Nel ventennale del capolavoro / Infinite Jest per principianti

5 Giugno 2016

Metodo

 

– Viviamo un'epoca in cui è più semplice parlare di un romanzo senza averlo letto che riuscire a mantenere saldo un punto di vista critico sull'oggetto stesso della lettura.

 

– È il paradosso di un sistema mediatico complesso qual è quello in cui ci troviamo a vivere: ad un numero di informazioni in crescita esponenziale non corrisponde necessariamente un aumento delle possibilità di conoscenza. Ma è un dato storicamente verificabile: è già successo, sta succedendo, succederà ancora.

 

– Questo è un punto cardine su cui far ruotare le pale di un piccolo esperimento. Ignorare il flusso costante di parole e immagini ed evitare la perdita di concentrazione che ne deriva; non prendere in considerazione gli elementi biografici; sforzarsi di determinare con sicurezza il punto in cui finzione e realtà iniziano e smettono di influenzarsi a vicenda.

Stiamo ovviamente parlando di Infinite Jest.

 

– Credo di avere iniziato a leggerlo almeno una decina di volte.

 

– Immagino dunque che tu ti senta in grado di formulare un'opinione nel merito: è un libro del quale negli ultimi vent'anni si è parlato parecchio.

 

– Non posso che darti ragione.

 

– È esattamente quel che intendevo dire. In effetti, Infinite Jest rappresenta ai miei occhi un ottimo banco di prova per stabilire un criterio di esercizio della critica: andare oltre la figura di un autore tanto ingombrante, tralasciare la sua vasta produzione saggistica e letteraria e concentrarsi sull'opera in sé. Lasciar perdere i reportage, gli studi specialistici, i film e le interviste, trascendere il piano del senso comune e tentare di produrre una critica reale, una critica in grado di reggersi sulle proprie gambe e camminare da sola.

Di David Foster Wallace, fatta eccezione per la sua immagine in camicia di flanella, bandana e scarpe da ginnastica che tutti conosciamo, sino a un paio di mesi fa non sapevo praticamente nulla: è infatti un autore che ho sempre ignorato. Credo sia stato proprio il ventennale della prima pubblicazione ad avermi convinto a superare la mia idiosincrasia per la letteratura contemporanea e ad affrontare questo, come definirlo... monumento editoriale.

 

– Ok, ammetto di averne letto poco più di metà. Da dove partiresti per raccontarmelo?

 

– Mi piacerebbe iniziare con una suggestione.

 

– Una suggestione? Cominciamo male! Non credi che il tuo discorso sull'opera-in-sé ne potrebbe risentire?

 

– Ma non posso prescindere dal mio punto di vista! E il mio punto di vista, nel caso specifico, prende le mosse da una serie di impressioni suscitate direttamente dalla lettura del testo. È la solita vecchia diatriba tra metodo induttivo e metodo deduttivo.

 

(risate)

 

Del resto non è certo mia intenzione divagare. La cosa più semplice sarebbe stilare un elenco di temi e di argomenti: tennis, intrattenimento, postmodernismo e via così. È quel che intendo dire quando parlo di senso comune. Ma il contesto, rispetto al quale i riferimenti superficiali divengono fuorvianti, non va certo trascurato. Sarebbe auspicabile, piuttosto, imparare a individuare e a mettere in gioco delle forme che possano funzionare da reagenti. 

 

Contesto

 

– Il contesto? Ok, siamo nell'America del 1996. È l'anno in cui Tupac Shakur presentò i Kiss in un completo di Versace alla cerimonia di consegna dei Grammys, giusto pochi mesi prima di finire ammazzato come un cane.

 

– In effetti stiamo parlando degli anni in cui lo show business  dimostrò di essere in grado di ingoiare, masticare, digerire e trasformare in merce praticamente qualsiasi cosa. Allo stesso tempo, la commistione di finzione e realtà che da un ventennio a questa parte è diventata il nostro pane quotidiano giunse proprio allora ad una sintesi perfetta. La recente scomparsa di Nancy Reagan ci riporta alla memoria l'epoca in cui il presidente degli Stati Uniti scambiava i report sulla situazione politica internazionale con i ricordi dei film in cui aveva recitato durante la sua giovinezza.

