Twitter Revolution? Social Network e cambiamento politico

16 Giugno 2011

Con questo articolo doppiozero inaugura una serie di riflessioni sul ruolo della Rete, dei social networks e delle nuove tecnologie nei cambiamenti sociali, culturali e politici degli ultimi anni.
In seguito alla pubblicazione di alcuni articoli sul tema si è sviluppato un animato dibattito, sia all'interno della redazione che sul sito e sui social networks.
Le posizioni sono eterogenee e si basano su interpretazioni anche molto diverse tra loro.
Dato che intendiamo doppiozero soprattutto come uno spazio di confronto per la critica culturale, abbiamo deciso di chiedere ad alcuni autori di riflettere sull'argomento, in modo da restituire la complessità con cui si articolano le posizioni.
Buona lettura.

 


 

Fin dai giorni delle rivolte iraniane del 2009, i media tradizionali si interrogano sul ruolo avuto dai social network negli stravolgimenti sociopolitici degli ultimi due anni.

Ad ogni nuovo stravolgimento che vede gli attivisti impegnarsi anche attraverso i nuovi media, vengono riproposte due letture dicotomiche. Da un lato c’è chi parla di Twitter Revolution, un cambiamento sociale spinto soprattutto dalla facilità di utilizzo e condivisione di informazioni propri della piattaforma di micro-messaging; dall’altro, c’è chi rifiuta il determinismo tecnologico a favore di letture più connotate economicamente e geopoliticamente.

I due fronti si sono ricreati in occasione delle rivoluzioni arabe di questo inverno, nel caso degli Indignados spagnoli, nell’inaspettata vittoria del centro-sinistra a Milano e nell’ultima batosta referendaria.

 

Le domande che circolano sono sempre le stesse: sono i social network a causare il cambiamento? E un social network in particolare (Twitter)? Il web ci sta portando verso un mondo più democratico?

Si tratta di vecchie questioni, che si ripropongono adesso in modo nuovo perché altre grandi linee di cambiamento stanno procedendo assieme. Chi ha militato nell’attivismo digitale ai tempi di Seattle e Genova aveva già affrontato questioni simili a proposito dei media indipendenti. Tuttavia, la discussione di oggi si articola in un panorama che ha delle specificità radicalmente nuove: i blog, il web 2.0, i social network.

 

Ma cosa è successo veramente con le mobilitazioni in Italia? Dal punto di vista dei nuovi media e dei movimenti sociali, il contesto è tutt’altro che mono-dimensionale. Da molti anni associazioni di militanti professionisti, come Greenpeace, e coordinamenti di base, come il Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua, si occupano dei temi del nucleare e dell’acqua pubblica. Il loro lavoro, costante e certosino, ha utilizzato un’ampia gamma di strumenti politici, dalle azioni spettacolari al tessere costanti relazioni sul territorio. Dopo Fukushima i temi sono saliti prepotentemente alla ribalta. Allo stesso tempo, un candidato dichiaratamente di sinistra ha vinto le primarie per la candidatura a sindaco di Milano, risvegliando la speranza di molti attivisti di lunga data che per lungo tempo erano rimasti “dormienti”, a causa della disillusione per il centrismo inefficace del PD. Si tratta di soggetti e gruppi che avevano una lunga esperienza di militanza politica di base, quella che si fa volantinando nei mercati rionali o tirando tardi ad attacchinare o a parlare con le persone nei bar. Si dà il caso che molti di questi attivisti, nella capitale italiana del terziario avanzato, negli ultimi anni siano divenuti anche professionisti della comunicazione attraverso i social network, o che comunque siano all’avanguardia, per quanto riguarda l’uso dei nuovi media, rispetto agli utenti che si limitano a clickare pavlovianamente “mi piace”. E si dà anche il caso che il team del candidato sindaco sia stato abbastanza lungimirante dall’entrare in contatto con questi attivisti, spronandoli all’azione. Attraverso un uso consapevole, intelligente e maturo dei social network, gli attivisti digitali hanno mostrato una competenza schiacciante nell’utilizzo del mezzo, mettendo costantemente alla berlina le strategie di comunicazione “broadcasting” del centrodestra. Per questo (e questa è solo un’opinione; ci vorrà del tempo per avere delle analisi approfondite) molti degli indecisi, degli astenuti e degli elettori del centrodestra già in crisi per gli scandali di Berlusconi (che invece erano nell’agenda della comunicazione dei media tradizionali) hanno iniziato a riconsiderare le proprie posizioni. Una volta esplosa l’effervescenza sociale, on-line ed off-line, per la vittoria Milanese, tutti gli attori più tradizionali dei media e della politica hanno spinto in modo deciso per i referendum, aiutando la vittoria dei quattro Si.

