scrivere con la luce e scrivere la luce.

Anche Julio Le Parc quella stessa luce deve averla vista nettamente quando vinse il Gran Premio Internazionale di Pittura alla Biennale di Venezia nel 1966. Quella luce l’artista ha potuto catturarla con gli strumenti circoscritti, solidi dell’arte, ha dipinto e creato con gli strumenti della luce. Fino al 10 marzo 2024, senza doversi prima recare a Venezia, si può entrare alla Galleria Continua, che significa accedere a Roma dal Grand Hotel St. Regis, notare alle pareti dipinti ritraenti Venezia, attraversare un lungo corridoio di luci elettriche, di cui per primo l’hotel si dotò tra i palazzi romani a fine Ottocento, infine giungere nelle sale che ospitano la personale del maestro dell’arte cinetica e della Op Art Le Parc, argentino francese d’adozione. È in Francia che l’artista, alla fine degli anni Cinquanta, incontra l’apripista del movimento, Victor Vasarely, che trova nella luce di Gordes la chiave delle sue ricerche artistico-percettive. È ancora una volta una città a fondare lo sguardo, e ancora oggi le pareti di questo borgo incantevole della Provenza celebrano la visione di Vasarely. Le Parc, intanto, fonda il GRAV, gruppo di ricerca sull’arte visuale, e nel tempo non si definirà un “cinetista”. Per il suo lavoro si parla più precisamente di “arte programmata”, secondo la definizione di Bruno Munari che dagli anni Cinquanta pure sperimentava con la luce. 

Nel 1959, con il suo manifesto Für Statik, Jean Tinguely loda il movimento dell’arte optical e cinetica, esaltando l’abbandono della staticità con queste parole: «Tutto si muove. L’immobilità non esiste. Non lasciatevi dominare da antiquati concetti di tempo». E ancora: «Resistete alla paura angosciosa che vi porta a fermare il movimento, a pietrificare gli istanti e ad uccidere ciò che è vivo... Smettetela di dipingere il tempo. Smettetela di costruire cattedrali e piramidi destinate a cadere in rovina». Era l’alba dell’arte cinetica e programmata, stimolata dalle nuove percezioni che era possibile avvertire con l’avvento delle tecnologie più avanzate: tutte tecnologie che ponevano al centro la luce, perlopiù elettrica, come nel caso della televisione, ad esempio. Ciò che unisce arte cinetica, programmata e optical resta l'interconnessione attiva tra opera e spettatore, quella “apertura” di Eco che è anche una frattura. Ed è quello che accade in tutti i campi dell’arte, con la scrittura che vede in parte erosa la sua sacralità dall’emergenza del ruolo della lettura e dunque del lettore, diversi da caso a caso, e ugualmente – parzialmente – plausibili. 

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Melodia 2024, exhibition views Galleria Continua, The St. Regis, Roma. Photo: Giorgio Benni.

Tubi che esplodono in colore puro, linee che fondano e formano il movimento: visitando il luna Parc allestito alla galleria Continua accade di guardare negli occhi il proprio sguardo: cosa sto vedendo? Perché questa geometria di luce si muove stando ferma? Perché sono attratto dal colore puro, dalle forme pure? Come mi esplode questo denso blu dentro? Le Parc dagli anni Sessanta lavora verso il raggiungimento di una instabilità visiva, attraverso il riconoscimento di una realtà fisica che si può destrutturare e rimodulare attraverso l’attività artistica e percettiva. In questa direzione, scrive lo storico dell’arte Caramel in GRAV (catalogo della retrospettiva di Como 1975, Electa Editore), «un contributo articolato stava venendo da Le Parc, che da tempo, abbandonate le due dimensioni, si interessava ai problemi del movimento e della luce nello spazio: cioè un contesto quanto mai fluido, difficile da affrontare con presupposti metodologicamente precisi […]. Molto di più [non] si poteva trarre […] da proposte come quella […] degli altri cinetisti degli anni Cinquanta, il cui maggiore rappresentante, Schöffer, doveva rappresentare per Le Parc, credo, tutto ciò che era necessario evitare: la vastità, la complicazione, l’ambizione, e insieme l’imprecisione delle mete […]. Le prime esperienze Le Parc le aveva compiute contemporaneamente agli studi bidimensionali: fin dal 1959 si accosta infatti alle forme mobili ed inserisce nell’opera elementi esterni alla superficie. In seguito, nell’anno successivo, realizza dei rilievi con differenti progressioni, inclinazioni, interferenze di livelli, curve, angoli, già improntati al fondamentale interesse per la varietà e mutabilità dei rapporti nello spazio, e quindi per la funzione della luce […]». Così Le Parc studia le interrelazioni tra elementi primari come colori puri, luce, movimento, elementi essenziali e moduli geometrici. In letteratura, parallelamente, è il trionfo dell’arte combinatoria, sorella testuale delle ricerche artistiche visuali di quegli anni. Sta mutando lo sguardo perché sta mutando la luce.