 

– Nel corso della stessa serata la giuria assegnò ai Nirvana un Grammy per la migliore esibizione dal vivo, trascurando il piccolo dettaglio che Kurt Cobain si era già chiamato fuori dal gioco facendosi saltare la testa due anni prima.

 

– Gli avvoltoi prediligono le carogne; questo è un dato incontrovertibile.

 

– Del resto lo stesso Foster Wallace nel corso degli anni è diventato una vera e propria icona.

 

– Il mercato genera in continuazione figure di riferimento da trasferire nell'immaginario collettivo, ma questo non ha niente a che vedere con la produzione artistica: serve soltanto a vendere più copie.

Quel che vorrei tentare è restituire dignità all'opera stessa sottraendola al subdolo operare dell'industria culturale. Mi sembra tra l'altro un buon sistema per rendere omaggio alla memoria dell'autore.

 

Approccio

 

– Bene, sono tutt'orecchi.

 

– Il punto da cui vorrei incominciare il discorso è un post pubblicato sul blog di Neal Michael Hagerty che mi capitò di leggere diversi anni fa e oramai andato perduto tra le maglie sfilacciate della Rete. È un racconto che riguarda presumibilmente la prima metà degli anni '90 in cui Hagerty rievoca un episodio della sua dissoluta giovinezza. Mentre sta vagando in compagnia di alcuni tossici per le strade di San Francisco, il buon Neal, fatto come una scimmia, si ritrova all'improvviso faccia a faccia con William Gibson, appena uscito da una libreria dove aveva tenuto un reading o qualcosa del genere. Gibson è notoriamente uno degli scrittori preferiti di Hagerty: uno degli ultimi album degli Howlin' Hex si intitola Wilson Semiconductors, tanto per dire. 

Bene, Hagerty lo riconosce e decide di andare a presentarsi e di dire qualcosa tipo "Ehi, sei il mio scrittore preferito", ma nel momento in cui gli si avvicina e comincia a parlare si rende conto di non essere in grado di esprimersi correttamente per via dello stato pietoso in cui si trova ridotto. Gibson, dal canto suo, alla vista di quel tossico di strada che tenta di approcciarglisi biascicando frasi incomprensibili si ritrae infastidito, gira i tacchi e si allontana il più velocemente possibile.

Ecco, da questo incontro tra William Gibson e un branco di tossici randagi, farei partire la mia dissertazione su Infinite Jest.

 

– Sembra una parabola sulle occasioni sprecate.

 

– Infinite Jest ne è pieno, ma non è soltanto questo: buona parte dei temi affrontati e dei piani di lettura che vi si intersecano trovano infatti il loro equilibrio in una teoria di riferimenti alla tradizione letteraria occidentale da un lato e alla cultura delle droghe dall'altro. All'epoca in cui il romanzo venne scritto, il dilagare indiscriminato del consumo di droga e l'immaginario che vi si era strutturato attorno si erano ormai definitivamente stabiliti nel novero dei tratti peculiari della società americana; per rimanere in ambito letterario, credo sia lecito parlare di un'epoca segnata dalla trasformazione dell'algebra del bisogno di William Burroughs nella trigonometria della dipendenza di Foster Wallace.

 

– Bè, tutto ciò potrebbe valere anche per il giorno d'oggi. In ogni caso, questo Neil.. come hai detto che si chiama?

 

– Hagerty.

 

– Hagerty, sì, non so chi sia, ma il riferimento a William Gibson mi pare calzante. Cito a memoria: "Una complessa sintesi di cultura pop, alta tecnologia, tecniche letterarie d'avanguardia". Manca praticamente soltanto il tennis. È di questo che stiamo parlando?

