Vincenzo Consolo. Cento possibilità, un solo destino

11 Aprile 2015

I quadri posti sull’unica parete libera, nello studio della vecchia casa milanese nei pressi di via Solferino – il disegno di un San Girolamo nella caverna immerso nella lettura, un libro aperto posto dentro una teca di plexiglass con le parole cancellate e un solo brandello evidente “raccon” (opera di un artista concettuale), due planimetrie secentesche di Palermo e Messina tirate via dal Siciliae antiquae di Cluverio – aiutano a descrivere e rappresentare l’autobiografia pubblica dello scrittore siciliano; e, peraltro, assai meglio della puntuale e per molti irrinunciabile citazione iconica del Ritratto d’ignoto di Antonello da Messina, paradigma descrittivo tradottosi in luogo comune sull’autore, da quando Sciascia lo usò in quel delizioso articolo intitolato L’ignoto marinaio.

 

Proiezione di un Consolo, novello San Girolamo, immerso nell’archeologico scavo nei giacimenti della lingua e della storia; l’opera concettuale a significare, e insieme esorcizzare, il pericolo massimo di essere defraudati della memoria (con il connesso rischio dell’afasia); le mappe, infine, a indicare la finisterre tra un Occidente e un Oriente, la storia e la natura, il fatto nudo e crudo e la poesia, le commiste eredità, dunque, che nella sua opera trovano una più che felice ricomposizione, dell’illuminista e manzoniano Leonardo Sciascia e del barocco e visionario “barone magico” Lucio Piccolo.

 

A darci occasione, a tre anni dalla scomparsa, di rileggere integralmente (o quasi) l’opera dell’ultimo dei grandi autori siciliani del Novecento, l’uscita dell’attesissimo Meridiano che ne accoglie L’opera completa (così recita il titolo), a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta, anticipato da un agile Profilo tracciato da Cesare Segre.

 

Antonello da Messina, Ritratto di uomo, 1465-76

 

Si va dall’esordio della Ferita dell’aprile (1963) ai saggi di Di qua dal faro (1999), passando per libri di ibrida concezione come Lunaria (1985), Le pietre di Pantalica (1988) o L’olivo e l’olivastro (1994), secondo un criterio, condivisibile, che raduna la quasi totalità dei testi consoliani, essendo stata l’infrazione dei generi uno dei punti di forza dello sperimentalismo del siciliano (a ragione Turchetta rileva come non sia possibile leggere Consolo senza una «epoché programmatica»). Tuttavia, rimangono esclusi dal novero testi non meno decisivi per una comprensione, aggiornata, dello scrittore: l’atto unico Catarsi (1989) e i racconti pubblicati postumi de La mia isola è Las Vegas (2012). Imprescindibili questi ultimi a rendere conto del processo di monumentalizzazione del dato memoriale di partenza, vera e propria prassi della maniera consoliana; la pièce (scritta per lo Stabile di Catania), invece, perché rappresenta e drammatizza, in chiave simbolica, la dialettica dei linguaggi, anticipo del circolare inseguirsi tra volontà testimoniale e afasica ritrazione, poi definitivamente messa in abisso nel suo ultimo romanzo. È chiaro che, sul piano delle forme, l’evoluzione e stilistica e letteraria di Consolo si dispiega tutta nel trittico che passa dalla contestataria destrutturazione del romanzo storico con il Sorriso dell’ignoto marinaio (1976) alla progressiva edificazione e definizione del “romanzo-tragedia”, con i successivi momenti di Nottetempo, casa per casa (1992) e Lo spasimo di Palermo (1998), narrazioni impegnate a scorciare un nerissimo affresco italiano, dalle illusioni nate già morte del nostro Risorgimento sino alla pagina non meno dolorosa delle stragi di mafia.

