Squat Le Bloc

11 Dicembre 2013

“Non ho mai visto uno squat fare nulla del genere”, aveva dichiarato una residente del 19simo arrondissement, a proposito del contagioso entusiasmo de Le Bloc, edificio occupato situato al civico 58 di rue de la Mouzaïa. Un’enorme facciata grigia. Niente di più visto dalla strada.

 

 

All’interno, invece, una miniera d’oro di creatività e idee. Ispirazione, dialogo e solidarietà. Visite guidate e porte sempre aperte al pubblico, a meno di un mese dall’apertura. Un coinvolgimento senza sosta del quartiere e dei cittadini. Recuperato lo scorso dicembre, questo vecchio edificio appartenente alla Direzione Regionale degli Affari Sanitari e Sociali (Drassif) comprende 7000 metri quadri distribuiti su 7 piani, occupati da quasi 200 persone, tra artisti, giornalisti, creativi, la maggior parte dei quali frequentavano l’edificio solo per approfittare dell’ingente potenziale creativo, conservando il proprio appartamento.

 

Tra i residenti di le Bloc, invece, c’erano anche, e soprattutto, quelli che i francesi, con un discutibile eufemismo, chiamano “mal-logés”, letteralmente “male alloggiati”, in realtà senzatetto, esclusi, padri di famiglia separati e improvvisamente senza più un letto e, in questo caso, anche un neo-nato di 6 mesi, lieti di poter usufruire del caldo, del cibo cucinato per tutti, delle docce e di un giaciglio. Sono queste le storie, le esistenze e i casi particolari messi alla porta venerdì 6 dicembre, dalle 7 del mattino, quando un centinaio di poliziotti ha effettuato l’evacuazione dello squat, nel giro di poche ore. “Tutto è avvenuto pacificamente, con calma”, hanno dichiarato gli ex occupanti. La decisione dello sgombero era, infatti, già stata annunciata lo scorso 13 novembre dal prefetto.

 

 

L’obiettivo era quello di diventare il 6b dell’Est parigino, almeno secondo le migliori intenzioni. Fare di questo edificio abbandonato un nuovo polmone della vita culturale nel 19simo, seguendo l’esempio dello squat che, nel giro di due anni, è riuscito ad imporsi come uno dei pilastri della scena artistica in un quartiere disagiato e periferico come Saint-Denis. Da qui, le visite guidate per i giornalisti e, soprattutto, per gli abitanti del quartiere, “i nostri principali nemici, ma anche i nostri maggiori alleati”, riferivano gli occupanti. Sin dal primo mese d’apertura, non sono mancate le occasioni di dialogo per entrare in contatto con il fermento creativo dello squat. “È necessario che la stampa e i nostri vicini sappiano cosa succede qui dentro”, continuano, “per poterci aiutare e difendere”.

 

 

All’interno dell’edificio, i sei piani erano occupati per intero da artisti e persone in difficoltà, mentre il piano terra era aperto al pubblico, ogni giorno dalle 10 alle 22, per permettere a curiosi e passanti di sbirciare all’interno di uno dei più grandi squat della regione Ile-de-France. Ogni piano contava un responsabile e tutte le decisioni riguardanti l’estetica dell’edificio erano prese di comune accordo, in perfetta democrazia. Nonostante l’aura di utopia pirata, lo squat è stato, infatti, un perfetto esempio di anarchia strutturata e ben organizzata. Le Bloc, in fondo, sta per “Bâtiment libre Occupé Citoyennement”, vale a dire “Edificio libero occupato in maniera cittadina”. Ma non solo.

 

 

Le Bloc era anche 4 seminterrati e un tetto, nonché corridoi e scale esuberanti di sorprese e incontri fortuiti. Una vera e propria sinergia effervescente di creatività, animata da attori, ballerini, fotografi, scultori, musicisti, video-maker, ma anche falegnami, artigiani, scenografi, provenienti da tutto il mondo. “Qui le possibilità sono illimitate”, raccontava Tonio, uno dei residenti in un’intervista di qualche mese fa sull’Express. Ma la città di Parigi sembra non amare gli imprevisti e, nonostante la fervida programmazione dello squat, ha deciso di chiudere le porte di questa gigantesca scatola di sorprese.

 

 

Richard Sennett, autore e sociologo statunitense, in un articolo per il Guardian pubblicato lo scorso dicembre, ha descritto l’evoluzione delle cosiddette “smart city”, ovvero città concepite “secondo una visione fordista”, dove “ogni attività è svolta in tempi e spazi ben precisi”, improntate alla filosofia “user friendly”, dove questa significa “scegliere all’interno di un meno di offerte e non comporre il menu”.

 

 

La città di Parigi, fiera delle rive della Senna, fresche di ristrutturazione, delle sue nuove attrazioni, di un intrattenimento sempre più disciplinato, sembra dirigersi verso questa direzione, sopprimendo escrescenze artistiche e imprevisti creativi, ignorando che, sempre secondo Sennett, “per creare qualcosa di davvero nuovo, oggi come ieri, bisogna trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato”.

 

 

La chiusura degli squat ha, infatti, tutta l’aria di una procedura di eliminazione di tutto ciò che si rivela incontrollabile e anarchico, pur dimostrandosi di utilità pubblica e sociale. Negli ultimi anni, l’inaugurazione di nuovi luoghi culturali, dove incasellare ed etichettare ogni forma di creatività, sembra aver privato sempre di più Parigi della possibilità della casualità, dell’incontro fortuito, dell’imbattersi in qualcosa di inatteso. La città propina itinerari già costruiti, mentre, “potendo scegliere, le persone preferiscono una città aperta e indeterminata nella quale potersi fare una strada. Così sentono di avere il controllo sulle loro vite”.

 

 

Sono rimaste inascoltate le proteste della manifestazione del 4 dicembre, quando duecento persone hanno sfilato lungo la strada che porta al Municipio del 19simo arrondissement, sostenute dalle associazioni DAL (Droits au Logement), Médécins du Monde, Fondation Abbé Pierre e La Chorba. “Nessuno ha voglia di vedere il proprio vicino che si ritrova al freddo e per strada, in pieno inverno”, racconta Léa, artista, ex-residente dell’edificio, ai microfono di Libération, “in più, qui si tratta di un bel po’ di vicini”. Inascoltata è stata, infatti, anche la richiesta di chiudere un occhio e applicare la cosiddetta “tregua invernale”, che tutela da sgomberi ed evacuazioni a partire dal 1° novembre, in teoria non valida per i cittadini occupanti un alloggio senza averne diritto, non avendo firmato alcun contratto.

 

 

“Vogliamo città che funzionino bene, ma che siano aperte alle trasformazioni, alle incertezze e alla confusione della vita reale”, conclude Sennett. “Chiude il contenitore, ma non il contenuto”, annunciano gli ex-residenti, “e per uno squat che chiude, altri 10 si apriranno”.

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