Reality Shop: il teatro a B.Motion 2012

5 Settembre 2012

Dove si può incontrare la ricerca iconografica di Anagoor con il nuovo lavoro di Babilonia Teatri, un Pinocchio allestito con tre performer affetti da esiti di coma? Cos’ha in comune il lavoro sul tempo dei fiorentini inQuanto teatro con il plurilinguismo di Fagarazzi & Zuffellato o con la nuova eroina di Marta Cuscunà, una ragazza del ‘500 che, obbligata a passare la propria esistenza in convento, organizza una rivoluzione femminista ante litteram?

 

Babilonia Teatri. Fotografia di Adriano Boscato.

 

Sono alcuni degli spettacoli in programma a B.Motion 2012, segmento dedicato al contemporaneo di OperaEstate Festival Veneto di Bassano del Grappa. “Reality Shop”, il claim di quest’anno, può diventare un’occasione per rintracciare gli esiti attuali di alcuni dei percorsi artistici che qui si danno appuntamento ma anche per fare i conti con i risvolti del lavoro di una direzione artistica che stanno emergendo come determinanti. Quello che si è incontrato in questi giorni a B.Motion è un teatro che già si era distinto per un approccio mirato sulla propria società e il proprio tempo, dal celebre ritratto del nostro Paese di made in italy dei Babilonia al j’accuse nei confronti dell’incuria che segna il nostro patrimonio culturale in Fortuny di Anagoor, tanto per fare gli esempi più celebri. Le diverse stagioni del versante politico della scena italiana avevano segnato, ognuna a proprio modo, una posizione di resistenza e differenza, dal boom del coinvolgimento e della partecipazione degli anni ‘60 e ‘70, all’intimismo della Postavanguardia e della cosiddetta Terza Ondata, che potrebbero, col senno di poi della chiusura dell’epoca postmoderna, essere letti comeun tentativo di recupero della dimensione individuale. Prima la società, poi la persona. Ma gli anni passano e, in tempi di crisi come questi in cui le utopie sfioriscono facilmente, dopo un momento di relativa stagnazione dell’approccio politico – qualcuno ha parlato addirittura di “rimozione” o di “azzeramento” – sembra che qualcosa si muova lungo questi orizzonti.

 

Anagoor. Fotografia di Alessandro Sala.

 

Basti pensare a quello che fa Anagoor, ancora più dichiaratamente rispetto ai lavori precedenti, con L.I. Lingua Imperi, in cui si ricompongono i due filoni (immaginifico e narrativo, enigmatico e dimostrativo) attraverso cui si era articolato in tempi recenti il lavoro della compagnia. Anagoor ripercorre la storia del potere della lingua nel mondo occidentale: si parte dalla smania nazionalsocialista per incontrare il mutismo obbligato di Ifigenia, ritrovare quel silenzio in altre prede e riconoscere genocidi, guerre, cacce. Ognuno di questi contesti pertiene a un dispositivo linguistico specifico (iconografia, epica, canto, e così via), ma il senso del lavoro – l’esercizio di potere dell’uomo sull’uomo – ritorna e riverbera nelle sovrapposizioni fra le diverse linee drammaturgiche, in un crescendo di senso e coinvolgimento che riesce a tracciare traiettorie nette fra i diversi elementi e, spesso, a ricomporre i frammenti delle diverse storie e fonti in gioco.

 

Anagoor. Fotografia di Sara Bugoloni.

 

Un simile tentativo di individuazione e riattivazione della memoria è al centro anche della Semplicità ingannata di Marta Cuscunà, al debutto qui a Bassano. Di memoria, per certi versi, si occupa anche Babilonia Teatri. Dopo aver disegnato vibranti ritratti delle contraddizioni dei nostri tempi, decide oggi di mettere in gioco il proprio lavoro con un’esperienza-limite: in Pinocchio Enrico Castellani, Valeria Raimondi e Luca Scotton, lavorando con persone affette da esiti di coma, portano in scena aspetti poco conosciuti e affrontati dalla nostra società, un rimosso con cui si confrontano anche Andrea Fagarazzi e I-Chen Zuffellato, compagnia che si era distinta per varietà linguistica e lavoro sui meccanismi teatrali, qui invece al debutto con Kitchen of the future, realizzato con individui con problemi di salute mentale.

 

Marta Cuscunà. Fotografia di Adriano Boscato.

 

È un teatro a cui forse stanno strette le categorie tradizionali dell’attivismo della scena ma anche quelle dei suoi esiti posteriori; un teatro per cui non serve scomodare la linea Brecht-Piscator, all’interno della quale era prevista una possibilità di intervento (e trasformazione) dell’arte sulla realtà; per il quale non è più sufficiente il nodo di differenza contenuto nelle tante “t” del politttttttico del Teatro delle Albe, né si può recuperare la dimensione “civile” dell’epoca d’oro della narrazione, ormai spesso riconvertita in chiave televisiva o quantomeno bloccata a un giro di boa dal quale non sembra risolvere la ricerca di se stessa. Se all’epoca della contestazione al centro dell’attenzione era la società, mentre gli anni successivi sono stati segnati da una deriva focalizzata sull’individuo, sembra che oggi il punto sia sul rapporto che lega questi termini: la persona alla realtà in cui vive. Si potrebbe dire che, invece che costruire o immaginare la realizzazione di nuovi mondi, questo teatro si concentri sulla conoscenza e sulla coscienza della realtà che lo circonda.

 

Certo è un teatro che fa i conti col proprio tempo, che volentieri racconta in modo più o meno lineare ma allo stesso tempo non disdegna l’astrazione; che ci mette faccia e braccia in prima persona ma prova anche a confrontarsi con quello che gli sta intorno. Di più, sempre più spesso, sembra che il dato comune fra queste creazioni (e altre, come il lavoro di Daniele Timpano o dell’Accademia degli Artefatti, per scardinare inquadramenti fuorvianti e aprire varchi generazionali, geografici e linguistici) si possa rinvenire nell’assunzione di un compito preciso nei confronti di questo spazio-tempo: quello di un tentativo di ricostruzione di un passato, lontano o vicino che sia, passaggio che nasce dal cuore di questi tempi di crisi forse volto alla possibilità di progettare e immaginare un futuro.

 

inQuanto teatro. Fotografia di Adriano Boscato.

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