 

Non voglio assolutamente dire che i social network hanno “causato” degli spostamenti di voto; ha senso però affermare che possono aver contribuito in modo determinante a rovinare l’aura di invincibilità dello schieramento del premier. Per cogliere tutte le implicazioni, è necessario considerare che quello che succede on-line non si limita al solo schermo del computer, esattamente come quello che accade sullo schermo televisivo non si esaurisce nel salotto di casa: gli utenti leggono, condividono, trasformano l’informazione e poi escono di casa, ne parlano sul luogo di lavoro ed al bar con gli amici.

Nelle analisi di questi giorni, come in quelle seguite alle rivolte arabe, viene data un’enfasi particolare a Twitter. Le peculiarità di velocità, apertura ed adattabilità della piattaforma sono effettivamente ideali per organizzare piccole campagne digitali in tempi rapidi. Quello che però pochi mettono in risalto è il fatto che i pochi utenti di Twitter, poco più di 300.000, hanno un profilo socio-demografico molto diverso rispetto a quelli di altri social network: sono mediamente più adulti, e molto più istruiti. Sono molto spesso anche dei blogger e degli opinion leader, sia su Facebook che nei loro gruppi sociali di riferimento off-line. Quindi Twitter è da considerarsi come un’arena privilegiata, nella quale le élite restano in comunicazione tra loro? Forse in parte si. Ma l’errore che non dobbiamo fare è credere che pochi trend-setter siano in grado di provocare grandi cambiamenti solo attraverso il clicktivism, l’attivismo da tastiera.

Abbiamo già visto come quello che è successo in Italia sia stato infinitamente più complicato, coinvolgendo attori su piani completamente diversi. Proviamo adesso a guardare la questione in un modo più complessivo.

 

Con l’avvento dell’economia della conoscenza, i mondi sociali, i loro sensi comuni, le pratiche, i valori, le visioni del mondo si parcellizzano, moltiplicano, ibridano con una velocità senza precedenti nella storia dell’umanità. Qualsiasi tentativo di interpretare questa complessità in modo puramente deterministico è destinato ad andare incontro ad amare delusioni. Non si tratta di recuperare il paradigma esausto della post-modernità, quanto di prendere atto che viviamo in mondi molteplici, nei quali il rapporto tra soggetti, poteri e simboli è cambiato.

 

Per esaminare la questione, è necessario innanzitutto considerare la Rete come un ecosistema complesso, nel quale convivono attori, logiche e piattaforme molto diversi tra loro.

La Rete non è solo Twitter, o Facebook. I numeri di entrambe le piattaforme sono cresciuti in un modo impressionante negli ultimi anni, ma lo stesso si può dire per altri social network, come Flickr, Youtube, Foursquare. E non bisogna dimenticare che in Cina, Russia e Brasile i social network dominanti sono quelli di cui in Italia non si è mai sentito parlare (rispettivamente: QZone, V Kontakte e Odnoklassniki, Orkut), in una palese trasposizione digitale delle sfide geopolitiche in corso. Ma, ancor di più, la Rete è sempre più blogosfera: mentre sto scrivendo, il sito della Nielsen Blogpulse indica l’ammontare complessivo dei blog al mondo in 163,327,404, e in 66,119 il numero di nuovi blog registrato nelle ultime 24 ore. Un po’ più della popolazione complessiva di Savona.

E ancora, la Rete è costellata di progetti collaborativi come Wikipedia, e praticamente ogni grande attore economico ha trasformato, o sta cercando di trasformare, la propria attività on-line in community di consumatori.

 

Abbiamo così molte tipologie diverse di attori. Innanzitutto i social network, che sono quasi esclusivamente piattaforme proprietarie i cui boom sono altrettanto veloci delle morti. Chi frequenta ancora oggi Second Life o Myspace? Solo nel 2008 sembrava che fossero le piattaforme del futuro. Oggi sono delle terre semi-deserte infestate da bot. Alcuni social network sono più aperti, come Twitter (nel quale si può leggere i contenuti degli utenti anche se non si è iscritti), altri sono chiusi e periodicamente soggetti a censure più o meno esplicite (è il caso di Facebook), altri ancora sono strutturalmente blindati (come Qzone). In un solo caso, la sperimentazione di Diaspora, c’è un tentativo di costruire una piattaforma totalmente anonima e non censurata.