 

Futuro

 

– Sì, in un certo senso. Riguardo alle parole di Bruce Sterling che hai appena citato e al rapporto che esse intrattengono con Infinite Jest si potrebbe discutere a lungo; per dirla tutta, io avrei ricordato anche il riferimento a Ballard e alla letteratura invisibile con il quale Sterling scelse di chiudere la sua prefazione a Burning Chrome. Ma sulla questione dei generi letterari, argomento spinoso, ci ritorneremo.

Il mio riferimento a Gibson e, per esteso, a tutta la scuola cyberpunk, riguardava più una serie di riflessioni sul futuro che vennero formulate trenta/quarant'anni fa e che nel frattempo sono diventate il presente in cui ci troviamo a vivere.

Infinite Jest parla del futuro, ma questo futuro sembra essere un'allegoria del periodo storico in cui il libro è stato scritto. Al tempo stesso, come nel caso della migliore fantascienza, ci sono alcuni punti in cui le somiglianze tra il nostro presente e quello del romanzo diventano impressionanti: penso al discorso sulla videotelefonia e sulle maschere da indossare per rispondere alle chiamate, un'immagine che ben descrive l'importanza che nel mondo contemporaneo riveste la scelta dei profili da adottare sui social network che, se da un lato ci ritraggono per ciò che siamo nella vita reale, da un altro tendono a restituire un'idea di noi stessi mediata dalle aspettative del nostro pubblico quotidiano. Il fatto che poi, secondo Foster Wallace, la videotelefonia si sia dimostrata una moda passeggera e destinata a decadere molto presto, rappresenta un tipico esempio di quanto sia facile, per la letteratura che si occupa del futuro, riuscire a generare degli universi paralleli.

 

– Sento lo spettro di Philip Dick sussurrare alle mie spalle.

 

– Certamente. È forse possibile addentrarsi nell'impervio territorio della visione distopica, tanto più se ammantata di un umore allucinogeno, senza pensare a Dick e al suo La svastica sul sole? "E così la vita diventa una barzelletta senza più nessuno che ne possa ridere. Io apro un libro e cosa trovo? Una cronaca di eventi futuri che Dio stesso vorrebbe archiviare e dimenticare. E chi sono io? La persona sbagliata, posso affermarlo con certezza."

 

– Se riuscissimo a rintracciare delle linee di scambio tra Infinite Jest e "La cavalletta non si alzerà più", quello sì che sarebbe un bell'esempio di finzione e realtà che si scambiano di ruolo! Dal punto di vista del 2016 "... non c'è scienza. E non è ambientato nel futuro (...) parla di un presente alternativo..."

 

– E "Chissà come fa a cavarsela Bob Hope, con tutto quello che dice. Naturalmente deve trasmettere dal Canada."

 

(risate)

 

 

 

Cliché

 

– Per noi europei, fatta eccezione forse per i francesi, il Canada è un universo per larga parte sconosciuto. Eppure alcuni dei talenti più visionari prodotti nella seconda metà del XX secolo dal Nuovo Mondo sono canadesi; penso a David Cronenberg, o allo stesso Gibson.

 

– L'immagine che ne dà Foster Wallace è parossistica, ma spassosa: ci ho ritrovato tante nevrosi legate all'ossessione dei francesi per la francophonie. Sul piano dell'ironia, trovo impossibile prescindere dal modo in cui i canadesi vengono rappresentati in South Park nel momento in cui si vogliano considerare i rapporti che intercorrono tra il Canada e gli Stati Uniti. Magari per gli europei questo non è un fatto scontato; del resto, se si procede per luoghi comuni, alla fine un briciolo di verità salta sempre fuori.

 

– Spesso facciamo fatica a ricordarlo, ma esiste di sicuro un universo alternativo in cui tutto il Nordamerica è francofono.

 

– In Francia Infinite Jest è uscito con il titolo tradotto: L'infinie comédie. Nulla di strano se consideri che parliamo di un popolo che chiama ordinateur il computer; ma sono pronto a scommettere che nei congressi letterari avranno fatto a pugni pur di tirare fuori il nome di Balzac.

