Dizionario Manganelli 1. Dissimulazione 

18 Settembre 2022

La dissimulazione non va confusa con la simulazione. I due termini non si distinguono solo per il prefisso peggiorativo (“dis-”) ma sono epistemologicamente antitetici e complementari. Nel Vocabolario Treccani, il verbo “dissimulare” viene definito come «rendere dissimile», ovvero «nascondere il proprio pensiero, o i sentimenti, i propositi, in modo che altri non se ne accorga, spesso anzi fingendo il contrario». Ma forse la definizione più efficace si trova nel Vocabolario Tommaseo-Bellini, in cui la differenza tra i due sostantivi viene identificata attraverso la massima di un autore trecentesco Francesco da Buti: «Simulazione è fingere vero quello che non è vero, e dissimulazione è negar quello ch’è vero». Si tratta in entrambi i casi di strategie retoriche volte a confondere l’interlocutore tra vero e falso: nel primo caso si finge una verità che non c’è; nel secondo caso si cela una verità a fin di bene. In questa accezione, la figura retorica della dissimulazione assume una valenza moralmente positiva, in quanto capacità di saper nascondere un atteggiamento che potrebbe infastidire l’interlocutore; come rivela Dante nel Convivio (III 10): «cotale figura in rettorica è molto laudabile, e anco necessaria, cioè quando le parole sono a una persona e la ’ntenzione è a un’altra; però che l’ammonire è sempre laudabile e necessario, e non sempre sta convenevolemente ne la bocca di ciascuno. […] questa figura è bellissima e utilissima, e puotesi chiamare ‘dissimulazione’». 

Questa figura retorica – che Dante definisce “bellissima e utilissima” – si rivela fondamentale e ancora più efficace in ambito politico, come sostiene lo scrittore barocco Torquato Accetto nel suo famoso trattatello Della dissimulazione onesta (1641, riscoperto da Benedetto Croce nel 1928, poi ripubblicato a cura di Salvatore Silvano Nigro e con presentazione di Giorgio Manganelli nel 1983), suggerendola come virtù indispensabile dell’uomo prudente. Non si tratta di applicare la menzogna alla strategia politica, ma anzi di saper mantenere un certo equilibrio, unendo sapientemente cautela e onestà: infatti «la dissimulazione è una industria di non far veder le cose come sono», e di conseguenza «si simula quello che non è, si dissimula quello ch’è» (pp. 50-51). Così, il trattatello propone un’ampia gamma gli espedienti retorici, dall’ellissi all’allegoria, indispensabili all’uomo politico onesto che abbia l’esigenza di celare i propri veri obiettivi (da notare che la sua tesi di laurea in scienze politiche intitolata Contributo critico allo studio delle dottrine politiche del ’600 italiano e discussa con il prof. Vittorio Beonio Brocchieri nel 1945 – pubblicata postuma nel 1999 con saggio introduttivo di Giorgio Agamben – sia dedicata proprio ai teorici antimachiavellici della Ragion di Stato). 

L’ibridazione tra verità e menzogna non poteva che attirare l’attenzione di Giorgio Manganelli, affascinato dalla prosa barocca caratterizzata dal continuo intersecarsi di figure retoriche ardite che generano continui e inattesi slittamenti semantici. Come ha rilevato Nigro nell’introduzione alla Dissimulazione onesta, l’aspetto paradossale del trattatello è legato non tanto alla tematica: «Bensì nel trattamento paradossale dell'argomento. E nella duplicità illusionistica, e altrettanto paradossale, della struttura dell'opera che, per parlare della dissimulazione, è stata costretta a dissimulare se stessa» (p. 20). Si tratta di una dissimulazione al quadrato, attraverso la quale l’autore costruisce un discorso sul tema del “non dire” evitando di nominare il tema stesso e creando così un susseguirsi di lacune di senso. Lo studioso ha ricondotto questa scrittura alla categoria della “cicatricosità”, cogliendo una certa affinità tra la filologia, che prova a ricostruire i significati nascosti nelle varianti del testo, e la duplicità implicita della scrittura divisa tra dicibilità e indicibilità.

