Senza partiti

15 Aprile 2013

Partitocrazia. Degenerazione e corruzione unite al fallimento del compito assegnato ai partiti dai padri costituenti, ossia favorire la partecipazione dei cittadini per contribuire alla politica nazionale. Un quadro di crescente delegittimazione e discredito e una diffusa percezione di inefficacia. Ma parlare di crisi dei partiti appare eccessivo, o, nella migliore delle ipotesi, fuorviante e comunque incompleto e inesatto. Per definire se effettivamente i partiti italiani attraversino una crisi è necessario introdurre un elemento di comparazione diacronica, ancorché tra paesi quantomeno del contesto europeo. Viceversa, appare superficiale e frettolosa la conclusione che vedrebbe i partiti segnati soltanto da profonde e laceranti fratture e irreversibile declino.

 

 

Pare che Deng Xiaoping riassumesse così l'idea del Socialismo cinese: Non importa se il gatto sia nero o bianco, purché acchiappi i topi, segnalando perciò che l’aspetto cruciale fosse il risultato. Una sorta di aggiornamento del machiavellico il fine giustifica i mezzi. Pertanto, per capire se e in che modo i partiti italiani (e non solo) fronteggino una crisi, è indispensabile definire quale sia, oggi, la natura sociale del principale attore politico.

 

Forza senza legittimità. Il vicolo cieco dei partiti di Piero Ignazi smentisce, per tabula, molti luoghi comuni addensatisi negli anni attorno ai partiti. Chiarisce inequivocabilmente che la risposta fornita dalla vulgata comune – ripresa in ambito politico e giornalistico, e, ahimè, talvolta anche dai politologi – circa lo stato dei partiti, e la loro presunta crisi, è quantomeno provvisoria e debitrice di integrazioni e approfondimenti. In realtà già nel pluri citato articolo del 1996 (The crisis of new parties and the rise of new parties, in party Politics vol. 2 n. 4 pp. 549-566), l’A. segnalò l’importanza di stabilire degli «indicatori» che potessero “misurare” i livelli di crisi e definirne gli ambiti e l’entità. Le risultanze empiriche rilevarono che una risposta definitiva circa la crisi dei partiti fosse problematica e sostanzialmente inidonea. Piuttosto era in declino una specifica forma di partito che aveva ampiamente dominato lo scenario delle democrazie nel post seconda guerra mondiale: il partito di massa.

 

I cambiamenti sociali, la crescita economica, le ondate post materialiste (di sinistra e di destra), la crescente secolarizzazione e la pervasiva ascesa dei mass media, e della tv in primis, contribuirono a scardinare i gangli di una struttura sociale e politica che aveva nel partito di massa il fulcro. La cinghia di trasmissione tra la società e lo Stato, il partito come corpo intermedio in grado di accompagnare l’elettore/militante dalla culla alla tomba, stava ormai per sfibrarsi. Ma con intensità e modalità differenti tra vari Paesi e famiglie politiche-partitiche. E in questo contesto l’Italia ha rappresentato un’eccezione (piuttosto che un’anomalia) per la presenza del più grande partito comunista dell’Europa occidentale, la resilienza delle sub-culture sociali e territoriali e la cortina di ferro che correva lungo l’intero continente attraversando la Penisola e accentuandone le divisioni ideologiche.

 

Come rileva acutamente Ignazi, si tratta piuttosto di un potente ridimensionamento della forma partito di massa, e di una generale delegittimazione di tale organizzazione, anziché di una crisi tout court dei partiti stessi. I partiti, sempre più pigliatutti, ossia non solo numi tutelari di una classe sociale privilegiata (gardée), hanno perso numeri ingenti di iscritti, questi ultimi non più funzionali ad una società “aperta” a vari interessi difficilmente rappresentabili in forma monolitica e totalizzante solo da una forza politica. «L’iscritto perde potere di condizionamento». Perché diminuisce il loro numero e mutano le loro funzioni. Come riporta dettagliatamente Ignazi, «all’inizio degli anni Sessanta in paesi europei dell’Europa occidentale più del 10% degli elettori era iscritto ad un partito, […] negli anni Ottanta la media è scesa sotto al 10% e all’inizio degli anni Duemila sotto al 5%». In Italia, dopo la fine della cosiddetta prima Repubblica, in cui il PCI e la DC potevano vantare un alto numero di aderenti, la fase declinante della membership è stata pressoché inarrestabile, con le parziali eccezioni del PD e della LN, ma nel complesso il peso degli attivisti di partito si è molto contratto. Stessa grama sorte hanno subito le sedi fisiche dei partiti, variamente definite, a seconda della pregnanza ideologica o della fantasia organizzativa e della moda dei tempi come sezioni, sedi, clubs. Alcuni partiti, come il M5s, non ne hanno, mentre altri hanno tentato per un po’ di tempo di sostenerne la diffusione, soprattutto tra gli epigoni del PCI.