 

– Balzac è citato anche in quarta di copertina sull'edizione italiana.

 

– È francamente impossibile non notare il potente intento sociologico che sta dietro la rappresentazione dell'umanità in Infinite Jest; in particolare, quel che colpisce è l'insistenza da parte dell'autore nel voler procedere per stereotipi e cliché. Nel corso della narrazione ricorrono le frasi fatte e le situazioni tipiche e, se ci fai caso, questo avviene sempre in occasione di un tentativo da parte di Foster Wallace di definire le identità dei gruppi sociali che sta prendendo in considerazione.

 

– Quel che ho notato io è un utilizzo di registri linguistici radicalmente differenti a seconda della situazione che viene raccontata: il mondo dei tossici è descritto spesso utilizzando un linguaggio gergale, quello dei nerd del MIT con un profluvio di terminologia tecnica e così via. Al contempo, lo stile del libro e l'uso del vocabolario rimangono sempre, in generale, abbastanza alti... almeno per quel che se ne può evincere dalla traduzione italiana.

 

– Si tratta senz'altro di un tributo al realismo che prende corpo a dispetto del tono surreale, talvolta eccentrico, che sostiene tutto l'andamento del romanzo. Nel caso specifico, considera che nel 1996 la contaminazione di forme linguistiche alte e basse all'interno di una stessa narrazione era già un concetto ampiamente sdoganato. Io mi stavo riferendo piuttosto al tipo di immagini che Foster Wallace ha utilizzato per descrivere gli ambienti sociali cui appartengono le decine di personaggi che compaiono nel libro. Per fare un esempio, la miriade di aneddoti che raccontano il mondo dei tossici di strada è costituita per gran parte da materiali narrativi che rimandano ad un immaginario da leggenda metropolitana: mi riferisco alle storie sulle fotografie degli spazzolini da denti altrui infilati nell'ano, sugli accoppiamenti coi volatili da cortile, sui peni ricoperti di tatuaggi di cui le pagine sui residenti della Ennet House sono letteralmente disseminate.

Se poi pensi alla descrizione del microcosmo adolescenziale della Enfield Tennis Academy ti ritroverai catapultato in un orizzonte da terza media, con tanto di gare di rutti, di atmosfere alla "chi ha scoreggiato?", di barzellette idiote; c'è persino una storia in cui si parla dell'origine degli occhiali a raggi x, quelli per guardare  attraverso i vestiti delle ragazze. 

Si tratta, come dicevo, di luoghi comuni, la cui messa in campo, a mio parere, ha una funzione che trascende il mero piano del realismo e che tradisce l'intenzione, da parte dell'autore, di costruire e mettere in moto un universo nella sua totalità e autosufficienza. Infinite Jest, a conti fatti, non è un romanzo realista, o perlomeno non del tutto.

 

Realtà

 

– Di recente parlavo con un amico che mi faceva notare quanta poca vita reale sia presente nei libri di Foster Wallace; tutta la sua opera si potrebbe riassumere, secondo lui, sotto il segno di un interesse puramente intellettuale (e che rasenta l'ossessione) per i tre grandi temi che la animano, cioè a dire il tennis, la letteratura e la cultura di massa. In questo senso, nel corso della discussione il mio amico ha citato Kerouac quale esempio di scrittore che, al contrario, ha saputo trasportare la propria esperienza di vita all'interno dell'opera letteraria ad un punto tale da produrre un immaginario di riferimento per un'intera generazione.

 

– Realismo e vita reale sono due cose ben distinte. Se per vita reale, in termini letterari, si intende infatti la trasposizione in forma narrativa di un'esperienza di vita vissuta in prima persona, capisci bene che, quando si sceglie di adottare una simile impostazione, la pretesa di oggettività che soggiace ad un realismo à la Balzac può risentirne in maniera sostanziale. Quanto alla capacità della realtà traslata in letteratura di influenzare l'immaginario collettivo, chissà se il Werther avrebbe provocato quella mania del suicidio in marsina azzurra e gilet giallo che afflisse la gioventù europea nella seconda metà del XVIII secolo, qualora esso non fosse scaturito direttamente dalla disperata passione amorosa di Goethe per Charlotte Buff.

