L'autodocumentario Łoziński

9 Aprile 2014

“Credo sia un'idiozia che un regista parli al pubblico prima del suo film”. È un uomo piccolo, Marcel Łoziński, con le labbra sottili e strette, gli occhi che appena s'intravedono dietro un paio di lenti cangianti. Ma quella sottile linea di bocca tende al sorriso, uno di quei sorrisi cordiali, senza sbavature. Incontra il pubblico del 54 Festival dei Popoli a Firenze in grande adunata per la serata di apertura.

 

Scorre Anything can happen e il creato – nel senso di mondo – non è più lo stesso. A ben guardare non è affatto 'creato' una volta per tutte. Può arrivarvi addosso un bambino, di sei anni, mentre ne avete ottanta e vi sollazzate al flebile sole di un parco d'autunno. E travolgervi con le sue domande senza riguardo, con la sua vitalità senza direzione, guidata solo dalla propria curiosità, gli occhi spalancati al mondo, a ogni eventuale risposta, soprattutto a quelle che non comprende, che sono poi quelle che gli piacciono di più.

 

“Nei cineclub vidi quasi tutti i film del neorealismo italiano”, racconta Marcel nell'intervista rilasciata in esclusiva ai curatori della retrospettiva S. Grasselli e V. Iervese. “Erano a tal punto universali che ci vedevo riflesso anche il mio paese”. In questo e in molti dei film proiettati, Marcel Łoziński mira dritto alla domanda, non si lascia ingannare dalle risposte facili che spesso precedono le domande stesse. Un documentarista sa che prima di schiacciare il suo 'play' è già nitido il 'che cosa', 'in nome di cosa', il 'come' filmare. “Mio figlio Tomaszek [...] corre in un parco di Varsavia come nel giardino dell'eden, libero dal peso della conoscenza del bene e del male. Pone domande alle persone anziane, e le consola come se fosse onnipotente. Sei anni è già l'età della ragione ma è ancora l'età dell'emozione quasi illimitata, del comportamento non inibito dalle convenzioni sociali e dalle norme comuni”. Pura pena, cum patire l'altro il tempo di una giravolta, e poi dritto a rotta di collo verso nuove scoperte. 'Quando io avrò la sua età', si rivolge Tomek a un signore ultraottantenne, 'lei sarà ancora vivo?' Domande universali, che ci hanno insegnato la morte prima della vita e per cercare risposte alle quali, almeno da bambini, non serve diventare filosofi. “Per tutta la vita mi sono nascosto dietro la macchina da presa, utilizzando i miei personaggi come portatori di ciò che volevo dire. Ho sfruttato la vita di altre persone. Mi sono nutrito di loro”, confessa a un certo punto Marcel a riprova che 'reality is more fiction than fiction' perché veniamo dalla finzione di essere chi vogliamo essere, a dispetto della realtà stessa.

 

Il film The microphone test gli costa il licenziamento, a lui e al protagonista, per aver messo a dura prova gli slogan del socialismo reale. Per non parlare di 89 mm from Europe, dove la differenza di larghezza dei binari tra la Polonia e l'ex URSS – che comportava una sosta di più di due ore alla stazione di frontiera con la Bielorussia – diventa una suggestiva metafora dell'impalcabile differenza tra le due Europe. “Sui binari, sudici operai cambiano gli assi con attrezzi primitivi, mentre negli scompartimenti siedono gli 'Europei', e se in generale li guardano, è con condiscendenza, come si guardano gli insetti”. Il documentarista non scrive su un taccuino in tricetato di cellulosa, ma scombina i piani per poi rimetterli in sequenza, dato che l'interminabile nastro della realtà si frammenta comunque all'incalzare del tempo, e sa rivelare solo tardi e male i suoi motivi, le sue trame, i fossili. Ben poca realtà è veramente nuda e va oltre ciò che 'si vede'.

 

La retrospettiva curata dal 54 Fdp prevede però una struttura bipolare. Staccato da Marcel, lievemente più timoroso di fronte al suo pubblico, a metà settimana arriva Pawel Łoziński, altro figlio e documentarista. Non è il bambino dei due film citati, ma il primogenito che, come spesso accade, modifica repentinamente la vita del genitore, lo mette di fronte a scelte e vedute inusitate. Compresa quella di fare il documentarista a sua volta. Pawel non assomiglia quasi per nulla a suo padre. La cosa più eclatante è che i due hanno girato un film insieme, da registi e interpreti contemporaneamente. Volevano tentare di afferrare il selvatico della loro relazione, farne una giuntura filmica di un qualche interesse cinematografico e umano, autodocumentarsi. Pochi possono vantare di sostenere – o anche solo intraprendere – un progetto del genere. Mettersi in gioco fino a questo punto, o meglio: in viaggio.