In questa prospettiva, Manganelli considera la dissimulazione in quanto solida impalcatura retorica in grado di costruire un discorso coerente anche in assenza di un argomento definito da affrontare, avvalendosi delle infinite possibilità combinatorie della parola letteraria. Per Manganelli, la Dissimulazione onesta è un’opera apertamente “cicatricosa” perché – come puntualizza in un articolo contenuto nel volume Laboriose inezie (1986) – l’Accetto ha dimostrato la capacità raffinata della retorica barocca di saldare insieme argomentazioni ellittiche e ossimoriche, rimarginando vuoti semantici causati dall’indicibilità: «la cicatricosità non è solo la faticosa lotta di quello scrittore, di quel testo per “dire” in condizione di “indicibilità” storica; è […] una condizione dell'operare letterario. Potremmo dire che il testo letterario è un “impossibile”, che include la propria impossibilità, e la sperimenta come tale. Vi sono in ogni testo dei silenzi attivi, delle lacune che corrispondono alle interiori ferite, all'errore che l'invenzione letteraria comporta; si può anche affermare che non vi può essere letteratura se non dove agisca questo tema dell'errore, del trauma, della sconfitta» (pp. 106-107).

Di conseguenza, ognuna delle frasi che compongono il trattato dell’Accetto “dice” se stessa, ma rinvia anche a qualcosa che non c’è: l'indicibile che per ragioni storiche e letterarie si trova celato altrove e non può essere esposto in superficie. In questa prospettiva, la scrittura “cicatricosa” deve possedere un preciso ritmo interno, in modo tale che l’occultamento dell’argomento centrale non impedisca ai significati di generarsi, ma anzi renda possibile la formazione di un alone di senso che si diffonde da ogni singola parola, alludendo a ciò che non può essere detto. Analizzando minuziosamente la prosa dell’Accetto nella prefazione al trattatello, Manganelli mette in evidenza il sistema ritmico su cui si fonda la dissimulazione: «La prosa del trattato non è semplicemente la bella, colta prosa di un secentista moderato; è la prosa temerariamente inventiva e insieme meticolosamente occultata di un grande, esemplare secentista, ma anche di uno straordinario scrittore, di qualsivoglia età e connotazione.

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L’Accetto costruisce un periodo in molti modi. […] Ho detto “scrittore”, termine con cui intendo chi venga ricattato dalle parole. Come lo scrittore, il ricattato sa – è nozione ovvia, ma negletta – che le parole hanno un suono; e più parole disegnano una linea fonica e ritmica» (pp. 146-147). Nella prosa dell’Accetto i precetti morali sono inscindibili dalla configurazione ritmica del testo, che genera espansioni semantiche altrimenti impraticabili. Grazie a sapienti giochi fonici tra le parole, l’autore del trattato è riuscito a dire molto di più di quanto è scritto sulla pagina, alludendo a quanto egli ha volutamente occultato.   

Per Manganelli, la figura retorica della dissimulazione è l’emblema stesso della letteratura, poiché la parola letteraria oscilla continuamente tra verità e menzogna, ma senza la prospettiva moralistica presente nell’Accetto. Richiamando il titolo della più importante raccolta manganelliana di saggi La letteratura come menzogna (1967), il principio cardine della letteratura è appunto la “menzogna”, perché la letteratura è in grado di dissimulare il nulla che ha da dire. Di conseguenza, essa risulta essenziale proprio perché innecessaria e immorale; come evidenzia lo scrittore nel saggio Avanguardia letteraria contenuto nella raccolta postuma Il rumore sottile della prosa (1994): “Sia onore alla letteratura. Essa è ambigua, asociale, incorreggibile e imperfettibile. Soprattutto, è totalmente ambigua. È disonesta. Parteggia per gli assassinati e gli assassini. È ingiusta. È diseducante. È sensuale. Non tollera che la si ammanti di qualsivoglia ideologia. È in grado di accogliere tutte le ideologie e di fatto le accoglie, le accoglierà. Non le interessano. Cercano di metterle in bocca delle risposte. Lei ha tutte le risposte dentro di sé; quelle e il loro contrario. Veramente, è mostruosa. È la libertà. Ma non la libertà bene intesa” (pp. 76-77).

In linea con questo principio, la prosa di Manganelli è costruita sulla messa in scena delle contraddizioni concettuali, sull’equivalenza tra possibilità semantiche antitetiche, che consentono di ramificare il testo in tutte le direzioni possibili. Nel suo caso, però, la scrittura è “cicatricosa” non per ragioni storiche e nemmeno filologiche, ma perché ambisce a parlare del nulla attraverso una prosa che possa simulare la coerenza di un’argomentazione apparentemente logica, dissimulando l’impossibilità di dire qualcosa di sensato sul vuoto metafisico dell’età contemporanea. 