 

(risate)

 

Nel caso di Infinite Jest e delle ossessioni di Foster Wallace, ho l'impressione che soltanto il tennis possa essere assimilato, in qualche maniera, ad una reale esperienza di vita vissuta dall'autore, sempre che non lo si voglia considerare soltanto come l'efficace metafora di una società altamente competitiva qual è quella statunitense. Ma se ci pensi bene, anche un'approfondita conoscenza della letteratura e della cultura di massa può rappresentare un'esperienza di vita che trova, magari, la sua sublimazione nell'opera letteraria.

Forse uno sguardo agli scrittori americani coevi o della generazione che ha preceduto Foster Wallace può esserci d'aiuto nel mettere meglio a fuoco il problema.

 

Solitudine

 

– Della letteratura che tra gli anni '80 e '90 arrivava dall'America ricordo soprattutto lo stile asciutto, le frasi secche, le descrizioni scarne: era il trionfo del minimalismo. Carver, Ellis, McInerney ma anche il recupero di Hemingway e Salinger, tutto all'insegna della concisione più lapidaria. Magari Infinite Jest è stato soltanto una reazione rispetto a quello stile di scrittura.

 

– Leggevo pochi giorni fa un articolo sul Canone americano di Harold Bloom in cui buona parte degli autori che hai appena citato venivano assimilati ad una corrente di scrittori americani del XX secolo il cui tratto distintivo sarebbe stato quello di voler descrivere e raccontare la solitudine.

Si tratta di un tema che in Infinite Jest è centrale: la solitudine del genio, la solitudine che passa attraverso le perverse dinamiche della dipendenza come antidoto al malessere, la solitudine del tennista sul campo da gioco.

Ma se paragoni la solitudine di Hal Incandenza o di Don Gately con quella degli alcolizzati di Raymond Carver, degli adolescenti di Meno di zero o dei disadattati dei racconti di Salinger, ti renderai conto che il male esistenziale di cui parla Foster Wallace trae le sue origini non tanto da un'esperienza che l'autore potrebbe (e forse ha) vissuto sulla propria pelle, quanto da una visione pessimistica della condizione umana che è figlia della società che l'ha prodotta.

Il male, in Infinite Jest, è un male sociale e in questo senso Foster Wallace sembra voler porre l'accento sull'antico presupposto tragico secondo il quale le colpe dei padri ricadono sempre sulle spalle dei figli.

Ma non si tratta di un pessimismo congenito: questa volontà di rappresentare un universo senza speranza prende infatti le mosse da una visione che ha le sue radici ben piantate nel particolare contesto storico in cui il romanzo venne scritto.

 

– Credo di aver capito dove vuoi arrivare: l'immaginario americano di quegli anni era pieno di padri assenti, di famiglie distrutte, di abusi di sostanze e di violenze sui minori. Dai film di Gus Van Sant a Twin Peaks, dai Nirvana ad Harmony Korine, tutto un filone di opere che presentavano l'american way of life attraverso la lente di una realtà frammentata e priva di punti di riferimento quale era quella in cui Foster Wallace si trovò a vivere e a mettere in campo il proprio talento. 

L'America post-Vietnam dell'epidemia del crack e della disintegrazione dell'idea di comunità, l'America di Reagan, di Bush e del trionfo dell'individualismo, l'America di Kurt Cobain e di Tupac Shakur: è in questo panorama che Foster Wallace ha costruito la sua visione distopica nella quale l'inquietudine esistenziale trova la sua valvola di sfogo nell'annullamento volontario di sé stessi attraverso la pratica di un edonismo autodistruttivo.

Ma quanta vita reale c'è in tutto questo? Quanto dolore, disgusto e senso di inadeguatezza possono stare dietro ad una simile rappresentazione della realtà? Probabilmente non lo sapremo mai. Certo, se guardiamo al dato biografico...

