A Sentimental Giorno / Ulisse interprete di Joyce

16 Febbraio 2022

A cent'anni dalla pubblicazione dell'Ulisse, edito a Parigi da Sylvia Beach per i tipi della Shakespeare and Company, il 2 febbraio 1922, colpisce ancora il carattere dirompente dell'opera Joyciana, uno scandalo che rinnova il mondo colpendo il cuore non solo dell'universo letterario ma anche della cultura borghese e accademica, e il modo di guardare la realtà. Quando il libro uscì, Freud già da decenni andava con la psicoanalisi e col movimento psicoanalitico nella stessa direzione. Non può sfuggirci il legame che unisce letteratura e psicoanalisi. Anche se in modo assai diverso se pensiamo a Freud, con la sua attenzione al nascosto e ai meccanismi di rimozione e difesa, o a Lacan e all'attenzione diretta piuttosto sul soggetto, colto nella sua costitutiva divisione ad opera del taglio significante, che sull'Io e i suoi modi di funzionamento. 

 

Starei per aggiungere alla letteratura anche il cinema, riflettendo sul pensiero come immagine e su come la tecnica della prosa possa fare propria quella della macchina da presa come accade in certi racconti di Thomas Hardy — grande scrittore dell'età vittoriana ancora sulla scena quando uscì il romanzo di Joyce — e come accade nelle turbinose e oniriche sequenze in cui si sviluppano gli eventi della giornata di Leopold Bloom a Dublino che sono la scena e lo spazio temporale del romanzo. Sempre alla tecnica cinematografica appartiene l'uso di zoom che ingigantiscono a dismisura un'immagine, la riducono a dettagli che poi si rimescolano in una specie di stato nascente della sensorialità e della lingua. E lo stesso vale per il ritorno a una visione d'insieme tipo grandangolo che mostra tutte le carte scompigliate, le cose cambiate e tutte da reinterpretare.  

 

Dziga Vertov, L'uomo con la macchina da presa (1929)

 

L'azione dell'Ulisse si svolge in un 16 di giugno che è fatidico perché è il giorno in cui Joyce iniziò la sua relazione con Nora Barnacle, la donna che un pomeriggio sulle rive di un fiume lo "rese uomo", e che sarebbe diventata sua moglie. Come è fatidico quel 2 di febbraio dell'uscita a Parigi dell'Ulisse, che coincide col giorno di nascita di Joyce, nel 1882. E non è forse un caso, tornando al possibile rapporto fra tecniche della scrittura e tecniche del cinema, che Gabriele Frasca abbia intitolato L'uomo con la macchina da prosa il suo testo su Joyce in occasione del centenario dell'Ulisse, parafrasando il titolo del film di Dziga Vertov L'uomo con la macchina da presa (1929), e ricollegandosi alle sue sollecitazioni estetiche altrettanto rivoluzionarie che pongono la macchina al centro come in Joyce è il libro. Come pure forse in questo scritto, teso a entrare nello spirito del genio letterario di Joyce, "funambolo della parola" che rimescola all'infinito le carte delle lingue post-babeliche, risulterà comprensibile il gioco di assonanze che sta dietro al titolo. Al Laurence Sterne di A Sentimental Journey, fra gli ascendenti artistici di Joyce, si riconducono la condensazione di riferimenti e la rifusione, quasi fosse un pezzo d'oro, della parola journey, alla maniera di Joyce: uno stimolo vitale, una provocazione, che è matrice di una lingua nuova quanto la visione delle cose che essa rispecchia.  

 

La psicoanalisi freudiana mette al centro della riflessione l'insieme delle operazioni che lavorano i testi dell'inconscio: i sogni, i lapsus, gli atti mancati. 

Joyce mostra in modo immediato nella sua scrittura la rimozione e ciò che ad essa è soggetto o se ne affranca, e l'inconscio stesso che detta il monologo interiore e serpeggia nella trama della scrittura intesa come rispecchiamento della sua mobile e fluida, complessa architettura testuale. 

