Cremona / Paesi e città

1 Febbraio 2012

A Cremona le cose sono già accadute.
I gesti visibili del tempo sono calmi, rallentati, quasi non fosse più lecito affrettarsi, o assillare l’istante con incaute manovre passeggere.
I treni arrivano ancora, per abitudine, con anziani scolari, e stanchi lavoratori oppressi dal ritardo, nella stazione che conserva il dignitoso silenzio d’altri anni.
Nell’aria dei piazzali è ancora ignara la vita, giovane la luce, si alzano i rumori e i gesti del quotidiano commercio con le ore, d’ogni leggera illusione che il giorno sia nuovo, i minuti da vivere.

 

Così antica la misura, la dimensione degli spazi, che lo sguardo trova un conforto d’appoggi, una certezza di confini, già raro il temere uno scivolìo d’orizzonte, la dismisura del vuoto, è breve ogni smarrirsi, limitata la resa incontro alle distanze.
A volte si rimpiangono, davvero, possibili fughe già vane, gesti definitivi e superflui, tentativi d’illusione soffocati, grida e voci che varchino una piazza.

 

 

L’estensione quieta delle strade spira il suo silenzio, propaga un’attesa remota nelle circostanze, come una promessa lontana che affacci solo i bagliori del suo miraggio.
La città dei vivi e la città dei morti giacciono separate dalla ferrovia, dalla stazione.
Il partire e l’arrivare, nella frenata o nell’impeto dei vagoni, mostrano, a chi sappia vedere, i due lati della vita, le due città che ci attendono, la variabile forma del tempo, e dell’attesa, i possibili moti del ricordo, e del rimpianto.


La luce mutevole del giorno visita, equanime, le due città, il buio scende al tramontare dei rumori, lunghi fischi di treno varcano il vuoto del confine, lanciano un saluto senza nome, traghettano i vivi nel futuro e nell’ignoto, oltre la linea di ferro.
Al cadere del buio si accendono, le città simmetriche, ardono di luce diversa, soffiano pallori al buio dei binari, mescolano voci e silenzio sopra la stazione, diffondono il ricordo nell’oblio.

 

 

A volte riappare, l’estate, con la medesima luce degli anni dimenticati, come un dono provvisorio, a cui non si abbia più diritto.
Si allarga sul fiume, sulle boscaglie all’altra riva, sulle pietre della scarpata, e sulle barche bianche in attesa dei canottieri smarriti, addensa le sue nubi pigre, oltre il Pennello, e l’ansa lontana dove l’acqua scompare, si direbbe che tutto sia di nuovo nel tempo, negli anni di sempre.


Tuona sordo il ponte al passare dei motori, si scurisce il gorgo all’ombra dei piloni, rimbomba di nuovo l’attesa della vita, quasi che s’annunci ancora un accadere, uno spazio imprevedibile nei giorni.
C’è un’ora della sera, prima della cena, in cui si placa il giorno, e cede la calura, l’aria si muove leggerissima sul corso, e la luce bagna quieta i piani alti: allora, nelle vie calme, si distende una pace profonda, una tregua serena, una segreta sosta del tempo, senza più timore o pena.

 

 

Si cammina, dentro l’eternità dell’estate, si cancella dalle pietre il volto artificioso, temporaneo, del presente, per conoscere ancora ciò che è stato, ciò che è: scompare ogni confine, ogni crudele calcolo del tempo, ancora si potrebbe, dietro un angolo, incontrare chi già manca, e procede intatto per noi, nelle vie parallele di quell’altra città, nell’estate perenne che ci viene incontro, e a momenti si confonde, si dissolve in questa, così deserta e senza nome.


Non ci sono più, i cinema, dove già s’attardava l’infanzia; sono scomparsi negozi capaci d’inaugurare i ricordi: a poco a poco sono cadute, o tramontate, le muraglie solide, immutabili del mondo, l’alfabeto iniziale delle cose, tutto ciò che reggeva l’apparenza degli anni, la misura confortevole, difesa lieve contro l’ignoto, e l’indistinto.


Chi ricorda osterie, biliardi, bocce, ubriachi, fumo, calciobalilla, filobus, già remoti e dispersi come la polvere, sulle strade bianche verso gli argini, oltre la Via del Sale, lungo il Morbasco che scroscia, nero ed invincibile, accanto alle cortazze, i dorsi delle case di ringhiera, gli ultimi sabbiosi orti remoti.

 

 

Ancora forse filano i ciclisti silenziosi, per le strade lungo il Po, sanno d’ogni lanca morta, nello spazio vago dove terra e fiume si confondono, ma il tempo li scavalca e fugge, disperde gli antichi bagnanti dell’estate, le code sul Pennello a conquistare il posto, i motorini lesti all’impennata, l’acqua verde, fresca, in cui distendersi a filo di corrente, il sabbione immenso all’altra riva, coi giocatori di pallone, il bar sotto la pergola, i ghiaccioli, le amboline fritte, la tele col Gran Premio la domenica, l’odore fraterno del fiume, il fango secco e duro sotto i piedi, la boscaglia, l’ombra delle grandi piante al pomeriggio, l’incessante luce indistruttibile, a fermare tutto nello sguardo, a calcinare nell’istante la promessa dell’eterno.


Si tornava, si ritorna, dal sabbione dei giochi e degli anni più cari, per il grande ponte senza fine, il suo ferro accogliente, che mio padre ricordava piegato, dai bombardieri, nel fiume: già dalle boscaglie di golena si sente il respiro del’acqua, la densa freschezza salina, l’aria diversa e più viva: si scorge il profilo della Canottieri, le barche bianche alla riva, la misura delle cose che non mutano; verrà, presto, la città, il viale diritto che le rende il fiume, la forma quieta senza dolore, il suo attendere senza risposta, oltre le vite silenziose, i nomi di chi è stato, il loro sguardo interrotto, che vorremmo sospeso a sorvegliare le cose, l’invisibile tempo che dilegua, il meccanismo severo delle ombre.

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