 

– Ma il dato biografico in questa sede non ci interessa: siamo qui per stabilire un criterio di verità nei confronti dell'opera in sé, ricordi?

Se la lettura del testo ci ha sinora permesso di inquadrare un contesto di riferimento, forse essa può portarci anche ad individuare le intenzioni.

 

Mesa

 

– Se l'autore non ci interessa, perché dovrebbero interessarci le sue intenzioni?

 

– Perché esse determiano la forma del romanzo e la sua trama: in quest'ottica, la forma può rimandarci al significato.

Ma devo spiegarti davvero tutto?

 

(risate) 

 

– Bene, allora anche io ho una suggestione da proporti: per come l'ho letto io, Infinite Jest potrebbe essere un sogno di Chris Claremont in cui Charles Xavier e John Garrett dello S.H.I.E.L.D. discutono delle sorti del mondo dall'alto di una mesa in Arizona.

 

– Perfetto, ma fai attenzione: Chris Claremont è inglese!

 

(risate)

 

Capisco quello che vuoi dire; in effetti, verrà un giorno in cui Stan Lee sarà riconosciuto come uno degli scrittori più importanti della letteratura americana, se non altro in termini di influenza.

Del resto, alla fine della lettura di Infinite Jest è pressoché inevitabile che sorga il desiderio di uno spin-off in cui Hal e Don Gately recuperano la testa di J.O. Incandenza dalla Grande Concavità.

 

– Piano con gli spoiler! Ti ricordo che sono fermo a metà libro.

 

– È alla fine del primo capitolo. Del resto, nel flusso incessante di immagini e racconti che costituiscono Infinite Jest è abbastanza difficile fissare un dettaglio tanto insignificante. Quanto al pericolo degli spoiler, puoi stare tranquillo; non so se te ne sei già accorto, ma al pari di alcuni dei migliori esempi di scrittura americana di quel periodo (penso a Pulp Fiction di Tarantino e a Stray Bullets, la serie a fumetti di David Lapham) Infinite Jest ha una struttura ellittica: idealmente, potresti iniziare a leggerlo da un punto qualsiasi della narrazione.

In ogni caso, il tuo riferimento a Claremont e, per riflesso, all'universo della Marvel Comics, può aiutarci a dirigere la barra verso il vero punto critico della questione.

Ti sei chiesto per quale motivo la scena della notte trascorsa da Steeply e Marathe in cima alla mesa ti abbia fatto venire in mente proprio le saghe degli X-men?

 

– Immagino per l'atmosfera da essa evocata. Due nemici giurati che si confrontano sul destino dei loro rispettivi paesi mentre le loro ombre si proiettano al tramonto su uno scenario spettacolare; uno dei due, del quale si intuisce la forza sovraumana, bloccato su una sedia a rotelle; sarà pure colpa del condizionamento della cultura yankee, ma nella mia mente tutto ciò si traduce immediatamente in uno scena che potrebbe figurare in Giorni di un futuro passato o in Dio ama, l'uomo uccide.

 

– È interessante considerare questa tua suggestione nei termini di un'influenza culturale: in questo senso, Infinite Jest è un romanzo che non potrà mai essere capito fino in fondo dai francesi, poiché le migliaia di sfumature e di riferimenti che lo compongono sono talmente connaturati alla cultura americana da richiedere, per essere assimilati, l'attivarsi di quel riflesso condizionato che permette (a noi italiani, per esempio) di inserire senza troppi problemi parole come "spoiler" o "spin-off" nelle nostre conversazioni quotidiane.

Ma quello su cui vorrei tentare di focalizzare la nostra attenzione è la tecnica: l'utilizzo di luoghi comuni e di stereotipi di cui sopra, le citazioni e i rimandi continui all'immaginario statunitense sono il fulcro intorno al quale si muove quella che è, a mio parere, l'intenzione epica di Foster Wallace nel definire, attraverso il suo romanzo poderoso, la cultura statunitense nella sua totalità ed il suo manifestarsi su un piano storico ben preciso.