 

La complessiva riproposizione dei suoi palinsesti narrativi radunati ora in un unico volume, dovrebbe poter giovare a superare le pregiudizievoli obiezioni (di segno opposto, ma eguali negli esiti), l’una di marca ideologica, l’altra di natura formalistica, da sempre con sospetto tirate in ballo da certa critica; in ogni caso a gridare allo scandalo per un’inesistente contraddizione, tra le tematiche e il tono, l’impegno e l’alata cadenza. A chi gli facesse notare, al lume di simile piccineria intellettuale, la supposta scollatura, Consolo replicava citando il Dante della Commedia, le sue «calde invettive», non risolte in prosa ma «perfettamente integrate nel ritmo del poema» (si legga la mia conversazione Lo scrittore verticale, p. 82). Come a dire che Vincenzo Consolo si comprende a patto di accettare una prospettiva solo a prima vista paradossale: porsi cioè fuori dall’ideologia per carpire, dall’interno, le ragioni profonde della sua ideologia letteraria e il peso specifico di un barocco tanto sontuoso quanto politico.

 

Nulla di nuovo, in tal senso, aggiunge il breve e riepilogativo profilo qui offerto da Cesare Segre, in sostanza riproponendo lo schema critico della «plurivocità» unito all’illustrazione dell’archeologia della lingua, che fu certo il primo a intercettare, ma che oggi poco giova a una lettura più approfondita di un autore iper-complesso come Vincenzo Consolo. Ci pensa l’ottimo curatore Gianni Turchetta, con una corposa ed empatica Introduzione all’autore, a incanalare sui giusti binari il discorso critico quando, per dirne una, corregge la scontata ricognizione di Segre, giustamente precisando che il «plurilinguismo è soltanto lo strato più vistoso e immediatamente percepibile» delle strategie messe in atto dallo scrittore, la più superficiale delle risultanze della letteratura consoliana. Lasciando intuire (aggiungo io) che dietro la polifonia straniante dei punti di vista e dei soggetti, si annidano implicazioni meno assiomatiche e pacifiche di quanto Segre abbia voluto lasciarci intendere. Da segnalare, sempre ad opera del curatore, l’esaustiva Cronologia (fin nelle minuzie genealogiche e anagrafiche) e la fluviale Nota ai testi, nella quale, nel ricostruire genesi e storia di ciascuna opera, si è naturalmente avvalso delle acquisizioni filologiche degli ultimi dieci anni. Turchetta, insomma, nell’esplorare e cucire insieme, in modo peraltro mai banale, un plausibile discorso sull’autore, individua il dato di partenza di ogni disamina critica nella certezza che l’incontro con la scrittura consoliana immetta entro uno «spazio seducente e inospitale», plurale, e che reclama al lettore di superare «barriere di difficoltà» (cfr. Lo scrittore verticale, p. 65), per accedere allo spiazzante campo di forza entro il quale si genera un dettato, una scansione che ambisce alla poesia (pur sforzandosi di mantenere uno sguardo disincantato sulla storia, passata e presente); equilibrismo, passaggio al limite, che mina dall’interno le possibilità stesse della scrittura letteraria, fino a metterne in discussione lo statuto, come dimostra la cristallina unicità di un classico del secondo Novecento come il Sorriso.

 

 

