Speciale

Non rinunciare ai sogni

17 Gennaio 2014

“Non è giusto che rinunci ai tuoi sogni”, mi ha detto mio padre una mattina, tendendomi un'imboscata all'uscita dal bagno.
Ero di fretta, perché erano già le cinque e mezza e per le sei dovevo essere in pasticceria, così non ho dato molto peso alle sue parole, attribuendole a un episodio di sonnambulismo melenso, una nuova patologia da studiare.

 

Quella frase, però, mi è stata ripetuta quella sera stessa da Alessandro, mio antico compagno di corso alla gloriosa Facoltà di Architettura di Valle Giulia. Si è laureato cinque anni dopo di me, MA suo padre ha uno studio molto bene avviato. Mi ha invitato a cena a casa sua, un attico con vista su piazza di Spagna, e mentre bevevamo il bicchiere della staffa mi ha detto proprio così: “Non è giusto che rinunci ai tuoi sogni”, offrendomi un posto nel suo studio. Non ho risposto, stupefatta com'ero: possibile che potesse essere così facile?

 

Alessandro non mi è mai piaciuto, per la verità non mi è neanche mai stato troppo simpatico, ma mi stava dietro da anni e per una volta, forse, ho voluto provare anch'io a prendere una scorciatoia, visto che lo fanno tutti, e ne vanno pure fieri. Però sono tutta sbagliata, evidentemente, perché quando lui ha proseguito: “Anche se, per realizzarli, si devono fare dei sacrifici”, e, forse per meglio rimarcare il concetto di “sacrificio”, con un balzo felino mi si è buttato addosso, l'ho schivato con un'agilità che non credevo di possedere, assistendo con raccapriccio allo spettacolo del suo ragguardevole naso che andava a spiaccicarsi contro lo schienale della poltrona Barcelona su cui ero seduta fino a pochi istanti prima. Senza dargli il tempo di ricomporsi ho recuperato borsa e cappotto, e ho infilato la porta.

 

Mentre camminavo per via Condotti, deserta e bellissima a quell'ora, ho ripensato a Giovanna, che guadagna seicento euro al mese con contratto di collaborazione occasionale e si paga lei la benzina per andare sui cantieri; a Simone, che dopo mesi di ricerche è riuscito a trovare un posto in uno studio, ma dovrà andarsene quando l'amico che glielo ha ceduto finirà il dottorato, proprio come quando prendi una stanza in subaffitto; a Veronica, che sta per chiudere lo studio che aveva aperto con tanti sacrifici, perché non vuole più farsi pagare l'Inarcassa dai genitori.

 

Continuando a farmi tagliare la faccia dalla notte gelida sono arrivata in piazza Navona, la mia preferita, anche se solo nelle serate infrasettimanali, quando non c'è nessuno e la Fontana dei Quattro Fiumi del Bernini è tutta per me; la sapete la leggenda secondo cui la statua del Rio della Plata alza il braccio come a proteggersi dal crollo della facciata di Sant'Agnese in Agone, opera dell'odiato Borromini? Pare sia senza fondamento, perché la fontana è stata costruita prima della chiesa, ma fa comunque sempre una certa impressione sui turisti e sulle ragazze, al primo appuntamento.

 

Gian Lorenzo Bernini era sulle cinquantamila lire quando erano ancora una cifra considerevole; allora ero bambina, e avevo diritto ai miei sogni. Ora, forse, non più. Buttarsi nella fontana, però, sarebbe inutile, è pure poco profonda; quindi vado a casa a farmi consolare da Lalla, il mio cane, perché, tanto, la notte non porterà consiglio.

 

La mattina dopo, alle cinque e un quarto, mio padre è di nuovo fuori dalla porta del bagno.
“Forse è la prostata”, penso fuggevolmente, legandomi i capelli. Sono sul punto di chiederglielo, quando lui mi fa: “Hai pensato a quello che ti ho detto?”.
“Sì”, rispondo d'istinto, senza capire a cosa si riferisca, ma desiderosa di non deluderlo. Praticamente, la storia della mia vita.
“Ecco. Mi avevi parlato di quel master a New York...”
“Costa tantissimo”, taglio corto, cercando di sgusciare via, o farò tardi anche oggi.

 

Lui mi sbarra la strada, appoggiandosi allo stipite:
“Sto per andare in prepensionamento, mi hanno fatto una buona offerta”, mi dice.
Poi mi abbraccia forte, lì, davanti alla porta del cesso.

 


 

Questo pezzo segue La vita è una lunga fuffa tranquilla

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