 

 

 

Cultura

 

– È un po' quello che fece Tolstoj con la cultura dell'aristocrazia russa dalla quale proveniva la sua famiglia.

 

– Sì, ma con le debite differenze: qualsiasi tentativo di mettere in moto, in termini letterari, un universo che basta a sé stesso, non problematico e perfettamente coerente non può prescindere di sicuro da quel che Tolstoj realizzò centocinquanta anni fa con Guerra e pace; ma laddove egli scelse il romanzo storico/realista come veicolo della sua visione dell'universo e dell'anima russa, Foster Wallace, da bravo figlio dell'epoca postmoderna, per costruire il suo mondo adotta invece un punto di vista allegorico e per conferirgli coerenza si serve di un armamentario di citazioni e di riferimenti culturali.

Addirittura, in molti casi egli pone in gioco la forma stessa del romanzo come spia di un preciso orientamento semantico; penso all'utilizzo ricorrente del paradosso che, all'interno della narrazione, trasforma situazioni di matrice realista in un delirio in stile Looney Tunes.

 

– E secondo te questo modo di procedere è sufficiente per poter accostare Infinite Jest all'epica? 

 

– Parlare di epica in relazione ad un romanzo è sempre una forzatura; in molti casi si tratta di una convenzione che serve a mascherare la contraddizione che si annida nei termini stessi della questione: Guerra e pace, come anche la Comédie Humaine, non sono certo epica in senso classico. 

Ma parlare di una intenzione epica o, se preferisci, di un respiro epico, nel caso di opere siffatte è più che lecito; nel caso di Infinite Jest, un breve sguardo alla questione dei generi letterari può tornarci utile in questo senso.

Abbiamo inquadrato questo romanzo all'interno di quel genere distopico che, nell'ambito della letteratura anglosassone, può vantare radici profonde e una tradizione assai ben consolidata; se ci fai caso però in esso manca totalmente l'elemento che della distopia classica costituisce uno dei fondamenti principali, cioè a dire la critica sociale.

Infinite jest si chiude con due terribili citazioni tratte da 1984 di Orwell e da Clockwork Orange di Burgess, che vengono utilizzate da Foster Wallace all'interno di situazioni narrative talmente paradossali da trasformarsi in una parodia, nel primo caso, e in un delirio allucinatorio nel secondo.

Ora, questo svuotamento di senso dell'elemento politico (che stava alla base delle due opere citate) sembra essere un artificio retorico attraverso il quale Foster Wallace vuole determinare la dimensione essenziale dell'universo del suo romanzo: in esso, la completa sottomissione alle spietate leggi che lo sostengono e la violenza generalizzata sono dei tratti culturali condivisi e indiscutibili.

Allo stesso modo, il dramma esistenziale che affligge Hal e i suoi compagni rispetto al disumano criterio selettivo della Enfield Tennis Academy non trova uno sfogo nella lettura critica del modello educativo dentro al quale essi sono inquadrati o, magari, nella ribellione: esso si risolve nell'adozione di una forma di nichilismo legato all'abuso di sostanze stupefacenti, nel quale si riflette un'accettazione passiva della propria sconfitta che è organica al funzionamento del sistema educativo stesso.

In questo senso, l'ETA e la Ennet House rappresentano i due poli di un ragionamento strutturato intorno ad uno dei principi fondamentali della mentalità americana, secondo il quale il mondo si divide, alla maniera manichea, tra vincitori e vinti. Come vedi, ancora una volta non si tratta di un'attitudine alla disperazione connaturata alla visione dell'autore, ma della sua precisa volontà di definire una cultura nelle sue manifestazioni; per quanto i valori di questa cultura, nella prospettiva distorta del romanzo, possano apparire assurdi agli occhi di noi lettori, essi stanno lì a rappresentare un universo coerente, funzionale e perfettamente autosufficiente.

