Memento italiano

31 Dicembre 2013

Una flessuosa linea di continuità ha attraversato la storia politica italiana, almeno nel periodo repubblicano. Eventi rilevanti, cruciali, definiti variamente come «terremoti», «innovazioni», «rivoluzioni», sono stati in realtà rapidamente derubricati a corrente normalità.

 

Un collettivo fenomeno di rimozione, cancellazione cosciente o acquiescente e interessata, delle vicende dolorose e vergognose della storia patria. Abbiamo superato o meglio saltato con un’alzata di spalle e un misero e incespicante mea culpa rapidamente recitato come svogliati ragazzini in sagrestia. Per passare da una fase – triste e ignominiosa – a una potenzialmente prospera e civile.

 

Alberto Sordi ne I Vitelloni di Federico Fellini

 

È possibile individuare quattro momenti in cui il cambiamento, pur significativo, ha coinciso con una fase di continuità, una lunga e indistinta calma come se nulla (o quasi) fosse avvenuto. Gli snodi della Repubblica, salutati rapidamente come «rivoluzionari» o «epocali», si sono trasformati però in una appiccicosa fase di reazione, di ritorno alla conservazione e dunque alla continuità senza cambiamento.

 

Il primo momento, dopo la caduta del Fascismo il 25 luglio del 1943, e la fine della dittatura nazifascista il 25 aprile del 1945, allorché l’entusiasmo repubblicano ha pervaso ogni aspetto della rinata società politica e «civile». Indubbio è stato l’avanzamento che l’Italia ha conseguito e che ha trovato massima e nobile espressione nella Carta costituzionale. La spinta innovatrice e riformista, voire rivoluzionaria, del post Liberazione, sebbene con momenti di vero avanzamento sociale, non ha trovato pieno compimento proprio sull’aspetto cruciale: il superamento del fascismo. Storici e scienziati sociali hanno affrontato temi più delicati legati alla nascita della dittatura, alla caduta del sistema liberale, al consenso per il regime, alla figura del duce, alle leggi razziali. Non c’è stata analoga e disciplinata auto-analisi «collettiva» che, come Svevo, affrontasse il malessere dell’Italia / Zeno.  

 

Sandro Pertini

 

Il superamento dell’Italietta che voleva «un posto al sole» avvenuto nello spazio di un mattino. Sprezzanti commenti tendenti a superare l’onta e repentino sminuire, l’Heri dicebamus di Giustino Fortunato declinato con un assolutorio scurddammoce u passatu, e i riferimenti di Croce alla cultura nazionale reificati dal sedicente italiani brava gente (prego chiedere ad Abissini, Albanesi e Greci per conferma). Il timido tentativo del governo Parri di defascistizzare e il ritorno alla real politik. E quindi il boom economico come inebriante filtro della memoria e i frigoriferi, la 500 e il mito della Vespa. Per dire. Tutto condito da giustificazioni, pur rilevanti, ascrivibili al contesto internazionale e all’anomalia italiana. Insomma alla iattura del destino cinico e baro.

 

 

La seconda tappa della (s)memoria è il 1969. Dopo la bomba infame del 12 dicembre a Milano e l’inizio della strategia della «tensione», l’Italia è immersa negli anni di piombo. Quali le cause, le ragioni, i beneficiari? Non è dato ancora sapere. Figli viziati che si ribellano e nostalgici del fascismo, pidiusti e servizi segreti? Un amalgama indistinto e, quindi, il terrorismo rosso/nero, in una strabica distorsione cromatica che disorienta i giovani d’oggi. Ma per carità non ne parliamo più, l’Italia ha bisogno di serenità, quasi che verità e «pace sociale» fossero mutuamente esclusive.

 

Funerali della strage di Piazza Fontana

 

La Milano «da bere» e il rampantismo socialista a sancire il passaggio verso il nuovo mondo, senza radici. E in questa dinamica, tertium datur, le vicende di Tangentopoli derubricate a così fan tutti di craxiana memoria, consapevole disegno politico giudiziario, ovvero inequivocabile segnale di diversità morale di quanti non implicati nelle vicende di Mani Pulite. Ancora una volta la rimozione, il passaggio di stato, da solido a gassoso, la liquefazione sociale che non permette di riconoscere le cause e le responsabilità oggettive. E collettive.

 

 

La mafia come intermezzo e trait-d’union repubblicano che «ci sarà sempre», che anzi non esiste, che è un tratto culturale. E per non vederla cerchiamo di naturalizzarla, di sminuirla o rimandarla a un «terzo livello» senza guardare in faccia il mafioso seduto accanto; oppure il rivolgersi a santi ed eroi salvatori (nel recente interessante libro di Claudio Martelli, Ricordati di vivere, emerge l’amarezza di Falcone per questo atteggiamento), senza mettersi in causa collettivamente.

 

Strage di Capaci

 

A superare l’impasse e la falsa coscienza ecco il sogno del self-made man (what about women?) e del liberismo salvifico. Del resto i valori post-materialisti nella Peninsula «particulare» di Guicciardini hanno tardato ad arrivare if any, non solo per patente mediocrità dei cosiddetti «Verdi» locali, nani di fronte ai Cohn-Bendit o Joschka Fischer.

