La restanza: per un’antropologia dei paesi

26 Aprile 2022

Ho conosciuto Vito Teti grazie a La razza maledetta (Manifestolibri, 1993), un libro che smontava pezzo dopo pezzo la retorica antimeridionale in auge in Italia dalla fine degli anni ‘80, nelle tv e sui giornali, grazie al successo della Lega Nord di Umberto Bossi, e lo faceva col consueto metodo e rigore scientifico che avrei imparato ad apprezzare in seguito. 

Teti, antropologo calabrese di San Nicola da Crissa, nelle Serre vibonesi, negli ultimi vent’anni si è dedicato come pochi agli studi sul paese e sui paesi, al senso dei luoghi, nonché agli studi sull’emigrazione, sui ritorni, sulle catastrofi, sulle pratiche del restare, al punto che, da questo suo lavoro, nel 2021, è nato il documentario indipendente di Luca Calvetta e Massimiliano Curcio, Il paese interiore, con la voce di Ascanio Celestini, visibile qui.

 

La restanza, l’ultimo libro licenziato da Teti ad aprile 2022 per le Vele di Einaudi è un ennesimo prezioso ritorno, un memoir che riprende i temi principali dei suoi studi insieme alle esperienze ultime, dalla collaborazione allo Sponz Fest di Calitri con Vinicio e Mariangela Capossela per dar vita all’Università dei ripetenti, agli incontri con le tante realtà italiane che si ispirano al concetto di restanza

Questo ritorno alla restanza era a maggior ragione necessario perché quello che un tempo era il tema storico, politico e culturale per eccellenza dell’Italia repubblicana, ovvero il problema della frammentazione e dello squilibrio della penisola italiana – che arriva alla famigerata quanto ormai rimossa Questione meridionale – è stato negli ultimi decenni parcellizzato e settorializzato, riducendone la portata complessiva. La stessa antropologia dei paesi, una volta campo soprattutto di letteratura e documentaristi, penso a Pavese e Meneghello, a Di Gianni, solo per fare dei nomi, è oggi diventato l’ennesimo brand strumentalizzato dall’industria culturale, che ha subito proposto nuovi specialisti della montagna, temi neo-romantici, neo-borbonici, oppure è stata presa in carico da settori specifici e studiosi delle cosiddette aree interne. E se chi si occupa di aree interne è sicuramente nel giusto, tuttavia il lessico specifico denota un restringimento di campo a un settore, alle sue parti, non al tutto, ovvero al problema del deficit italiano di cultura nazionale.

 

E qui non solo la restanza, bensì tutta l’opera di Vito Teti – penso ai recenti Pathos e Homeland, con le fotografie di Salvatore Piermarini – può essere vista come un unico discorso nazionale intorno a un’Italia sì disomogenea, ma anche largamente interdipendente e interconnessa tra le sue parti, e connessa con l’altrove dei suoi migranti all’estero, dei suoi doppi. 

Se Teti è un calabrese di una delle province più povere del paese, figlio di migrante oltreoceano, come buona parte degli abitanti del suo paese, che per gemmazione si è ricostituito a Toronto (Homeland, Rubbettino 2022), da questa esperienza subalterna, prima che dai suoi studi, gli derivano uno spiccato senso del sacro, la pietas e il suo nostos.

 

 

Teti porta questa doppiezza del paese e della memoria, dell’inconscio e della coscienza, nel campo dell’autobiografia, dunque conduce un borgo di poche anime all’interno di una cornice universale. Alla nostra civiltà delle macerie e delle devastazioni del moderno, delle guerre totali e tecnologiche, del collasso climatico, l’Italia di Teti risponde con la conoscenza profonda della sua storica frammentarietà e molteplicità quale chiave per comprendere i propri annosi problemi: dalla cura dei luoghi dimenticati, fragili e indifesi, all’attuazione della Costituzione repubblicana. 

Restare, partire, tornare, sono termini lungamente sviscerati dall’antropologo lungo il corso della sua carriera. In questo contesto, però, la restanza di Teti acquista un carattere nuovo, proponendosi come motore di una riconfigurazione etica dell’esistenza:


“Il mio non è un elogio del restare come forma inerziale di nostalgia regressiva, non è un invito all’immobilismo, ma è solo il tentativo di problematizzare e storicizzare le immagini-pensiero del rimanere come nucleo fondativo di nuovi progetti, di nuove aspirazioni, di nuove rivendicazioni. (…) Perché per restare, davvero, bisogna camminare, viaggiare negli spazi invisibili del margine.” (La restanza, Einaudi 2022)

 

Non c’è spazio per localismi, chiusure identitarie antimoderne, né per la visione immobile e a-storica del sentimento o di una cattiva estetica, anzi l’interesse si rivolge alla propulsione dovuta se vogliamo a una nostalgia attiva (Nostalgia, Marietti 2020) data dall’accento sul lato inclusivo del luogo: “tale in quanto abitato, umanizzato, riconosciuto, periodicamente rifondato, dalle persone che se ne sentono parte”. 