 

A vedere entrambi i film – stesso girato ma diverso montaggio – sembra di assistere a un dispetto d'affetto. Marcel fa il suo film sottolineando che è un viaggio, principalmente un andare, un roadmovie dove intanto che si va accadono cose, dialoghi, litigi, risate. Per suo figlio Pawel – aveva chiesto lui al padre di poter fare un film sulla sua storia – questi fotogrammi restano l'occasione di uno svisceramento emotivo. Intervallato dalle splendide note di Domino, corrono logore e spezzate dal tempo le immagini di un bambino e di suo padre. Sono loro, l'epoca è remota, seppellita in fondo agli angoli del presente, così ben nascosta che ti viene in mente prima il ritornello della canzone, poi le immagini. Le printemps chante en moi, Dominique, le soleil s'est fait beau, j'ai le cœur comme un boite à musique... Qualcuno alla fine della proiezione gli fa i complimenti, ma poi confonde le versioni del film. Per fortuna non ha la spocchia dell'artista Pawel, la sua faccia è seria, più ferma di quella di suo padre. Fare il documentarista ed essere figlio di un noto documentarista è di per sé problematico. “Finito il liceo non sapevo bene che fare. Ho provato a iscrivermi a fisica, ma ho capito subito che non era per me. Dovevo mantenermi da solo, quindi mi sono procurato diverse occupazioni [...] In seguito ho iniziato a lavorare come assistente per film documentari e a soggetto. Era più interessante, e a poco a poco mi ha preso”.

 

Pawel racconta anche di essere stato ammesso alla scuola di Cinema di Łodż solo al secondo tentativo. Forse una strada ben più dura di quella di Marcel, nipote di Jean Vigo, immerso quasi amnioticamente nel corallo bianco/nero della geniale inventiva di suo zio. “Secondo me Vigo è andato oltre Dziga Vertov...” sfida Marcel.

 

Se vivi con una leggenda in casa, come accade con lo zio Jean, morto a soli 29 anni, ironico, leggero, irruento e anarchico per giunta, in effetti può mancarti tutto fuorché l'ispirazione. Lo stesso non deve essere accaduto a Pawel, o almeno non con la stessa semplicità. Laddove per Łoziński padre è facile intersecare storie e giudizi, Łoziński figlio nel 1995 accetta l'incarico che gli dà Kieslowski attraverso il British Film Institute: raccontare il cinema polacco in occasione del centenario della nascita del cinema stesso. È così che A hundred years of cinema coinvolge il giovane Pawel non tanto sul versante della cronologia e della collezione di film d'autore del suo paese d'origine. Il dispositivo cinema è sfruttato per indagare l'immaginario collettivo, l'esperienza filmica rappresa nel vissuto di cinefili e gente comune: un film “non sui 100 anni di cinema ma, come recita il titolo, 100 anni al cinema”. Se da un lato Pawel è forse meno disposto ad ammettere che scelte come il proprio mestiere non vengono dal nulla, dall'altro lato Marcel rischia involontarie genuflessioni, come lo stesso Kieslowski, a voler trattare materie ridondanti come i centenari.

 

Ciò che rimane fuori dai saggi di Grasselli e Iervese è forse il dolore della contusione dovuta allo schianto contro i rispettivi spigoli caratteriali dei due cineasti. “Il movimento del cinema di Pawel può essere considerato per certi versi opposto e complementare a quello di Marcel. Se quest'ultimo muove dal sociale per rintracciare l'intimità e l'unicità degli esseri umani con cui entra in contatto, Pawel si occupa degli esseri umani nel tentativo di condividere una parte della loro esistenza e, in questo modo, ricostruisce il reticolo di elementi storico-sociali che costituisce il loro vissuto”.

 

Ci riesce meglio Father and Son e la cosa sembra soddisfi moltissimo i curatori, che lungi dal calarsi nelle fattezze di lavandaie dei panni altrui non sottopongono mai al pubblico in sala l'ansia pruriginosa del pettegolezzo giuridico-freudiano. Di chi è il film? Chi ha avuto l'idea o l'ha montato meglio? Essere in relazione con qualcuno significa gioire e/o soffrire di essa, è difficile riuscire a far da semaforo direttivo a un tale crocevia di sentimenti. Più che un documentario si tratta in senso stretto di un autodocumentario, una doppia versione filmica, più unica che rara nella storia del cinema, in cui ciascuno osserva e lancia all'altro frammenti di sé. Ricordi e rimostranze in giochi di rimandi provano la complessità del presente e saltano gli ostacoli dei ruoli. Si vede benissimo che i due non giungeranno mai alla meraviglia e alla libera condivisione del gioco discorsivo di Tomek nel suo parco di Varsavia, ma tutto può succedere comunque, le forme mutano, si sdoppiano, si connettono tra loro del tutto inaspettate. E i documentari anche.

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