Infatti, nel suo libro d’esordio Hilarotragoedia (1964) – indagine sulle diverse modalità di discendere agli inferi a cui sono destinati gli esseri umani, appunto definiti “adediretti” – Manganelli simula la prosa del trattatello secentesco sul modello dell’Accetto, ma la disinnesca attraverso diverse strategie di scomposizione dell’efficienza argomentativa saggistica, in particolare la mancata conclusione. Il libro viene lasciato in sospeso con i due punti finali proprio nel momento in cui sembra giunto il momento di fornire una risposta alla domanda definitiva sul destino di morte dell’uomo, ovvero «come si concluderà la levitazione discenditiva?»; invece, il trattato resta in sospeso e continuamente da dimostrare: «in proposito si potrebbe avanzare la seguente ipotesi:» (p. 116). L’ipotesi non viene esplicitata e l’assenza di risposta si configura paradossalmente come l’unica risposta possibile all’inconoscibile traiettorie che gli esseri umani dovranno compiere dopo la morte. Come nel modello dantesco, anche il trattatello sull’Aldilà si conclude sulla consapevolezza dell’indicibilità, sull’impossibilità di dire: il testo dissimula la propria incapacità di descrivere l’indescrivibile, la luce assoluta, il vuoto assoluto.   

Anche nel suo secondo libro Nuovo commento (1969), Manganelli esplora le potenzialità del genere del commento svuotandolo però della propria funzione, poiché il testo da commentare è assente, quindi il commento si configura come un apparato di note a margine di un vuoto centrale. Si potrebbe pensare alla simulazione di qualcosa che non c’è, ma in realtà anche in questo caso lo scrittore si avvale della dissimulazione: infatti, secondo l’interpretazione proposta da Italo Calvino, il testo inesistente corrisponde a Dio o all'Universo, dunque un’entità indefinibile e illimitata. Di conseguenza, la mancanza di un referente delimitabile costringe il commento a strutturarsi solo su se stesso, dissimulando la propria incapacità di condensare sulla pagina una grandezza incommensurabile e – come annuncia fin dalle prime pagine l’aspirante commentatore – di formulare un commento davvero “innovativo”: «Non s’adonti l’occhiuto lettore alla intonsa insolenza di codesto “nuovo”, né travalichi in precoce, incauto sdegno. “Nuovo” lo diciamo non già perché ambisca a radicalmente innovare la materia, o proporre una redazione criticamente definitiva, breviarietto, o viatico amico pei frigidi fuochi dell’apocalisse, o suggerire una lettura più sottile […]. Piuttosto vorremmo porgerlo come faticoso ma non sleale documento di un inseguimento sgangherato e penoso, tra binari e marciapiedi di una allegorica e nondimeno sordida stazione» (pp. 11-12).

Nelle opere successive, da Agli dèi ulteriori (1972) a La palude definitiva (1990), Manganelli prosegue nell’esplorazione delle potenzialità della retorica barocca, ibridando generi e linguaggi in combinazioni sempre diverse ma accomunate dalla volontà di sondare il confine tra dicibilità e indicibilità. Opere come Amore (1981), Dall'inferno (1985), Rumori o voci (1987), Encomio del tiranno (1990), si configurano come discorsi solo apparentemente logici e coerenti, ma in realtà non hanno l’obiettivo di fornire dimostrazioni o interpretazioni originali su un determinato argomento. Infatti, questi testi si fondano sul loro stesso costruirsi come testi formalmente impeccabili, ovvero sul processo di ramificazione sintattica e semantica che prende avvio da una supposizione iniziale, per poi dilatarsi sino a metterne in discussione il punto di partenza.

L’attrazione dello scrittore per la dissimulazione ha un valore ancora più profondo, non solo letterario ma anche umano. Infatti, grazie all’assimilazione delle strategie della retorica barocca, Manganelli è in grado di stabilire una necessaria distanza dalle proprie idiosincrasie di uomo del Novecento, dando vita a testi che risultano sempre logicamente coerenti anche quando sembrano parlare di nulla. L’impeccabile costruzione formale consente di dissimulare uno stato di crisi permanente, connesso al rifiuto di qualsiasi prospettiva metafisica, moralistica e consolatoria. Manganelli individua nella rigorosa precisione retorica della dissimulazione attuata dai prosatori barocchi, in particolare dai trattatisti, la strada maestra per riuscire a tenere a bada gli slanci emotivi, per congelare il magma incandescente del contenuto – “avere qualcosa da dire” è un rischio che l’autore vuole evitare in tutti i modi –, conferendo una compostezza formale ai propri testi, pur lasciando percepire la deformazione caotica del mondo.

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