E così facendo crea dei testi letterari nei quali si coglie lo slittamento del significato sotto il significante, anzi la coincidenza del significato non già con i significanti ma con il succedersi dei significanti. Compaiono all'orizzonte del romanzo non uno o pochi personaggi principali, ma tutti gli esseri viventi, le cose inanimate, la natura, e anche tutti i momenti ed eventi, in una pluralità di voci che sono anche sorprendentemente singolarizzate nella loro enigmaticità, e talora si rivolgono direttamente al lettore chiamandolo a un dialogo oltre la pagina. Questa polverizzazione del medium espressivo è mimetica del caos della realtà, ma lo integra e lo domina in una sapienzialità che ricorre al genio dell'autore, e alle sue fonti di ispirazione: i grandi del passato come Omero, Dante, Shakespeare o Giordano Bruno, ma anche la religiosità, la scienza e le credenze popolari, l'occulto, e soprattutto il mito.


È lasciata al lettore l'attribuzione di un senso alle parole, orientando una soggettività altrimenti irrelata attraverso la coscienza di un'estrema complessità delle cose e della presenza di una pluralità di motivazioni, di esseri senza essere e significazioni. Sull'onda di questa necessità di riordinamento e comprensione che non può aver fine, si verifica la proliferazione di domande e risposte minute e precise su quanto all'uomo si manifesta nello squadernarsi dell'universo. Un'indefinibile voce fuoricampo interroga Stephen Dedalus e Leopold Bloom, ma anche ogni uomo, nell'episodio di "Itaca", la terra della nostalgia di un ritorno che è anche possesso intuitivo e originario di una chiave interpretativa rispetto all'insondabilità del reale e al mistero del tempo. 

L'impegno febbrile a smontare e far rinascere la lingua è il vero orizzonte di Joyce. ll segreto della sua creatività è nella difesa dall'angoscia generata da un mondo estraniato, dal sentimento di non appartenervi, di non avere una familiarità con esso né tantomeno con le cose inanimate e i corpi viventi, soprattutto quelli femminili, e quelli dei morti. 

 

E a questo riguardo, se volessimo seguire il modello delineato da William Carlos Williams, autore dell'epopea della sua Paterson, o da Baudelaire rispetto a Parigi, di un'identificazione dell'uomo, di Joyce, con la città, mi pare che nonostante tutto essa non sia davvero Dublino, qualcosa di reale ed esistente. Sarebbe fonte di troppe lacerazioni, di contrasti insanabili. Ed è per fuggire da questi che Joyce sceglie il suo peregrinare lontano. Dublino contiene la base di realtà, e di memoria, per il lancio verso altre dimensioni. 

Joyce trascorre la vita nella corsa verso una città patria del cuore, partendo dalle emozioni e dai sensi. Mentre in regime di assoluta onnipotenza svolge questa ricerca può far rinascere all'infinito la lingua facendola oggetto d'investimento libidico, e con ciò aprire l'orizzonte su altri mondi possibili. Può far germinare la lingua a ogni tappa della vita interiore. A ogni frustrazione, a ogni angoscia, a ogni sentimento di estraniazione e solitudine, a ogni emozione può farla scaturire rigenerata da una zolla semantica sotterranea con abilità da rabdomante. 

 

Joyce con la sua scrittura ci mostra il come, ci addita un metodo per costruire una nuova familiarità, una nuova possibilità di vita, e la scrittura è per lui quell'axis mundi, quel palo totemico detto kauwa-auwa che sempre in ogni nuova meta del suo cammino pianta il popolo australiano degli Achilpa di cui narra Ernesto De Martino. La scrittura è anch'essa plasmazione dello spazio che destorifica la peregrinazione e contrasta l'angoscia territoriale assumendo che il cammino ci mantenga sempre al centro del mondo, ogni volta rinascente come proprio e familiare. E questo è forse il dono più grande che, cercando la sua salvezza e la sua personale espressione, fa all'intera umanità.  

 

Si afferma quella che per Lacan è un'"art-dire", (ma si potrebbe accennare, dice Colette Soler, anche a un "art-dieur", perché Lacan nel 1967 paragona Joyce a figure come Meister Eckart e Mosé), per riferirsi a un operatore capace di annodamento dei registri reale, simbolico e immaginario quando siano sciolti o vengano separati: la scrittura come antidoto della psicosi. 

