OWS. La protesta continua a Zuccotti Park

20 Novembre 2011

La notte di martedì 15 novembre, fra l’una e le cinque, il sindaco Bloomberg ha fatto quello che non era riuscito a Mubarak in piazza Tahrir: ha sgomberato Zuccotti Park (un ottimo video sullo sgombero è qui sotto). Un po’ era nell’aria, visto gli sgomberi degli ultimi giorni a Oakland, Denver, Boston e Nashville. Ma a far decidere il sindaco dev’essere stata l’ondata di freddo, con neve, dell’ultima settimana di ottobre. Come tutti, io compreso, Bloomberg pensava che a smantellare l’occupazione ci avrebbe pensato l’inverno, che oltre ad essere francamente insopportabile qui dura da novembre a marzo. Ma avevamo gravemente sottovalutato la pellaccia degli occupanti, che si sono facilmente adattati alle mutate condizioni climatiche, e ignorando i regolamenti comunali hanno in pochi giorni attrezzato una variopinta tendopoli nel parco. In quel momento là il sindaco si sarà reso conto che il freddo non gli avrebbe levato le castagne dal fuoco e ha optato per l’azione messa poi in pratica stanotte.

 

 

Il vantaggio di vivere nel 2011 è che uno, anche se non è sul posto, un’idea di un avvenimento se la può fare anche stando a casa; basta che abbia voglia di salterellare da un sito web all’altro. È quello che faccio per un paio d’ore, fino a quando mi devo fermare per l’overdose d’informazione che mi intasa il sistema percettivo. Cerco di riflettere sulle immagini, perché sono loro a restare un minimo impresse dopo queste sedute di navigazione forzata. In teoria, in base ai principi che plasmano la costituzione materiale qui negli Stati Uniti, proteggendo il cuore del mercato, la borsa di Wall Street, l’azione di Bloomberg è la quintessenza della democrazia: la libertà che come individui esercitiamo vendendo o comprando merci (tutte, dalla nostra personale forza lavoro fino a una multinazionale che vale fanstastiliardi di dollari) è l’altra faccia di quella di cui godiamo in quanto cittadini di uno stato democratico. E poi il sindaco di New York non c’entra niente con un tipaccio come Mubarak, che faceva torturare gli oppositori e metteva i figli a posto a spese dello stato.

 

Tutto verissimo, ma a guardare gli sguardi degli uni e degli altri, di chi difende la Borsa e di chi la attacca, mi resta un po’ di disagio. Certo non si può pretendere che dei poliziotti impegnati in uno sgombero brillino per indipendenza di giudizio e vivacità intellettuale, però, però lo stacco è forte. Forse è colpa degli altri, degli sgomberati, che sono tanto furbi, mediaticamente, da far parlare ai loro corpi il linguaggio della libertà.

 

 

Sia quello che sia, navigando da un video all’altro, alla fine resto con la sensazione come di un’esagerazione, di un eccesso di forza esercitato più per offendere che per difendere.

 

17 novembre, mattina

 

Oggi è il Day of Action, dodici ore di mobilitazione intorno alla Borsa di New York. All’evento della mattina, la marcia sul Wall Street, partecipo in modo virtuale. Seguo la diretta televisiva sul canale Ustream Theother99, mentre contemporaneamente apro una finestra su Twitter e un’altra ancora sulla pagina Facebook di Occupy Wall Street. Per fortuna non ho dato il numero di cellulare per farmi mandare SMS dal movimento, quindi riesco per un po’ a controllare l’alluvione di notizie. Ben presto la diretta si divide in tre sotto-finestre, corrispondenti ad altrettante telecamere manovrate da agilissimi operatori. Riescono al tempo stesso a condurre la telecronaca, dialogare con i loro compagni nei cortei, parlare al cellulare, dare e ricevere informazioni sull’andamento della giornata e ogni tanto persino a urlare la loro gioia per sentirsi parte della storia.