 

I social network sono sostanzialmente delle piattaforme di micro-blogging nei quali vengono riversati e condivisi contenuti prevalentemente prodotti all’esterno. E qui la blogosfera è l’attore principale. Milioni di bloggers producono continuamente contenuti a 360°, con un range che va dai consigli per il trucco di adolescenti alle dissertazioni di filosofia, passando per i videogame, le foto porno e il citizen science e citizen journalism – scienza e giornalismo curata da non-professionisti, che inizia ad essere l’asse portante di molti progetti di primissimo piano. In questo panorama, i media tradizionali sono molto spesso alla rincorsa della produzione indipendente: i siti di Repubblica.it e Corriere.it, ad esempio, saccheggiano a piene mani dal blog di punta BoingBoing, purtroppo spesso senza citare la fonte.

Allo stesso tempo, la produzione di cultura in forma più tradizionale è tutt’altro che morta quando sa come innovare le proprie forme, come stiamo dimostrando anche qui su doppiozero: ne sono un ottimo esempio progetti istituzionali come la Treccani online, o piattaforme critiche come Carmilla.

Tutti questi contenuti, e molti altri, sono in continua dialettica tra loro, in un panorama nel quale attori come Murdoch, l’attivista di Wikileaks e l’adolescente edonista giocano ognuno a modo suo.

 

Considerare tutto questo solo all’interno della cornice della Rete sarebbe riduttivo. Il mondo di cui stiamo parlando è il prodotto di trasformazioni socioeconomiche di lungo corso e vede le sue basi (almeno) nella fine del modello fordista e nella nascita del just-in-time e della customizzazione di massa. Non è certo questa la sede per trattare l’argomento; quello che però è importante sottolineare è che i processi di cui parliamo sono inseriti in un quadro economico ben più ampio che ha generato una trasformazione cognitiva senza precedenti: se per chi non è nella logica delle reti l’idea di essere costantemente attivo nella ricerca, condivisione e manipolazione dei contenuti risulta una fatica eccessiva, per chi si trova nella condizione opposta è ormai inconcepibile essere solo un utente passivo sottoposto a flussi di informazioni broadcasting. Si genera così un’infinità di nicchie di utenti per ognuna delle quali vigono regole separate di autorità, autorevolezza e qualità.

 

Questo fa della Rete un contesto più democratico? A mio avviso decisamente no, come possiamo vedere dai continui tentativi di censura, e da studi approfonditi che mostrano come anche nelle comunità on-line si sviluppino il potere e l’autorità, sebbene in altre forme (a tal proposito, consiglio una bella recensione di Alessandro Delfanti a Cyberchiefs. Autonomy and Authority in Online Tribesdi Mathieu O’Neil - Pluto Press 2009). Ne fa però un luogo nel quale le possibilità di circolazione delle informazioni, condivisione di progetti e produzione “dal basso” aumentano esponenzialmente.

 

Il teorico belga Michel Bauwens, rielaborando il pensiero del giurista statunitense Yochai Benkler, parla di “Peer-to-peer alternatives”: guardando a come i servizi di condivisione peer-to-peer per film e musica hanno trasformato, spesso illegalmente, i mercati delle industrie culturali, Bauwens teorizza e mette in pratica un “terzo modo di produzione” (sociale, economica, culturale) che non è né capitalista né socialista ma, appunto, peer-to-peer, tra pari. Le alternative peer-to-peer non si limitano ad esistere sullo schermo. Al contrario, “escono per le strade” come pratiche collettive di innovazione sociale, conquistando spazi pubblici, intessendo relazioni con il mondo dell’economia e della cultura in modo trasversale rispetto alle pratiche politiche tradizionali (di questo parla l’interessante “Libro Bianco sull’Innovazione Sociale” di Murray, Grice e Murgan, appena uscito in italiano nella versione curata da Arvidsson e Giordano).

Nell’infinita complessità delle reti attori di natura diversa utilizzano mezzi tecnologici per elaborare e condividere visioni, sistemi simbolici e progetti che hanno la particolarità di essere considerati “commons”, beni comuni.

 

Questo ci riporta in conclusione al tema con cui abbiamo iniziato, l’acqua bene comune.

Una delle grandi battaglie in corso sulla Rete è quella che vede i difensori dei beni comuni opporsi ai “recintatori”, in una riedizione 2.0 degli scontri per le “enclosures” nell’Inghilterra dal quattordicesimo al diciannovesimo secolo: i nuovi beni comuni sono sia materiali, come l’acqua, che immateriali, come il surplus cognitivo prodotto nella Rete.

Una parte della battaglia per l’acqua l’abbiamo vinta. Adesso c’è da rimboccarsi le maniche per tutto il resto.

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