Lynne Ramsay. ...E ora parliamo di Kevin

23 Febbraio 2012

Non vi aspettate che si parli davvero di Kevin, perché potreste rimanere delusi. Rispetto al titolo e al best-seller di Lionel Shriver da cui è ripreso, il film di Lynne Ramsay rappresenta un atto mancato: si dovrebbe, si sarebbe dovuto, parlare di Kevin, prima che compisse un massacro scolastico in stile Columbine alla vigilia del suo sedicesimo compleanno, ma il film arriva troppo tardi, e questo bisogno di parlare insoddisfatto finisce per lasciarlo ammutolito, per non fargli dire ciò doveva. Nel modo in cui smembra il romanzo e lo riduce a un tormentato collage di frammenti temporali, Ramsay dimostra che questa reticenza è invece funzionale a concentrare lo sguardo su Eva, la madre e voce narrante nel romanzo epistolare. Ma qui Eva perde la parola, l’intenzione razionale di scandagliare e ricostruire il passato, cercando colpe e ragioni, e trova un corpo, quello incarnato con nervosa maestria da Tilda Swinton. Un corpo che vaga come uno spettro in un presente purgatoriale e, piuttosto che ricostruirlo, viene invaso del passato, assorbito nel vortice del trauma che scompiglia cause ed effetti e fa collassare il tempo su un presente sussultante: spesso dobbiamo affidarci al taglio di capelli dell’attrice o al contrasto tra la lustra dignità borghese del passato e lo squallore del suo presente per raccapezzarci in questa temporalità caleidoscopica, in cui ruotano le schegge di uno specchio infranto, i riflessi feriti della memoria di Eva e le domande che la tormentano.

 

 

Anche se il suo “perché?”, rivolto al figlio in carcere, alla fine emerge per restare senza risposta, Eva sembra aver rinunciato alle spiegazioni, abbandonandosi a un calvario quotidiano di rituali espiatori, degrado e umiliazioni, subendo supinamente le aggressioni meschine di fanatici e benpensanti – un ritratto della bieca provincia americana che eccede lievemente nella caricatura, risentendo dello sguardo da autore europeo. Forse assumersi la colpa del gesto di Kevin rimane per Eva l’estrema risorsa per razionalizzare l’inaccettabile, o forse il marchio sociale di questa colpa rappresenta il sigillo del rapporto simbiotico e lacerato che lega madre e figlio e in cui risulta difficile isolare identità e responsabilità. “Io sono il contesto” dice Kevin a un certo punto, ed è vero: il film è “about Kevin”, ma questo gli si sottrae, la sua presenza è talmente dissolta nell’atmosfera, come fosse più un effetto di regia che un vero personaggio, da renderlo un punto cieco, un buco nero attorno a cui orbita il film, la condizione oscura e inappellabile di quanto ci è concesso vedere. Come per una genesi invertita, in questo tempo traumatico, Eva diventa un prodotto di Kevin e delle sue azioni, e ormai possiamo sapere qualcosa di lui soltanto attraverso il filtro di questa prospettiva distorta: siamo nella temporalità retroattiva dell’après-coup, in cui la sospensione e la lacerazione prodotta dalla catastrofe plasma le tracce della memoria e queste rivivono con violenza allucinatoria. Su questa emersione traumatica del passato si stabilisce il registro stilistico dominante, che purtroppo il film conduce all’eccesso, con una tensione da horror gonfia di presagi e abbondantemente screziata di rosso: un grand-guignol domestico, a base di salsa di pomodoro e marmellata, che perde di efficacia via via che si fa più insistente.

 

 

Gli accenti demoniaci che si insinuano in modo pretestuoso porgono il fianco al sarcasmo e il ritratto duro e spigoloso di una maternità riluttante, in cui aleggia la frustrazione della newyorkese in carriera e cosmopolita incastrata dalla famiglia e dalla provincia, resta offuscato da queste tonalità soprannaturali e (involontariamente) grottesche. Del resto è forse inutile stigmatizzare l’eccesso di fatalismo che intorbida ragioni e motivazioni, quando Ramsay non sembra affatto intenzionata a fornirne, preferendo inoltrarsi in una deriva patologica di riflessi e proiezioni, un gioco di specchi in cui l’identificazione è negata e riaffermata di continuo e la tendenza fusionale del rapporto madre-figlio si rovescia in un confronto distruttivo. Concentrandosi su questo nesso duale, rimuovendo ogni dettaglio che non riguardi il rapporto tra Kevin e la madre, Ramsay schiva astutamente i trattatelli sociologici sul nichilismo adolescenziale o sul rapporto tra natura e cultura: qui la natura domina incontrastata, la retorica del film sembra rendere talmente assoluto il male in Kevin, che diventa irrilevante capire se questi è davvero un mostro o lo è diventato. Piuttosto siamo portati a interrogarci sulla mostruosità che è anche in Eva, come se lo sguardo rettile del figlio (incarnato da due bambini davvero inquietanti e dal sulfureo Ezra Miller) diventasse uno specchio oscuro per la psiche della madre. E se la video-confessione del ragazzo sembra comunque allungarci una chiave sociologica, col solito discorso che lega violenza e spettacolo, celebrità e anonimato, bisogna notare come l’atroce spettacolo messo in scena dal ragazzo (che fortunatamente ci viene risparmiato) sia destinato meno alle persone che stanno davanti alla televisione cui si riferisce nel suo discorso, quanto a quella spettatrice esclusiva della sua crudeltà che è Eva, come l’ultima, velenosa offerta a lei dedicata.

 

 

Il talento della regista si conferma nell’intensità di alcuni dettagli e divagazioni nella trama visuale del quotidiano, nell’eleganza dei raccordi temporali e negli accordi stridenti fra immagini e tappeto sonoro, come quando vediamo Eva abbandonarsi al ‘sollievo’ di un martello pneumatico che copre gli strilli incessanti del marmocchio o quando si trova attorniata da maschere di Halloween che sfilano con la tintinnante Everyday di Buddy Holly in sottofondo. Purtroppo questi spunti felici finiscono per accatastarsi in un catalogo di vezzi autoriali e il film indulge troppo nella fascinazione per il suo tessuto visivo, che progressivamente perde di tenore drammaturgico, si sfibra e lascia scoperto soprattutto un simbolismo materico tanto pesante quanto privo di sostanza. Del resto questa esibizione insistita, per quanto possa irritare, non merita nemmeno di essere liquidata come puro compiacimento formalista o ingenua velleità manipolatoria. Nell’esplicita volontà di shock con cui Ramsay inquadra e monta il film potrebbe infatti risiedere la sua unica riuscita estetica, in quanto narrazione disgregata e paradossale di una condizione post-traumatica: allora l’aggressione sensoriale nei confronti dello spettatore si giustifica soprattutto come un tentativo di esprimere lo sconvolgimento psichico di Eva e, per quanto questo risulti a volte maldestro, almeno nell’interpretazione attonita e disincarnata della Swinton bisogna riconoscere una rappresentazione esemplare di soggetto shockato. Purtroppo il film, come i suoi personaggi, sembra restare intrappolato nel gioco di riflessi dell’immaginario, rifiutandosi di affrontare davvero l’irruzione del Reale che ogni trauma porta con sé.

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