Milano / Paesi e città

1 Settembre 2011

Pochi anni e sotto questo templum le cose sono cambiate alla velocità della luce continuando a sembrare immobili. È come una legge fisica: da un lato si disgrega tutto, dall’altro tutto torna ripetersi in gesti pressoché uguali.

 

Lo sbriciolamento delle grandi fabbriche ha lasciato spazio alle luci dei centri commerciali. Caproni, Cinemeccanica, Lagomarsino, Lesa, Mivar, Motta, Plasmon, Tecnomasio, solo per citarne alcune, hanno indossato l’abito di IperCoop e villaggi globali in cui persino il carrello è extralarge, per fare spazio ai desideri oltremisura dei nuovi milanesi; così come a nuovi spazi abitativi che fanno scrivere a Io Donna che questa è la zona BGG: “defilata ma in progress. Loft da ex edifici industriali, teatro Parenti, studi creativi e BGG, Bella Gente Giovane”. Hanno chiuso i tanti cinema di quando ero piccola - per ultimo il Maestoso, datato come il suo nome - soppiantati da fumetterie giapponesi che aprono come chicchi di mais scoppiati. Serrano le imposte le scuole e lasciano spazio a teatri sperimentali. I percorsi in bicicletta sono sempre quelle stesse strade rotte, che percorrevo andando al Berchet e che oggi, 30 anni dopo, percorre mia figlia per tornare nella stessa sezione B.

 

Nel frattempo, i negozi e le piccole insegne si ripopolano con nuovi volti, tutti stranieri: alla calata degli arabi che sembrava non avere tregua si giustappone oggi quella sorridente e femminile dei cinesi, animatori incontrastati di tutti i bar e dei centri estetici. E in mezzo sudamericani, indiani, filippini e pakistani a cercare ognuno una ragione per stare.

 

Il verduraio milanese, alla seconda generazione, convive sereno con il minimarket rumeno aperto sette giorni su sette; il vecchio calzolaio emigrato a tredici anni da Capo Vaticano, che passa al lavoro anche i giorni di festa, si divide i clienti con il piccolo negozio dei giovani bellissimi della Costa d’Avorio, affacciato su Piazza Insubria. La sartoria Desi, di una giovane albanese, cuce le camicie di Moira Orfei e poi chiama commossa la mamma a Tirana: “Guarda la tivù stasera, Moira ha la camicia che le ho rammendato io”.  Il lavoro si trasforma, il mercatino dell’usato della domenica di piazzale Cuoco illustra economie sommerse efficientissime, in cui nulla è inutile e una nuova vita aspetta ogni scoria. Mentre il sabato è invece il giorno degli attraversamenti con mezzi di fortuna d’un melting pot che spinge su ruote improvvisate cassette di frutta e verdura dall’ortomercato alle proprie case.

 

Una poesia incessante di storie di emigrazione, tutte diverse, tutte uguali che è un viaggio - avventuroso - nella storia e nella geografia.

 

Es geht weiter, it goes on, per dirla con Pipilotti Rist.

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