L'Ulisse, in cui per Giorgio Melchiori Joyce "ha fatto della sua Dublino il nostro universo", è un'epopea della psiche, del suo modo scoppiettante e ironico, materiale quanto spirituale, di affrontare un mondo vuoto in cui le passioni — dal sesso, all'alcol, al cibo, cui Bloom e Molly si abbandonano con ricerca insaziabile — dettano la grammatica della vita e della lingua, e indicano nuove possibilità di lettura del destino umano nel suo compiersi fra vita e morte, fra la ripetizione e gli orizzonti aperti. 

La narrazione joyciana punteggiata da epifanie, e cioè visioni poetiche alla Blake, rompe il filo del senso e lo ricompone col non senso in una figura spaziale unitaria che con Lacan potremmo considerare come topologica.

 

Le pulsioni, nella loro componente semiotica in tumultuoso avvicinamento al dire, in cui diventano significanti, modellano la nuova rivoluzionaria arte della scrittura che Joyce propone. Una scrittura che "non è dell'ordine del pensiero", e da cui, secondo Lacan, la dimensione immaginaria del corpo è esclusa, mentre vi domina un registro di intensissima carnalità e sensorialità. E d'altronde Joyce stesso in una lettera all'amico Frank Budgen definì l'Ulisse non solo "un'Odissea moderna", ma anche "l'epica del corpo umano". In quest'epica il dressage pulsionale mostra in trasparenza la sua natura di guida e attivatore della prosa, e custodisce il suo carattere eversivo, generando modalità espressive inaudite, che col loro produrre cambiano il mondo e non solo la pagina letteraria. Nell'Ulisse il romanzo opera, come osserva Fredric Jameson (The political unconscious, 1981) una trasformazione radicale del sentire e dei soggetti umani che il capitalismo ha già trovato il modo di rispecchiare nel linguaggio in cui esso mimeticamente si cala. Osserva Julia Kristeva in La Révolution du langage poétique. Lavant-garde à la fin du XIXe siècle: Lautréamont et Mallarmé (1979): «[ ] le mode de production capitaliste [ ] n’a plus besoin de se tenir strictement aux normes langagières et idéologiques, mais peut en intégrer le procès en tant que tel : il peut exhiber sous forme d’art ce qui est le fondement producteur des formations signifiantes, subjectives et idéologiques [ ]».

 

La lingua è sempre reinventata, è revocato il potere dell'ordine simbolico e quanto vi è di dato e unidirezionale, e il romanzo è qualcosa che accade al suo materiale primario, ne demistifica e decodifica i meccanismi narrativi, la posizione del personaggio e a partire da esso quella del soggetto. 

Suggerisce Kristeva: « [ ] les modifications langagières sont des modifications du statut du sujet — de son rapport au corps, aux autres, aux objets ; [ ] le langage normalisé est une façon parmi d’autres d’articuler le procès de la signifiance qui embrasse le corps, le dehors matériel et le langage proprement dit. [ ] Le frayage des pulsions dans le système symbolique du langage provoque des modifications qui atteignent le niveau morphophonémique, la syntaxe, la distribution des instances discursives, et les relations contextuelles». 

Il personaggio perde la sua nuclearità e il suo profilo. La scrittura perde la consistenza e la continuità, cioè la sua personalità, e si mette invece al servizio di un mondo di decentramento e atomizzazione, in cui sempre meno è in causa l'Ego, e il personaggio, e sempre più è in causa il lettore che si avvicina al ruolo di coautore. È una concezione del rapporto col pubblico che si avvicina a quella di Jorge Luis Borges.

 

Affacciato su un orizzonte sconosciuto, Joyce cerca nel corpo come rappresentante di sé e di quell'altro che è in noi e nondimeno sentiamo di essere, e nel mito come principio e spiegazione di ogni cosa, le sue stelle. Una guida, e un contenitore capace di sussumere i cambiamenti e finanche il caos, l'insensatezza del mondo regolato dai tempi e dai ritmi della società, senza perdere la possibilità di dire. Un dire che mentre è il prodotto di infinite pressioni diverse, ed è soggetto a qualcosa di ineluttabile, sfugge tuttavia alla passività e assume la sua responsabilità.

 

 

Anche quando un contenuto sembra imporsi e dettarsi alla scrittura. Colette Soler ci ricorda al proposito, rifacendosi a Lacan, che "il mito è più nobile della metafora romantica perché il mito mira a dire un vero che il simbolico non riesce ad attingere". 

Nell'Ulisse riverbera su una platea di personaggi di questo libro e della vita un titolo che è immediatamente mito — inteso come la prima parola, quando è ancora indistinta dall'essere. 