Ma qui vorremmo soffermarci sulla centralità, come chiave di volta e punto focale, della favola teatrale Lunaria, momento di massimo nella ricusazione del romanzo tradizionale e consacrazione al potere risorgente della poesia (non a caso ispirata dalle Esequie della luna di Lucio Piccolo e a lui dedicata). Tuttavia un’apertura di credito verso le zone della poesia, non così tanto pacifica, come in prima battuta potrebbe sembrare. Ché, a ben vedere, se la poesia è fuga dalla realtà, consolazione, essa somigliando più a un ritrarsi dalle cose del mondo, non può che mandare in frantumi la soverchiante preoccupazione per il consorzio civile e i mali della storia. Ecco, nel momento in cui se ne celebra il potere risorgente se ne nega altresì ogni possibilità, per lo scrittore, di concederle spazio in sé e per sé, al di fuori del sostrato etico-politico di riferimento di cui si ammanta ogni sua pagina. Si tratta di una crisi immedicabile, mai ricomposta nella vicenda intellettuale dello scrittore. Il segno d’una resistente lacerazione proiettata nel temperamento malinconico di non pochi suoi personaggi: oltre all’abulico Viceré Casimiro di Lunaria, si pensi al Petro Marano di Nottetempo, al Chino Martinez dello Spasimo, oppure allo Scavone protagonista dell’esordio della Ferita e, ancor prima, a quello di un racconto abbastanza singolare come Un sacco di magnolie (1957). Lo stato depressivo si accampa come metafora riassuntiva dell’esistere, in cui a un massimo di fragilità si associa un massimo di nobiltà sensitiva: la malinconia è eletta a sede privilegiata della poesia, che solo il malinconico può capire (si rimanda a un’intervista rilasciata da Consolo sull’argomento, contenuta in E liberaci dal male oscuro di Zoli-Cassano, 1993). Atteggiamento melanconico, poesia, vita: basta allineare questi tre elementi per cominciare a capire cosa determini, infine, l’eclissi dell’io autoriale, la dissimulazione della radice più segretamente autobiografica dello scrittore; ogniqualvolta si presenta l’imbarazzo di una perenne condizione bloccata, per cui il dato memoriale viene trasfigurato, innalzato, riorientato, distillato in memoria collettiva. Non stupisce il suo pervicace antiproustismo, una costante, fin dai tempi della Ferita. In una lettera a Raffaele Crovi (Sant’Agata, 18 luglio, 1963) nella quale metteva a nudo le sue perplessità, i disagi di novello scrittore, le difficoltà di coniugare pratica del quotidiano e scrittura (che reclama “distrazione”), così, infatti, si andava interrogando: «ci sono giorni, c’è tempo senza fatti attuali?»; «Ma è più tempo questo, meno male, di Proust?». E così concludeva: «Ma può darsi che il mio ragionamento sia tutto sbagliato e la questione debba porsi in tutt’altri termini».

 

L’inchiesta decisiva di Consolo sul premere delle ragioni della vita, si mostra già qui erosa dal tormentato rigore cui lo costringeva l’imperativa partita con la storia e l’impegno; e non può spiegarsi soltanto con l’ideologico partito preso di un antiproustismo, in più occasioni sbandierato dal siciliano. Il rapporto con la vita, il rapporto con la poesia (che è poi lo stesso, in Consolo) non poteva che esprimersi sotto il segno, tanto consapevole quanto doloroso, di una sofferta e autoimposta castrazione. Lamentata, in un rigurgito di sincerità, in una delle tante increspature di Retablo (1987): «Siamo castrati figlia mia (…) siamo castrati tutti quanti vogliamo rappresentare questo mondo: siamo ai bordi (…) allunghiamo la mano per toccare la vita che ci scorre davanti» (qui a p. 473). Vita che già nel corale Bildungsroman de La ferita dell’aprile, forse la sola concessione a un memorare non del tutto in cattedra, viene descritta come «un gioco di maretta», per il quale è necessario avere l’occhio: «sbagliare il tempo, per ansie o dubbi o titubanze, significa farsi pigliare sotto, e travolgere, e sbattere nel fondo». E sul destino dello «sparginchiostro», ancora per voce del ragazzo protagonista, lo Scavone, non può che sentenziare con una certezza: «uno che pensa, uno che vuol riflettere e vuol capire questo mare grande e pauroso, vien preso per il culo e fatto fesso»; seguita dal farsi strada di un sospensivo ed eloquente dubbio: «questa storia che m’intestardo a scrivere, questo fermarmi a pensare, a ricordare, non è segno di babbìa, a cangio di saltare da bravo i muri che restano davanti?» (ivi, p. 92). Ecco: saltare i muri... Basta già quest’immagine espunta dall’esordio per riabilitare Consolo, come vorrebbe giustamente anche Turchetta (ma lo suggerisce qui appena di passaggio), dinnanzi al premere delle domande radicali della vita. E tuttavia a patto sempre di comprenderne davvero quel suo esprimersi, quando non per negazioni, per proiettivi arditi mascheramenti (mentre la vita scorre davanti), sotto il segno di un inconfondibile calco barocco che se lo avvicina al presente, nel contempo, e drammaticamente, lo allontana da se stesso. A volerne mettere a nudo la genesi, si può dire che il suo manierismo sperimentale (mi si passi l’ossimoro) scaturisca da una duplice verticalizzazione: e sul piano della lingua, sospinta come sappiamo al limite della scansione poematica; e su quello della sofisticazione della memoria, per mezzo di un obiettivante meccanismo che innalza il dato autobiografico a nucleo memoriale condiviso. È la sua una singolare maniera che impetra, sovente senza trovarla, consolazione. Difficile certo da cogliere se si rimane imbrigliati entro più che consumati piani di lettura. Non lo capì, emblematico il caso, Goffredo Fofi (cfr. Cronologia, p. CXXXV), quando, morto Sciascia, per lettera lo incalzava perché tornasse al Sud, a riceverne l’eredità, occupare il vuoto “politico” lasciato dal maestro di Recalmuto; altrimenti paventando, per il siciliano, il pericolo di allontanarsi dal concreto, già insito peraltro (sempre secondo Fofi) nell’«ambiguità» della sua particolare scelta stilistica di un tono “alto”. Chiaro che Fofi si sbagliasse, per effetto di uno ideologico strabismo, e che fosse vero piuttosto l’esatto contrario. Di quell’eredità il nostro già avvertendone tutto lo schiacciante peso. Ne seguì la risposta pubblica di un Consolo sincero e disarmato: messo in crisi e nel contempo rafforzato nella sua «renitenza a tornare nel Sud»; pronto a difendersi da chi voleva mettere in discussione la sua illusione: proprio «la consolazione della poesia» (“Caro amico ti scrivo…”: tra militanza e poesia, Il Bianco & il Rosso, 7-8 agosto-settembre 1990, p. 44).

