Federica Doglio intervista Mirko Zardini / L'architettura dopo la Crisi

9 Luglio 2021

Quello del libro-intervista è un genere diffuso ma sempre difficile da affrontare in una recensione. In fondo tra l’Autore e i lettori si colloca già un mediatore, che è lì proprio per organizzare, dare ordine e rendere più accessibili a tutti le idee e le opere di chi è intervistato. Il libro curato da Federica Doglio ha però una grazia particolare che fa dimenticare velocemente questo lieve imbarazzo, ricorda più la voce silenziosa di Il Signor Mani che le molte interviste di specialisti del genere, che cercano nelle risposte conferme alle proprie teorie, o peggio quelle di carattere accademico, nelle quali le lunghe domande sembrano soprattutto aspirare a convincere l’intervistato della lealtà intellettuale dell’intervistatore. Federica Doglio in realtà non è affatto silenziosa (o “silenziata”) come il personaggio di Yehoshua, ma inserisce con sapiente discrezione brevi ”stacchi” che hanno lo scopo di recuperare qualche argomento lasciato indietro, produrre piccole correzioni di rotta, ribadire il ritmo assegnato al libro attraverso la suddivisione dell’intervista in paragrafi tematici (non richiamati in un indice) dedicati alle crisi, all’architettura, all’educazione, allo spazio pubblico, alle istituzioni culturali e ad altre questioni di rilevante urgenza.

 

Una “sezione ritmica” insomma particolarmente efficace, che consente a Mirko Zardini di rivelare la vera natura di un libro piccolo (nelle dimensioni) e ambizioso, vale a dire quella di una prima, sintetica, autobiografia scientifica. Dove per autobiografia si intende qualcosa di ben lontano dal mix di storia familiare, iter emotivo ed esperienze formative che compongono il testo omologo pubblicato da Aldo Rossi nel 1981, ma piuttosto un campo di idee ed esperienze di cui Zardini rivendica il diritto di definire limiti e confini, escludendo – come l’autrice non manca di far notare – tutto ciò che esula dalla vita professionale e culturale. 

 

Come è spesso accaduto nelle analisi delle vicende dell’architettura italiana postwar il libro parte dal concetto di crisi. Non però la crisi generica e ricorrente che ritorna nei titoli dei nostri saggi dal dopoguerra a oggi, ma crisi come susseguirsi di episodi specifici che dal 1973 a oggi hanno avuto un impatto evidente sia sul nostro modo di vivere sia sulle idee di architettura, città, paesaggio. I periodi cui Zardini si riferisce sono quattro: la crisi del petrolio del ’73 (“le domeniche a piedi”), quella geo-politico-terroristica del 2001 (le torri gemelle), quella finanziaria del 2008 (il crollo di Wall Street) e infine quella attuale, prodotta dal COVID 19. Sulle crisi il nostro autore ha idee molto chiare. Prima di tutto – spiega Doglio nell’introduzione – pensa che “le crisi non introducano nuove idee o nuovi paradigmi, ma funzionino come acceleratori di tendenze già in atto”. L’altro pilastro del pensiero zardiniano sulle crisi è che non finiscono, ma continuano a svilupparsi in un mondo che mano a mano affina gli strumenti per conviverci. Come negarlo.

 

Quelli che erano considerati problemi di eccessiva dipendenza “post-coloniale” dal petrolio prodotto in paesi politicamente instabili si sono trasformati dopo il 1973 (e la rivoluzione iraniana del 1979) nella consapevolezza di una crisi ambientale endemica legata all’uso delle fonti di energia non rinnovabili. Dalla stessa cornice problematica mediorientale viene anche la questione del terrorismo, che ha certo avuto un picco straziante e spettacolare con gli attentati del 2001, ma che ovviamente era già lì e continua ad esserci. Idem per le crisi finanziarie, che ci sono sempre state e che avevano avuto avvisaglie pesanti negli anni novanta e che naturalmente sono diventate endemiche alla forma deregolata e distruttiva di capitalismo che guida oggi l’economia del mondo. Sulla presenza ricorrente delle pandemie non c’è bisogno di argomentare, infatti in questo caso Zardini suggerisce di non inquadrare la crisi attuale solo nella sequenza storica delle grandi epidemie ma di osservarla in relazione alle altre crisi, e all’idea di sanità globale come uno dei driver essenziali del rapporto tra individui e comunità nel contesto attuale.