Secondo Mircea Eliade quel che per l'uomo moderno è la storia nella ricerca di una spiegazione del mondo, per gli antichi è il mito, con la sua indipendenza dalla razionalità, con le sue figure soprannaturali, col suo tempo, con la sua evanescenza ma che pure ciononostante ha un centro. 

Furio Jesi pensa il mito come produzione di un dispositivo mitopoietico detto macchina mitologica, la quale "è autofondante: pone la sua origine nel fuori di sé che è il suo interno più remoto, il suo cuore di pre-essere, nell'istante in cui si pone in atto". Il suo centro si perde nel vortice di un tempo immemoriale, in qualcosa che è esterno ad esso e al mondo degli uomini. 

 

Se la storia presenta fatti collocati in un tempo irreversibile, viceversa il mito consente alla narrazione di tornare indietro e riprendere ogni volta dagli inizi, ritessendone la trama. Joyce però non solo riscopre il mito ma anche l'origine autopoietica di ogni mito e la possibilità di riferirsi infinitamente a una mitopoiesi per creare su quella base mondi nuovi. Il dire di Joyce, il campo sterminato della sua estensione, è una sorta di macchina mitopoietica autofondante, che in nome della poesia e non della propaganda di altri poteri, anzi per contrastarli, porge nuove interpretazioni delle cose. 

La macchina mitologica sembra spontaneamente sorgere da un bisogno del tutto umano. Ma essa per sua natura non appartiene a Joyce, o solo all'artista. Mito e macchina mitologica sono espressione di una ragione diversa dall'usuale e al servizio di un potere, poetico o politico, che si esprime come potere linguistico. Il mito, con le sue figure e storie, non solo si sottrae alla temporalità, ma anche alla domanda se esso sia o no. Di esso, delle sue storie e figure, si dovrà dire piuttosto, con Jesi, che ha studiato a fondo la questione: «ci non è» e «ci non sono»: in un altro mondo, fuori dall'umano.

Il mito si sottrae alla dimensione dell'essere. Mentre invece sono del tutto avviluppati nella lingua, in una sorta di cerchio magico, e del tutto interni alla temporalità e alla storia, i popoli, le persone che ci sono, con le loro storie che ci sono. 

 

E si devono iscrivere fra queste mitologie le narrazioni come quella di Joyce, ogni racconto che parli di esistenze umane vissute fra esseri senza essere, quelle forme più o meno distinte e cangianti che la fantasia o l'intelligenza creano. Anche la psicoanalisi si può intendere come una macchina mitopoietica di cui Freud si serve quando non c'è altra forma che il mito per presentare all'umanità concetti nuovi. 

Sia Joyce che Freud alla crisi delle grandi narrazioni oppongono la ricerca di una quinta di senso che sostituisca le narrazioni coassiali a favore di quelle decentrate, plurime. Il mito fa da struttura per una narrazione che non ha più uno sviluppo consequenziale ma si disperde in una pluralità metonimica di piani e storie disposti su linee orizzontali. Non c’è più un mondo impostato secondo linee di ricerca e di sapienzialità metaforiche, che conducono verso l’alto alla ricerca di Dio. Il mondo è perduto nel suo senso abituale, e sono i suoi frammenti, le schegge che diventano mondi, e le parole stesse, che rimandano infine alla contemplazione di una sola realtà possibile, che è il libro in cui sono scritte.

Il mito è anche una speciale facoltà di allucinazione e fluidificazione perpetua della realtà. In questa seconda accezione il mito è all'opera ad esempio nell'episodio detto di Circe, in cui addirittura Bloom si fa donna che partorisce ed è vittima degli abusi di una mistress, Bella Cohen, mentre questa diventa pian piano un uomo con lo scorrere delle righe. 