 

In Novecento passato remoto (2000), Luigi Baldacci, a proposito della ricerca operata sulla scrittura da Gadda, parlava di «travestimento», di uno schermo che si frappone alla sua ri-cognizione del dolore: ora si potrebbe dire che se Gadda non si libera ma si trincera dietro le sue accordate polifonie, Consolo, a principiare da un analogo nodo di dolore, edifica, ricostruisce. Entrambi alieni, si veda bene, da una vena schiettamente espressionista: espressionismo che non richiede filtri e mascheramenti di sorta. Con l’indicativa divaricazione tra i due: perché ciò che in Gadda discende da un senso di pudore in Consolo assume il rilievo del segno manifesto di quella castrazione più sopra richiamata. Quella del siciliano è sì una scrittura del dolore, ma trasposta in terza persona; e che s’intestardisce – lo ha ricordato bene a caldo Giulio Ferroni dalle colonne de “L’Unità” (22/01/2012) all’indomani della dipartita dello scrittore –, «a cercare comunque un senso umano nella storia e nel presente».

 

 

A voler condurre ancora più innanzi questa divagante ricognizione nei territori (proibiti) di un io autoriale quando non mistificato sublimato (in chiave monumentale) in coscienza politica, tra le triangolazioni possibili con scrittori lontanissimi per esperienza e sentimento della vita, anzi dall’antitetico destino, nel quadro del nostro Novecento, per un beffardo cortocircuito mi sovviene il rimando al quadrato di Garboli a un D’Annunzio il cui postumo Solus ad solam (1939) può leggersi (né più né meno) come un romanzo di Mario Soldati, per il consimile manifestarsi di «un io segreto ma pubblico», e che parla «come se tutti lo conoscessero ed ascoltassero». Una naturale presunzione e predisposizione appartenuta, certo a partire da ben differenti presupposti, anche a Vincenzo Consolo e che dispiega la sua essenza nella misura inconfondibile di uno stile: scaturito, per D’Annunzio-Soldati, dal costituzionale bisogno di dire io; in Consolo nel segno di una voce che pur dicendo io si affretta a mettere tra parentesi quello espulso e segreto, immediatamente conciliandolo a un io storico e plurale. Bisogno di dire comunque che, in entrambi i casi, si coagula in effige di destino. Più volte ci si è riferiti al personalissimo trattamento della parola, al tono, alla cadenza, all’opzione verticale, insomma, di uno scrittore che al vertice estremo ed opposto ha pure saputo coltivare la retorica dell’impietrimento, il rischio dell’afasia: di fatto, l’unico autentico e doloroso punto di contatto tra ragion poetica e vissuto.

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