Lev Manovich. Software Takes Command

28 Gennaio 2014

A dodici anni di distanza da The Language of the New Media (2001), Software Takes Command (Bloomsbury, 2013) è il secondo lavoro di grande respiro che Lev Manovich dedica all’estetica dei nuovi media, questa volta concentrandosi sulle possibilità espressive del software, la forma tecnico-culturale che si è imposta come tessuto connettivo della comunicazione digitale nell’ultimo decennio.

 

Manovich parte dalla visione del nostro tempo come l’epoca in cui il software ha plasmato ogni attore, strumento e oggetto della cultura. Questa considerazione acquista il suo pieno significato alla luce della riflessione di McLuhan sull’innata capacità dei media di modellare la nostra percezione del mondo. Ne consegue allora che il software ha prodotto nella sfera della comunicazione una rivoluzione tanto profonda quanto quelle generate un tempo dall’introduzione dell’alfabeto o della stampa. Capire un mutamento di questa portata richiede la formalizzazione di una disciplina specifica, i Software Studies, e una ricostruzione storica del suo sviluppo a partire dagli anni sessanta e settanta del Novecento. A questo proposito appare centrale l’attività teorico pratica di un pioniere come Alan Kay, capace di vedere nel computer un metamedium, ovvero una combinazione di media già esistenti e media ancora da inventare. Quest’ultima intuizione, autentica precognizione dell’età del software, è quella chiave: la tensione a creare nuovi media, o a combinare quelli tradizionali in modi prima sconosciuti, è il lievito che spiega dell’estensione del software a tutte le pratiche espressive della nostra era.

 

 

È a partire dalla comprensione della potenza trasformatrice del software che l’indagine si precisa: si tratta di capire come il software modelli i media e riesca così ad influire sia sulla nostra percezione di quest’ultimi sia sull’immagine della realtà che ne risulta veicolata. In un articolo uscito due settimane fa sul suo blog, Software Studies, Manovich pone con chiarezza le domande che nascono a questo punto: com’è influenzata l’immaginazione visiva del nostro tempo dai programmi computerizzati per la creazione dei media? E una rete sociale come Instagram, che forza modellante esercita sulle istantanee che la gente scatta e condivide? L’algoritmo di Facebook, infine, quello che decide cosa mostrarci di ciò che pubblicano i nostri amici, in che modo dà forma alla nostra maniera di capire il mondo?

 

Manovich cerca le risposte nelle arti visive della modernità, fotografia e cinema, il settore nel quale si trova a più suo agio per esperienza professionale e creativa. Per descrivere l’evoluzione del software Manovich utilizza in senso metaforico due termini presi in prestito dalla biologia [linguaggio già presente, basti pensare a virus e bug, nel gergo del settore]: ibridazione ed evoluzione. Il computer è l’ambiente dove le varie specie di software si incontrano per produrne altre geneticamene affini ma individualmente diverse. L’ibridazione è innanzi tutto possibile perché i computer non riproducono i contenuti materiali dei media, ma gli strumenti atti al loro utilizzo, operazione impossibile nell’era pre-digitale quando le tecniche comunicative erano schiave dell’hardware. In secondo luogo, tutti i media creati a partire dal software sono strutturalmente omogenei: non sono altro che combinazioni di algoritmi e strutture di dati, nelle quali i primi impartiscono le istruzioni per organizzare, modificare e visualizzare i contenuti archiviati nelle seconde.

 

 

L’area dei nuovi media a cui Manovich applica il modello biologico è il cinema d’animazione [moving image design], usato di solito nei video pubblicitari o nei titoli di testa dei film o delle serie televisive. Grazie all’introduzione del software, nel cinema d’animazione si possono combinare differenti media, tipografia, film, fotografia, grafica 3D, all’interno di una stessa inquadratura. Nasce così un nuovo linguaggio visivo [qui il caso esemplare è Google Earth], che secondo la metafora biologica è definito come una nuova specie mediatica. Il principio strutturale di questo linguaggio è il cambiamento: nella grafica 3D, ad esempio, tutti gli elementi della composizione possono mutare in qualsiasi momento. La conseguente capacità dell’interfaccia di influire sul pensiero del disegnatore e di contribuire alla formulazione di una nuova estetica emerge nella pratica che è stata più influenzata dagli sviluppi nell’animazione 3D, l’architettura. Quando, a partire dagli anni novanta del Novecento, gli architetti iniziano a lavorare su modelli tridimensionali, riescono ad immaginare cose diverse dai loro predecessori che si erano serviti di carta, riga e matita. I progetti architettonici appaiono allora animati da un movimento intimo, come se tendessero al cambiamento di stato: l’angolo retto sparisce e la forma non dipende più dalla funzione.

 

L’innarrestabile tendenza al mutamento e la pressoché illimatata capacità di estensione che oggi caratterizzano il cinema d’animazione sono i tratti distintivi dell’intero universo del software. Lo stesso libro di Manovich ne porta il marchio al momento della conclusione, che, dopo aver tirato le somme dell’indagine, si risolve in un appello ai lettori perché inventino nuove tecniche così da contribuire all’espansione dei “media dopo l’avvento del software” (341).

 

Manovich conduce la discussione a partire da un’indiscutibile conoscenza professionale delle fondamenta tecnologiche dell’era digitale e da un’altrettanto profonda familiarità con l’estetica delle arti visive nella modernità; a ciò unisce una notevole capacità di racconto e l’abilità di tradurre i dati tecnici in concetti comprensibili anche al profano. Se a ciò si aggiunge che l’assunto di partenza sulla centralità del software nella nostra vita è corretto, ne consegue che chiunque abbia interesse a capire come oggi va il mondo, non solo quello delle arti e della tecnologia, farebbe bene a leggere Software Takes Command.

 

Resta una domanda chiave. La metafora della biologia suggerisce un’immagine del software come forza che cresce per conto suo, sottoposta a leggi come l’accoppiamento e l’evoluzione che per natura sfuggono al controllo degli umani. Viviamo quindi un’epoca in cui i parametri del mondo sono destinati a scapparci via per definizione, visto che il materiale sui cui modelliamo il nostro immaginario, il marmo di Carrara del nostro tempo, ci sfida, irraggiungibile, alla corsa?

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