 

In questo contesto, ed il quarto momento topico, Berlusconi con le sue fiabe crudeli tiene in pugno per vent’anni l’intero sistema politico, sociale ed economico. Funge da valvola di sfogo (delle responsabilità) individuali e promette come laico martire di accollarsi i mali dell’Italia: ghe pensi mi. Basta inserire la scheda nell’urna e scaturiranno posti di lavoro a milioni. L’oggettiva onta berlusconiana è però funzionale anche a buona parte dell’inetta classe dirigente di sinistra, la cui insipienza preparerà il terreno all’ascesa del populismo grillino.

 

 

Il superamento di questa fase pare sia già avvenuto, a nostra insaputa. «Terza Repubblica», «fine del ventennio», «nuovo che avanza»; formule cretine e acritiche per celare ancora una volta la necessità di una profonda seduta di auto-analisi politica e sociale. L’aggravante di questo mood è che si addebita ai nuovi protagonisti la responsabilità del passato. È sciocco e banale ritenere che Renzi, ad esempio, sia il «nuovo Berlusconi»: chi lo pensa mescola piani analitici, quello politico normativo con l’approccio sistemico. Per i destini nazionali non è rilevante quanto siano affini Silvio e Matteo, Alfano e Letta, piuttosto è cruciale capire che rischiamo di saltare nuovamente una indispensabile fase di riflessione spietata.

 

Tuttavia, la corale volontà di voltare pagina appare pertanto assai preoccupante, accompagnata da strali retorici e ricattatori: «inutile parlare di Berlusconi, concentriamoci sui problemi degli Italiani, non attardiamoci ancora su un singolo caso». Ancora? Ma se non abbiamo neanche iniziato! Tipico della schizofrenia. Per non prendere parte fino in fondo. Del resto il voto delle politiche scorse lo ha dimostrato benissimo, e l’exploit del M5s contiene molto della delega irresponsabile e acritica, come nel caso de i Forconi che esprimono tanta richiesta di sicurezza materiale piuttosto che «valori espressivi», come qualcuno favoleggia.

 

Danilo Calvani, uno dei tre leader del movimento dei Forconi

 

Insomma, niente di vagamente simile a quanto accaduto, reiteratamente in Italia, è successo in Paesi la cui storia politica è stata segnata da momenti drammatici. L’esempio più virtuoso è quello della Germania (dell’Ovest) che ha «fatto i conti» con il proprio passato: i figli e poi i nipoti della generazione nazistificata hanno duramente chiesto conto di quanto (non) fatto dai propri predecessori durante l’ascesa e la dittatura hitleriana. Mortificati, spietati con loro stessi e decisi a rimuovere il passato ingombrante, consapevoli che per liberarsi dalle ombre delle camere a gas servisse un’operazione verità. Culminata con i processi, le collaborazioni con i paesi invasi, il risarcimento (seppur parziale) alle vittime e, simbolicamente, con il gesto di Willy Brandt in ginocchio davanti al monumento in memoria della distruzione del ghetto di Varsavia. Chapeau.

 

Willy Brandt

 

Più indulgenti i tedeschi sono stati con le vicende del terrorismo «rosso» e con la conseguente nebbiosa e muscolare gestione del dissenso, ma certamente meno aleatori e vaghi degli italiani. Alla fine delle dittature «sudamericane», cileni e argentini, con dolorose rinunce e discutibili decisioni («punto final» e «obediencia debida» in Argentina e lo status di Pinochet in Cile), hanno affrontato a viso aperto il passato. La Francia di De Gaulle ha analizzato spietatamente la parenthèse imbarazzante di Vichy e dei collaborazionisti e, sebbene con ritardo e molto meno rigore, anche con la decolonizzazione a partire dalla «vicenda» algerina. Vicende in chiaro/scuro in ciascun caso ma che denotano almeno un tentativo di riconciliarsi con la propria storia, con sé stessi, non scappando e dimenticando, ma passando attraverso un doloroso e complicato processo di mortificazione delle coscienze collettive.

 

L’Italia resta invece imbalsamata. Un Paese che vive di glorie del passato, non a caso quello pre-repubblicano o peggio pre-unitario. Un mondo onirico in cui le ombre non sono fantasmi, ma coreografia romantica in cui si dissolve l’onta di quello che è stato, e di cui rapidamente disfarsi. Una famiglia aristocratica in evidente decadenza, del cui splendore non resta che un simbolo araldico sul portale del palazzo, ma di cui è palese la volontà di non affrontare la realtà del cambiamento di status.

 

Marcello Mastroianni, La dolce vita di Federico Fellini

 

Le imbarazzanti azioni dei discendenti vengono rapidamente nascoste «sotto al tappeto» e tutto continua come se niente fosse. È forte la paura di guardare indietro, di affrontare il mostro interiore e scoprire che alcuni figli della Repubblica non sono rei di innocenti sregolatezze, di irruenza tipica dei rampolli, ma sono veri e propri criminali. Il pericolo è cioè in casa, il virus si annida nel corpo apparentemente aitante, ma pervicacemente si nega che sia stato il nonno ad abusare del nipote, il marito a violare la moglie e amenità discorrendo. Come nella miglior tradizione ipocrita delle nobiltà decadenti. E si salta a piè pari il capitolo doloroso.

 

Voltarsi indietro viceversa ci libererebbe dai molti orchi della notte, ma per farlo bisogna guardarli in faccia, i mostri, e non fare sconti. A niente e nessuno, tanto meno a se stessi, kantianamente. Al contrario di Orfeo, l’Italia deve voltarsi indietro con sguardo severo e implacabile e chiedere conto a Euridice di «ciò che è stato». Per salvare la verità e la dignità.

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