 

D’ogni tanto do un’occhiata a Twitter, che è roba da capogiro. Ogni dieci secondi qualcuno twitta un frammento di notizia proveniente dai contesti più disparati. La maggioranza arriva da New York, ma interviene gente dal resto degli Stati Uniti, dall’Australia, dalla Grecia, dal Giappone, dall’intero pianeta. Tutti sembrano orientarsi con grande sicurezza e afferrano il senso degli avvenimenti sul terreno come se avessero davanti un plastico della zona di Wall Street. Qualcuno twitta anche i movimenti della polizia, come nel 77 a Bologna con Radio Alice, solo moltiplicata e velocizzata per mille. Pianto lì dopo un paio d’ore, mentalmente esausto. Non sono riusciti a ritardare l’apertura della Borsa, come sperato, però per un bel po’ il fiato al collo di Wall Street gliel’hanno messo. E il giubilo di CNBC (un canale specializzato sull’economia), quando ha annunciato che il mercato azionario apriva in orario, tradisce che un po’ di nervosismo devono averlo provato.

 

17 novembre, pomeriggio

 

L’appuntamento è alle cinque a Foley Square, ma prima mi faccio un giretto a Wall Street. Ci sono solo passanti e poliziotti. Mi torna il senso di disagio di due giorni prima a vedere il video dello sgombero. Niente di grave per carità, ma in cielo girano gli elicotteri, a Wall Street si entra solo dimostrando di andarci per lavoro, transenne dappertutto, caschi e manganelli. Poi rilasciano il blocco, entro nella zona proibita ma dopo una cinquantina di metri mi blocco io: davanti alla Borsa appare una pattuglia di cavalleria, dieci poliziotti montati su enormi cavalli a far la guardia al tesoro del mondo; o al cervello, al cuore, chissà?  Cavalleggeri a Wall Street, chi l’avrebbe mai detto.

 

 

Gli americani sono puntuali e alle cinque Foley Square è già mezza piena. Continueranno ad arrivare per due ore. Quanti saremo alla fine? Ventimila? Trentamila? Più o meno una cifra del genere; il giorno dopo il New York Times non dà numeri, il sito di Occupy Wall Street dice trenta. In ogni caso un bel successo. È una folla festiva: cartelli, maschere, una banda di ottoni, facce allegre. I giovani sono la maggioranza, poi si va in su fino ai settant’anni, più i soliti che si portano dietro i bambini. Ci sono diversi gruppi organizzati, il sindacato dell’automobile, quello delle infermiere, le Grannies for Peace (Nonne per la pace), un gruppo trozkista che parla spagnolo, suonatori di rap, insomma un discreto campionario di quello che si agita e vive a New York. Con un’assenza significativa però: gli afroamericani. Ce n’è pochissimi, ma proprio da contarli sulle dita di una mano. Forse la crisi ha colpito la classe media, bianca, facendola arretrare e non in neri, che in crisi c’erano anche prima e quindi non si sentono retrocessi. Oppure il nocciolo del movimento è sempre lo stesso degli ultimi trent’anni, la gioventù bianca dei campus universitari, che resta estranea alla cultura dei giovani di Harlem. Qualunque sia la ragione, e ce ne saranno sicuramente altre, è una mancanza non da poco.

 

Alle sette si marcia tutti fino al Ponte di Brooklyn. Certo che questi qui hanno anche la fortuna della scenografia, perché cosa ci può essere di meglio dopo una giornata così che passare un’oretta tutti insieme su uno dei ponti più famosi del mondo, illuminato a giorno, e con il profilo dei grattacieli a chiudere la cartolina? Ma non è tutto perché all’improvviso sul grande grattacielo della Verizon, qualcuno proietta con enormi lettere luminose le parole d’ordine del movimento.

 

 

La leggo il giorno dopo la storia di questo gioco di luci. Si tratta di un certo Mark Read, artista da strada tecnologico, una specie di madonnaro digitale, che in due settimane ha messo insieme una squadra di tipi come lui, affittato un enorme proiettore Sony di un metro per sessanta, trovato una signora nelle case popolari di fronte al grattacielo che gli ha concesso l’uso di casa sua (assolutamente gratis: this is for the people), coordinato tutto il lavoro, scritto il testo, montato il marchingegno in venti minuti e composto questo poema che qui riporto integralmente prima di andarmene a letto:

 

99% / MIC CHECK! / LOOK AROUND / YOU ARE A PART / OF A GLOBAL UPRISING / WE ARE A CRY / FROM THE HEART / OF THE WORLD / WE ARE UNSTOPPABLE / ANOTHER WORLD IS POSSIBLE / HAPPY BIRTHDAY / #OCCUPY MOVEMENT / OCCUPY WALL STREET / OCCUPY EARTH / WE ARE WINNING / IT IS THE BEGINNING OF THE BEGINNING / DO NOT BE AFRAID / LOVE

 

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