 

In quest'opera geniale, che procede in modo apparentemente caotico, ma in realtà sempre sotto la guida di un piano dettagliato, Joyce è alle prese con un'energia straordinaria che deve dominare nel suo lavoro febbrile. Non mi pare che esista un concetto migliore, per spiegarla, di quello di duende, che Federico Garcia Lorca usò in una conferenza, intitolata Gioco e teoria del duende, tenuta il 20 ottobre 1933 a Buenos Aires. Il duende è turbamento o inquietudine, qualcosa di non comune che gli artisti e i grandi pensatori, ma non tutti, possiedono, che viene dall'interno del corpo, che sale dalla pianta dei piedi, come ben sanno i ballerini di flamenco. «Il duende è un potere e non un agire, è un lottare e non un pensare». Questo potere misterioso è lo spirito della Terra e si può sentire ma non si riesce a spiegare, «[  ] non è una musa, non è un angelo, ma si impossessa di voi, [  ] brucia il sangue come un tropico di vetri, che estenua, che respinge tutta la dolce geometria appresa, che rompe gli stili, che si appoggia al dolore umano inconsolabile, che fa sì che Goya, maestro dei grigi, degli argenti e dei rosa della miglior pittura inglese, dipinga con le ginocchia e i pugni con orribili neri bitume». Ci colpisce la sua capacità trasformatrice: «...L’arrivo del duende presuppone sempre un cambiamento radicale di tutte le forme. Ai vecchi schemi dà sensazioni di freschezza completamente inedite, con una qualità di cosa appena creata, di miracolo, che arriva a generare un entusiasmo quasi religioso».

 

E il nome mitico di Ulisse non è indirizzabile a questo o a quello, anche se si può vedere Ulisse nella figura di Leopold Bloom intento alla pericolosa navigazione della sua intensissima giornata di outsider ebreo, o nel marinaio "barbarossa" dell'episodio detto di Eumeo, che ha una donna che lo aspetta e che non vede da sette anni "stando sempre per mare". 

In realtà qui muore il soggetto inteso come personaggio, e si afferma al suo posto il soggetto dell'inconscio, un eterno Fregoli che si mette nei panni e nelle parole di chiunque compaia, uomo o donna, nel romanzo. Inafferrabile e incomprimibile nelle coordinate anagrafiche di una qualsiasi identità stabilita, è un'evanescenza istantanea e fugace eternamente ritornante che non ha genere, né cicatrici, né patria. Scompaiono così anche gli affetti, e in genere ogni effetto di soggettività. che dovremo sostituire con qualcosa d'altro che potremmo chiamare, con Lyotard, intensità. Il soggetto dell'inconscio è il nuovo profilo che si staglia in psicoanalisi con Lacan e in letteratura con Joyce, ed esso, pur quando collegato a un corpo e a un individuo umano, e pur se prossimo alla "persona", antropomorfo e anzi intuito come vicino a quell'altro che è in noi, con questa non coincide. E sul piano psicoanalitico non implica soggettività, né con essa sembra potersi rapportare, anche se ciò lascia aperti non pochi problemi per comprendere in che modo allora si debba pensare un'interazione fra contesto sociale e soggetto o soggetti, volendo avvicinare e incrociare la teoria astratta con la realtà, e l'inconscio con la persona in carne e ossa. 

 

Una volta fatta la sua apparizione e conquistato il suo posto mai definitivo né unico, e rivolgendosi al soggetto/individuo, e dunque anche al soggetto/Joyce, il soggetto dell'inconscio che si aggira per il mondo e nell'Ulisse interpreta noi e Joyce. E sorgono intanto altre questioni. I corpi/persona sono forse simulacri? Le persone corrispondono forse solo a pulviscolo iridato di particelle dai contorni polverosi e indistinti che assume di continuo nuove forme e configurazioni, sono anch'esse solo un succedersi istantaneo di apparizioni e di evanescenze sia pure con un corpo, l'effetto nel tempo/spazio del perpetuarsi di atti in cui il soggetto/persona si dichiara e fugacemente ogni volta esiste? Il soggetto e la persona, per quanto non identici, si incrocerebbero e si presenterebbero allora come un continuum solo nella rapida successione delle apparizioni, come nei fotogrammi di un film?

In alternativa, potremmo pensare ai personaggi come entità colte nella dimensione di ecceità, che si collocano in uno spazio e in un momento dato, ma non hanno che il nome proprio senza un cognome a individuarle, nella descrizione che possiamo mutuare da Deleuze e Guattari in Mille Plateaux. Ed è il moto, starei per dire browniano se non fosse psichicamente e linguisticamente necessitato, di queste particelle, di queste onde di linguaggio e di intensità, che chiameremo scrittura artistica, e romanzo. 