Insomma, laddove l’emigrazione si lascia indietro catastrofi come l’esodo silenzioso del mondo contadino, un patto nazionale e locale di responsabilità e cura può essere la strada per rifondare il rapporto tra paesi e nazione. Verga, Perri, Seminara, Alvaro, Silone, Levi, con i loro cafoni, ma anche gli okies di Steinbeck, sono lì a ricordarci che le migrazioni rappresentano l’atto più estremo e antico di auto-redenzione. Tuttavia, gli auspici di Teti, va detto, si infrangono contro i network e le tv nazionali dove la malinconia del migrante viene etnicizzata e disprezzata per produrre stereotipi e capri espiatori, di conseguenza nella rappresentazione mediatica non c’è memoria per i vinti, i quali soggiacciono alla dialettica amico-nemico, finendo per cristallizzare latenti complessi d’inferiorità, rimozioni inconsce, insieme a volontà di riscatto, audacia, determinazione. 

 

Insomma, la restanza è ancora in cerca di autori. Teti stesso è stato, in lavori precedenti come Pietre di pane (Quodlibet 2011), Terra inquieta (Rubbettino, 2015), Quel che resta (Donzelli, 2017), testimone della fine dei paesi calabresi e dello scivolamento di un popolo dalle montagne verso le marine: Diamante, Soverato, Badolato. Oppure dei paesi abbandonati come Pentadattilo, Africo, e della già citata Calabria americana. L’autore, grazie all’inquietudine, si è fatto viaggiatore-ricercatore, e grazie alla sua malinconia si è persuaso che non esistano non-luoghi, perché ogni luogo conserva un suo recondito o evidente senso. Un paese vuoto per Teti è la prova che da qualche parte nel mondo altri luoghi si sono riempiti di vite, e questo nuovo brulicare comporterà processi di adattamento a cui il ricordo dell’origine fornirà inevitabilmente la consueta vertigine malinconica.

 

Nel ricordo di chi è partito però a volte viene meno il conflitto, o l’ambivalenza del paese premoderno, il suo immobilismo, l’ingiustizia sociale e politica. Non solo il viaggio e chi parte è in mutamento, lo è pure il restare, attendere e conservare memoria o assistere all’oblio. In fin dei conti la vita è un continuo mutare, dunque la malinconia, come madre del sentimento nostalgico, che investe la restanza, significa ambire al ripopolamento e alla rivitalizzazione delle zone interne, al riequilibrio tra marine e montagne, al dialogo tra territori oggi separati. La restanza chiede alla storia di tener conto dei vinti, di riscattare senza per questo indulgere sui falsi rimpianti per la fine di mondi tradizionali, poiché in un mondo sempre più imprevedibile e colpevole di catastrofi, direbbe Hans Jonas, occorre riparare agli errori commessi attraverso una nuova volontà di responsabilità. 

 

L’autore non si fa illusioni sulle difficoltà della realtà concreta, è consapevole che senza “un’offerta adeguata di servizi di cittadinanza essenziali – la scuola, la farmacia, i trasporti locali, la connessione a internet, un presidio sanitario di prossimità – il ritorno in “vita” di qualche casa non sarà sufficiente per consentire un’esistenza dignitosa ai residenti e per contrastare il declino”. Eppure nell’assistere pian piano alla scomparsa del suo paese, restando in quei luoghi che consiglierebbero la fuga o l’abbandono, Teti è riuscito da Sud a colmare lacune e fornire prospettive sempre inedite e solide al discorso nazionale. 

Certo, la sua ricostruzione si ferma consapevolmente di fronte all’assenza di interlocutori e referenti strutturati, all’assenza di modelli e riferimenti politici, dunque di essenziali mediatori di motori propulsivi in grado di dar luogo, soprattutto nella società meridionale, a una cultura della restanza. Ma la sua antropologia fornisce un lessico, e il lessico, benché ancora allo stato di utopia, resta il principio di qualsiasi progetto.

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