Negli stessi anni sta compiendo le sue ricerche sulla luce anche un altro studioso, Marshall McLuhan, piuttosto sensibile all’arte e alla letteratura (la sua produzione saggistica è a ben vedere un’opera letteraria prima che sociologica). Dalla fine degli anni Cinquanta lavora al primo nucleo di quello che sarà uno dei suoi saggi più celebri, Understanding media (Gli strumenti del comunicare, appena ripubblicato da Il Saggiatore), a margine di un lavoro per il Ministero statunitense per l’educazione per valutare gli effetti della tv sui ragazzi tra i 16 e i 17 anni. Lo studioso ci mostra come con i nuovi media visuali gli schermi hanno iniziato a invadere il nostro sguardo, in un certo senso a riprogrammarlo: è solo l’inizio, perché la televisione non possiede ancora la pervasività dei nostri smartphone. Tra le prime intuizioni di McLuhan vi è la differenza tra il cinema e la tv, che risiede proprio nella luce: nel primo caso la luce va sullo schermo, nel secondo proviene dallo schermo, perciò l’immagine siamo noi. Per lo studioso canadese la luce «è informazione allo stato puro», è «spazio senza mura». Le Parc lavora per dipingere questo spazio, la luce, la casa senza le sue pareti. Luce, dalla sua radice luk-, significa splendere, e dalla stessa si forma la parola luna, ma anche lucerna, e persino occhio. Siamo dentro un Luna Parc: così era definita – luna park – anche la visita di una importante mostra romana di Op Art presso la Galleria “L’obelisco” nel 1967, intitolata “La luce. La città del sole”. In un documento dell’archivio Luce dell’epoca lo speaker si chiede: «Ma cos’hanno a che fare con l’arte questi piccoli oggetti in movimento, queste curiose combinazioni di luce e colore, queste strane rifrazioni dei raggi attraverso un prisma di cristallo? Forse hanno in comune soltanto l’aspetto del gioco, che era già alla base dell’arte tradizionale. Gioco come puro godimento. […] Questa […] è luce come movimento. […] Gli inventori […] prevedono il Tremila». Due anni prima al Moma di New York era stata inaugurata una collettiva storica, “The responsive eye”, in cui tra gli altri figurano Le Parc e Enzo Mari, e in cui l’accento è posto sull’occhio che reagisce. Nell’«Epoca […] della più ampia visibilità che ci sia mai stata» (ancora Del Giudice nella raccolta postuma Del narrare), lo sguardo si fa responsabile: di selezione, di filtraggio, di rilevanza. Quel responsive è un aggettivo cruciale che oggi riferiamo ai siti web, alle app sui nostri smartphone: una pagina è responsive se “reagisce” alla cornice dello schermo in cui è inserito, se il suo layout sa adattarsi al nostro sguardo attraverso la luce incorniciata dello schermo. 

In una piccola stanza a parte debitamente chiusa e oscurata con delle tende, come dentro a una buia cornice, tre opere animate dalla luce elettrica: Continuel lumière cylindren, del 1962, un congegno visivo con luce motorizzata; Continuel lumière avec formes en contorsion, del 1966 (metallo, plastica, legno e luce), Lumière alternées, 1993-2011, in cui si fa luce anche il rumore elettrico dei movimenti. Qui si entra dentro Manhattan: non dentro la città, ma dentro al film – dentro la creazione –, quando a metà pellicola, prima che Allen e la giovane Mariel Hemingway si bacino appassionati, la macchina da presa ri-prende, riafferra il suo segreto, la luce. È tutto un brillio di bagliori mentre gli alberi di un parco si sovrappongono alle luci dei palazzi e tra i rami filtra questa elettricità che pervade sempre tutti i film di Woody Allen, in cui le battute sono come scosse, i dialoghi lampi, la tensione un voltaggio. Uscendo dalla galleria torna alla mente un’altra citazione di Allen: “Ragazzi, se la realtà fosse così!”, dice in Annie Hall proprio davanti a un vero McLuhan che di colpo zittisce un suo vanesio epigono. Cinema e arte cinetica ci ricordano che non sono che illusioni Roma e la sua luce, eppure ogni giorno entrambe realmente ci attraversano, realmente ci muovono, realmente ci finiscono.

In copertina, Melodia 2024, exhibition views Galleria Continua, The St. Regis, Roma. Photo: Giorgio Benni.

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