La ricerca delle forme canoniche da parte del lettore corrisponderebbe a una sorta di cecità per tutto il resto. Per leggere Joyce è richiesta una nuova capacità di visione per ben guardare nel caleidoscopio dei moti pulviscolari, e cogliere in essi il senso dei flussi, la curvatura e il moto ondoso delle intensità. La scrittura di Joyce fa capo a un inconscio che è struttura trascendentale, crea mondi di cose non isolati dal reale e dalla realtà, sfocia in produzione incessante e concreta.

 

Leopold Bloom in uno schizzo a matita di James Joyce


Nella sua turbolenza creativa, nel suo andamento erratico e anarchico, mimetico dell'inconscio, il modernismo in Joyce si fa rivolta simbolica contro la reificazione e la deumanizzazione, qualcosa cui la Grande Guerra aveva aperto le porte. 

L'enfasi non è più sul romanzo come forma creata e perfezionabile all'infinito, o come processo trasformativo dell'uomo e della società che rappresenta, ma è sul linguaggio stesso che alla fine ne appare il vero e unico protagonista, con la funzione forse di ricondurre a una unità originaria (allegoria e origine divina del linguaggio metaforico dell'arte). L'Ulisse è un prisma che frammenta il reale in una miriade di elementi; un solo evento si scompone in pluralità, innescando la miccia del potenziale instabile dei processi semiotici colti in un divenire. Il flusso di coscienza che si propone con la macchinazione della parola pone infine anche la domanda, raccolta da Enrico Terrinoni indagando la relazione di Joyce col pensiero di Giordano Bruno, se il linguaggio attraverso le sue infinite trasmutazioni possa catturare la pluralità dell'universo, se l'infinità del "chaosmos" possa rispecchiarsi nell'infinità della mente, se infine il linguaggio possa essere una traduzione infinita dell'inconscio. Ed è forse nell'approccio a questi enigmi che si rivela un altro risvolto degli interessi di Joyce, quello che lo lega a Giambattista Vico. 

 

Forse il senso universale della vita non va cercato nella storia, ma, come scriveva nel 1973 Stuart Hampshire sulla New York Review of Books, nelle narrazioni che la fantasia dei viventi ispira donando loro modelli che rispecchiano a ciascuno la sua immagine, la sua società. Il romanzo "può spiegare in prosa i modi della crescita emozionale degli individui, i modi dell'educazione sentimentale nelle città o della scomparsa di certi costumi nei paesi, o del graduale dispiegarsi della grande città come mondo moderno". 

E si può pensare che un uomo è esso stesso una città, una miriade di identificazioni immaginarie, di emozioni. L'unità del genere umano si può ricostituire, sempre con Hampshire, "non attraverso una storia controllata e rispettosa dei fatti, ma attraverso una filologia indomita, fantasiosa e di ampio respiro". E forse si può anche pensare che alla fine non sia nella narrazione classicamente intesa, e neanche nelle voci narranti talora impersonali, smembrate e frammentate che troviamo nella scrittura di Joyce, ma nel linguaggio stesso che consista il ciclo dei ritorni che non ripetono ma inventano mondo. 

Come ancora scriveva Hampshire, "la famiglia universale dell'uomo è il linguaggio, non le strutture sociali". 

 

All'Ulisse nel suo centenario sabato 9 aprile 2022 sarà dedicato il webinar A Sentimental Giorno. Ulisse interprete di Joyce, promosso da: Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, European Journal of Psychoanalysis, Istituto "Elvio Fachinelli"- Studi avanzati in psicoanalisi (I.S.A.P.),  Dipartimento di Filosofia della Sapienza - Università degli studi di Roma; a cura di Giovanni De Renzis e Pietro Pascarelli e con la partecipazione di: Giancarlo Alfano, Pietro Bianchi, Luciano De Fiore, Gabriele Frasca, Franco Lolli, Amalia Mele, Emanuela Mundo, Elisabetta Spinelli, Enrico Terrinoni. Progetto grafico e locandina: Giuseppe Zevola. Per partecipare al webinar (gratuito) occorre iscriversi alla newsletter dell'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici (IISF) al seguente indirizzo: newsletter@iisf.it. Si riceveranno così, in prossimità dell'evento, le informazioni col link per iscriversi alle iniziative dell'Istituto e fra esse al webinar su Joyce. 

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