 

Inoltre, al di là delle oscillazioni elettorali, indicatore “immediato” per rilevare lo stato di salute di un partito, e della strutturazione dell’offerta politica elettorale (in Italia innovata nel 1994 con Forza Italia e nel 2013 dal M5s), la tesi della crisi dei partiti appare difficilmente sostenibile se si osserva il ruolo che i partiti conservano in termini di selezione del personale politico amministrativo e di scrittura della agenda politica. Oltre i tre quarti, rileva Ignazi, del personale di governo nelle democrazie occidentali dal dopoguerra, è chiaramente di estrazione partitica: ossia sono selezionati dai partiti oppure presentano una definita carriera di militanza.  

 

Il patronage, ossia la nomina discrezionale (su basi di fedeltà al partito o al singolo politico) in posti chiave nell’amministrazione pubblica è una risorsa cruciale di partiti contemporanei. Basti pensare che nella pubblica amministrazione italiana «il 60% degli assunti tra il 1970 e il 1995 non ha partecipato ad alcun concorso ed è stato assunto per linee partitiche».

 

La crisi dei partiti è perciò prevalentemente connessa alla delegittimazione del loro ruolo e al declino della funzione espressiva – ossia la volontà di condividere con altri la stessa visione del mondo –, tipica della mission attribuita ai partiti di massa. L’abitudine e forse in parte l’”affetto” verso questo modello di partito ne distorce la percezione e rende inclini a decifrare i profondi cambiamenti che hanno attraversato i partiti solo in chiave negativa rispetto al modello idealitipico del partito di integrazione di massa. Che non esiste più. Come scriveva il politologo olandese Hans Daalder, ripreso da Ignazi nel suo testo, quel tipo di partito «era figlio della società industriale». Dal partito di massa dunque, si è passati, per l’azione congiunta di vari fattori, a una forma di partito (il cartel party) sempre più dipendente dal ruolo dello Stato, nelle sua versione di erogatore di risorse umane e finanziarie. Infatti, l’altro tema dolente è quello del finanziamento pubblico, con i dubbi sulla loro liceità, utilità e legittimità dopo che, per due volte, i cittadini-elettori italiani hanno sonoramente sanzionato la norma che lo istituì a beneficio dei partiti. I quali somigliano sempre più ad agenzie pubbliche: è previsto un rimborso, per ogni voto ottenuto, introdotto dopo la sonora bocciatura referendaria del 1993. Il finanziamento pubblico in Italia fu introdotto nel 1974 per far fronte allo scandalo dei petroli, illecite elargizioni in forma di tangente. La puntuale rassegna riportata da Ignazi sui bilanci dei partiti italiani mette in evidenza che nessuna forza politica è oggi in grado di sopravvivere senza il sostegno pubblico. Inoltre, la significativa disponibilità di risorse appannaggio del partito degli eletti tende a generare un processo di verticalizzazione, ossia di centralizzazione del potere nelle mani di pochi politici. A scapito del processo democratico e quindi del coinvolgimento degli iscritti. E ciò alimenta la sfiducia.

 

L’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, presente in tutti i paesi europei, a eccezione di Svizzera e Malta e della Gran Bretagna, paese questo in cui il contributo statale è destinato (significativamente) solo all’opposizione parlamentare, merita di essere considerato nei suoi due versanti relativi a conseguenze e finalità. Da un lato l’eliminazione del sostegno finanziario ai partiti italiani agirebbe quale contenimento della spesa pubblica e probabilmente, almeno nel breve periodo, conterrebbe i miasmi dell’anti-politica. Che però resterebbe un animale insaziabile e dunque le critiche e i dubbi sulla legittimità e gli attacchi delegittimanti ai partiti continuerebbero poco dopo. Il gesto nobile di tale operazione indurrebbe però a dare maggiore autorevolezza e sobrietà alla politica e ai suoi esponenti, prima che incidere profondamente sui capitoli di bilancio.