 

Mondo

 

– Mi domando se un lettore americano condividerebbe questo tuo punto di vista. In ogni caso, concordo con te sul fatto che Infinite Jest parli del Nordamerica come se si trattasse di un universo conchiuso. Ho trovato molto interessante il modo in cui i riferimenti al panorama internazionale trovino spazio, nel corso della narrazione, soltanto attraverso Escahaton, il gioco praticato dagli studenti dell'ETA, oppure nei ripassi delle lezioni di storia di Hal Incandenza: mi è sembrata un'immagine poetica che ben si adatta al rapporto, per molti versi infantile, che gli americani intrattengono col resto del mondo.

 

– Nelle settimane in cui ho affrontato la lettura di Infinite Jest continuava a tornarmi in mente la breve nota che Claudio Magris, nel suo antichissimo libro sul mito asburgico, dedicò a Robert Musil e alle prime avvisaglie di crisi nella tradizione romanzesca ottocentesca: "Il romanzo ideologico e sociologico, il racconto che non è più tale ma solo pretesto allo svolgimento d'una problematica intellettuale, al dispiegamento di una concezione del mondo, si sostituiva a quello d'ambiente o psicologico. In un modo ancor più radicale, il romanzo si fa romanzo della sua struttura interna, del suo stesso farsi." Provare a mettere in relazione questo enunciato con Infinite Jest aprirebbe il discorso a delle ipotesi suggestive, tali da sottrarre questo romanzo alla palude del postmodernismo e a collocarlo all'interno di un quadro probabilmente più decifrabile; credo però si tratti di una falsa pista. Se, in una certa misura, è infatti possibile accomunare il romanzo di Foster Wallace alle opere di autori come Musil, Proust, Joyce, Mann e al titanico sforzo di volontà richiesto dalla creazione di un'opera-mondo, il disagio che deriva dal tentativo di farlo rientrare in una tradizione letteraria che travalichi l'orizzonte della cultura americana resta troppo forte.

 

– Eppure, al di fuori dei giochi dei bambini, gli unici  riferimenti al mondo esterno presenti in Infinite Jest sono proprio i numerosi rimandi e le citazioni provenienti dal canone classico della letteratura europea. 

 

– Ascolta, non c'è alcun dubbio che la deformità profetica di Mario Incandenza o le peregrinazioni notturne di Randy Lenz, il suo muoversi "dietro le case" in cerca di vittime, ricordino inevitabilmente le pagine migliori di Dostoevskij; ma questo ha a che vedere con l'eccezionale maestria di Foster Wallace come narratore, non certo col suo essere stato (come immagino sia stato) un accanito lettore e ammiratore di Dostoevskij.

Sono piuttosto le citazioni ad avere tutta l'aria di operazioni estemporanee: dando per scontato che non si tratti di un semplice sfoggio di erudizione, un po' fanno pensare a quel complesso di inferiorità che affligge spesso gli intellettuali americani e che talvolta produce veri e propri mostri come il Kraus Project di Jonathan Franzen.

In effetti, per quanto Foster Wallace si prodighi nel chiamare in causa il povero Yorick, il Bröckengespenst goethiano o la leggenda del Grande Inquisitore, il suo libro rimane, per citare il Jack Kerouac immaginato da Cronenberg nella sua versione cinematografica di Pasto nudo, "più americano del football"; ma proprio in questa irriducibile peculiarità risiede tutta la sua grandezza.

 

Intento

 

– Bene. Terminata la tua efficace disamina, mi sento finalmente pronto a riprendere in mano Infinite Jest e a finire di leggerlo una volta per tutte.

 

(risate)

 

– Buon per te! Per quanto mi riguarda, ora potrò finalmente dedicarmi all'approfondimento del pensiero e dell'opera di David Foster Wallace senza il timore di farmi influenzare nel mio giudizio sul suo romanzo più importante; sarà interessante metterlo alla prova: chissà che non mi ritrovi a dover cambiare completamente opinione...

 

 

(risate)

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