 

 

Come avviene per molti studiosi di architettura della sua generazione, attratti dalle potenzialità dell’azione architettonica in campo politico, culturale e curatoriale forse più che in quello delle costruzioni, l’intervistatrice è evidentemente interessata al ruolo “attivo” che possono assumere le grandi istituzioni (musei, centri di ricerca, editoria, accademia) rispetto ai problemi del presente. L’intervistato, per parte sua, è stato per quindici anni nelle redazioni di “Casabella” e di “Lotus International” e poi per altri quindici anni prima curatore e poi direttore del CCA (Centro Canadese di Architettura), uno dei centri di ricerca più autorevoli al mondo. Il CCA, fondato nel 1979 dalla mentore storica di Mies van der Rohe in Nordamerica, Phyllis Lambert, si trova a Montreal, ed è una meta piuttosto distante per gli eventuali studiosi e visitatori. Zardini ha reagito facendo di questa “distanza” dai grandi flussi un punto di forza. “Abbandonando la pretesa di giocare un ruolo centrale ufficiale – spiega – ho voluto il CCA a cavallo tra centro e periferia, in grado di catturare le idee e gli spunti che emergevano in contesti apparentemente periferici o alternativi, consolidandoli al centro del dibattito”. In questo modo ha potuto fare di quelle quattro crisi – e di altre urgenze globali – il driver di alcune delle sue mostre più importanti, tutte realizzate in collaborazione con Giovanna Borasi: 1973: Sorry Out of Gas (2007), What You Can Do With the City (2008), Imperfect Health (2011), e molte altre.

 

A differenza di Federica Doglio, Mirko Zardini è però un baby boomer, formatosi interamente nel ‘900 in scuole formali e informali in cui figure come quelle di Aldo Rossi, Giancarlo De Carlo, Peter Smithson, Aldo Van Eyck avevano grande influenza e amavano far convivere pensiero e progetto. E quindi, a prescindere dall’agency museale e dall’attivismo urbano, ha idee piuttosto precise sull’architettura costruita e sul ruolo degli architetti (e delle scuole). Enuncia senza ritrosia preferenze sia verso “autori” riconosciuti (Gilles Clément, Álvaro Siza, Toyo Ito, Lacaton & Vassal, Sauerbruch & Hutton) sia verso figure sperimentali o socialmente più attive (Atelier Bow Wow, Michael Maltzan, Francis Kéré). Ma soprattutto fissa dei limiti precisi, oggi molto discussi, per l’azione sociale e politica dell’architettura. “Dobbiamo riconoscere – scrive – come l’architettura non sia la soluzione dei problemi, ma sia essa stessa parte dei problemi…”. È vero anche, però, che partecipa attivamente “a migliorare, o peggiorare, le nostre condizioni di vita”. Dove nelle “condizioni” è ovviamente compresa la consapevolezza dei processi ambientali, economici, antropologici e tecnologici del mondo che ci circonda. Secondo il nostro autore, e non solo, i due campi in cui molte delle questioni citate sembrano convergere oggi sono ambiente e tecnologia, presi individualmente e soprattutto in relazione tra loro. Compito di chi progetta, ma soprattutto di “musei, curatori e direttori”, è modificare la propria agenda per saper partecipare all’elaborazione collettiva intorno a queste urgenze, a patto però di saper costruire un punto di vista diverso e laterale sui problemi, come hanno cercato di fare, almeno nelle intenzioni del nostro autore, le mostre del CCA.

 

Due ultime note, tra loro obliquamente collegate e certamente interessanti. La prima riguarda i libri, che sono molto presenti in questa intervista, sia nelle citazioni dei due autori sia nelle lunghe bibliografie finali, quasi a ribadire il fatto che qui non si tratteggia “un personaggio” ma si seguono linee di pensiero. Volendo fare una statistica illegittima, due autori sembrano più cari degli altri all’intervistato: Ivan Illich (con molti titoli) e Shoshana Zuboff (Il capitalismo della sorveglianza, ovviamente). Forse non gli unici preferiti da Zardini ma qui essenziali per definire i limiti della discussione, anche in riferimento a quei concetti di società, libertà, ambiente e tecnologia appena citati. Restando vicino ai libri, il testo contiene un’affermazione significativa su come nel XXI secolo le biblioteche abbiano dimostrato capacità di rinnovarsi in modo radicale e di comprendere a fondo lo spazio e il tempo che viviamo. Non altrettanto si può dire delle scuole di architettura, che gli appaiono invece inchiodate a un’idea di radicalità strettamente novecentesca, intesa come pura combinazione di tecnologia e linguaggio. 

 

Il libro si chiude con una domanda classica sui “programmi futuri”, alla quale l’autore risponde che sta lavorando a una raccolta di testi. Come dire che il secondo capitolo dell’autobiografia scientifica che qui abbiamo cominciato a leggere arriverà presto, e forse sarà il segnale della restituzione di Mirko Zardini alla scena architettonica italiana, alla quale è certamente mancato molto nei lunghi anni nordamericani.   

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