 

Inoltre, più o meno consapevolmente, e un po’ paradossalmente, l’idea di abolizione del finanziamento pubblico rimanda al modello di partito di massa. Almeno per quanto concerne la ri-attivazione del party on the ground, ossia degli attivisti e dei militanti, al fine di sopperire con il loro contributo volontario, sia economico che materiale, alla riduzione delle disponibilità finanziarie provenienti dallo Stato. Un’azione, quella di ri-sollecitare e coinvolgere la membership, che anche i fautori del mantenimento del finanziamento pubblico non possono che sponsorizzare al fine di riacquisire parte della legittimità perduta.  

 

Accanto all’interpretazione, unilaterale e imprecisa, che vede nel partito di massa il primo motore immobile della politica e della società, c’è viceversa la lettura dei cambiamenti, e dunque l’allontanamento da quel modello ideale, come un’irreversibile e soprattutto inarrestabile percorso predestinato. E’ utile indagare cosa resti dei modelli di partito evocati quali «definitivi» in ciascuna fase politica, ma forse risultati solo à la mode anche nei commenti: basti pensare al franchising party, al partito «personale» e, seppur in misura minore, al cartel party. Queste oscillazioni interpretative risentono in parte di un assunto teorico infondato: osservare i cambiamenti organizzativi come linea evolutiva ineluttabile, deterministica e lineare, e a tratti positivista (dal partito di massa al cartel party), mentre andrebbe probabilmente condotta una riflessione approfondita circa la possibilità, poco o punto eccentrica, che ciascun partito segua percorsi differenziati nello spazio e nel tempo.

 

Riconquistare legittimazione dunque, fornendo nuovi canali di partecipazione. È il tentativo portato avanti in quasi tutti i principali partiti europei (si veda l’articolo di P. Ignazi sulla Rivista Italiana di Scienza Politica, n. 3/2004). In questo contesto di inclusione attraverso metodi partecipati di selezione della leadership, l’Italia si distingue, encore une fois, come eccezione. Soltanto il Partito democratico ha proceduto ad aprire i sancta sanctorum del processo decisionale per individuare i candidati alle cariche monocratiche e alla guida del partito. Ignazi mette però bene in rilievo quanto, dal punto di vista teoretico e dell’analisi sul partito-organizzazione, questa tendenza possa in realtà celare una perniciosa e insidiosa sfida al carattere democratico dei partiti, che proprio attraverso canali di maggiore legittimazione, vorrebbero aumentarla. Almeno formalmente. Il rischio è dato dalla centralizzazione verso il party in central office, e il conseguente depauperamento dei corpi intermedi.
Ignazi in 130 pagine dense e agili presenta un quadro assai chiaro dell’evoluzione del partito moderno: dal modello di massa al partito “cartello”, incistato nei gangli finanziari dello Stato. E che, per sopravvivere, è alla ricerca pirandelliana di una strada che ne recuperi almeno parte della legittimità/legittimazione. Guardare al partito di massa in maniera oleografica è dunque fuorviante, sebbene “rassicurante”, ma rimanda a un piccolo mondo antico ormai desueto. E rischia di far precipitare l’analisi dello stato attuale in sonnacchiosi ossimori, visioni manichee e interpretazioni normative al limite del wishful thinking. Le pagine del volume di Piero Ignazi segnalano che i partiti, in specie quelli italiani, non sono in crisi, ovviamente una volta che venga ben definita cosa si intenda con questo termine. Viceversa, i partiti godono di ottima salute quanto a risorse finanziarie e umane (staff, personale amministrativo, ecc.), ma sono molto meno legittimi e credibili. Del resto tutte le rilevazioni segnalano che solo il 3% degli italiani ripone fiducia in loro. Inoltre, la nascita e la crescita di nuove forme di partecipazione politica pongono i partiti tradizionali di fronte a sfide e dilemmi organizzativi non facilmente risolvibili. Venuta meno la funzione espressiva dei partiti, la partecipazione all’interno di queste organizzazioni appare sempre più – benché non esclusivamente – dettata da ragioni individuali, ossia votata alla ricerca di incentivi selettivi (carriera, incarichi, ecc.), non sinonimo di corruzione, ma comunque estranei alla visione collettiva.

 

«La ragione dell’attuale crisi di credibilità dei partiti, dovunque ma soprattutto in Italia, è proprio dovuta allo scatenarsi di questi appetiti». «Senza spossessarsi di tante delle risorse accumulate rimarranno preda dell’ambivalenza tra forza e legittimità».

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