Baruchello. Il cinema va servito freddo

21 Gennaio 2015

“Un tacchino congelato di produzione americana viene fatto a pezzi, sezionato e tritato. L’operatore, nudo, riconfeziona poi il materiale così ottenuto e lo ‘rispedisce al mittente’, dandogli cioè sepoltura in una minuscola bara.” Ripensando al bizzarro rituale qui abbozzato, poi messo in atto e registrato da Gianfranco Baruchello, ci si può chiedere se un simile trattamento non sia quello che l’artista ha sempre riservato al cinema, al suo linguaggio industriale e alle sue meccaniche associazioni d’immagini: farlo a pezzi, mostrarlo nudo e crudo. Il cinema va servito freddo: mentre osservo la pacata macelleria di Costretto a scomparire (1968) ripenso al titolo della personale di Baruchello alla Triennale, Cold Cinema, la prima a raccoglierne organicamente i film e i video come chiavi di lettura dell’opera nel suo complesso. McLuhan diceva che il cinema è un medium “caldo”, che assorbe l’attenzione dello spettatore concentrando i propri effetti esclusivamente e intensivamente su un senso, mentre freddi sarebbero media come la TV e il fumetto, che forniscono dati a più “bassa definizione” e richiedono maggiore partecipazione per completare il messaggio. Raffreddare il cinema, in questo senso, significherebbe innanzitutto metterlo a distanza, inibire “l’alta definizione” da cui il suo fascino irradia, renderlo meno coinvolgente e più partecipativo, decodificarne il linguaggio e immettervi rumore, appropriarsi del suo materiale e sovvertirne la tecnica.

 

Costretto a scomparire (1968)

 

Per quanto negli ultimi tempi il cinema appaia piuttosto raffreddato (dal moltiplicarsi dei dispositivi con cui lo si consuma come da tanti altri fattori), nella prima metà degli anni Sessanta, quando due artisti italiani decisero di fare a pezzi il cinema hollywoodiano per “rispedirlo al mittente”, il gesto suonava come una resa dei conti con una questione ancora calda, benché eseguita a sangue invidiabilmente freddo. Una “sottile vendetta, un pigro massacro cinematografico”: così Alberto Grifi, che ne è l’autore insieme a Baruchello, definiva la loro Verifica incerta (1964-65), operazione fondamentale per il cinema d’avanguardia tutto, non soltanto italiano. L’inizio del progetto è suggellato dall’acquisto di 150.000 metri di pellicola 35mm destinati al macero: una quarantina di film hollywoodiani degli anni Cinquanta in Cinemascope, cumuli di celluloide logorata dalle ore di proiezione, che sono ripassati dai due su un vecchio tavolo da montaggio in legno per otto mesi, smembrati e giuntati con nastro adesivo per brevi frammenti, in un film che dura 35 minuti e affastella immagini da commedie, film di guerra, western, senza alcuna consequenzialità, tra salti, ripetizioni, tic, scivolando su immagini senza più profondità, senza controcampo, in una continua dispersione che raggela ogni possibilità di senso.

 

Gli inserti con Marcel Duchamp che fuma un sigaro, uniche immagini filmate (da Baruchello) e graziate dalla violenza inflitta agli altri spezzoni, stanno a indicare, come una sorta di emblema, la prima radice della Verifica in un’applicazione del ready-made al materiale cinematografico. La riduzione del film da evento amministrato dalla narrazione a oggetto, footage, materiale filmato di cui disporre, è l’interruttore concettuale che apre possibilità infinite di ri-creazione all’interno dell’archivio cinematografico. Possibilità che sono già oltre il ready-made, perché la pellicola ricomposta non è solo un oggetto, ma, ancora, un film, una partitura di fotogrammi che prescrive la propria esecuzione: la performance con cui l’artista si appropria e si disfa del materiale sostituisce una narrazione decomposta e lasciata a incepparsi nei suoi ingranaggi. Il progetto originario prevedeva infatti che l’operazione non si concludesse col montaggio, ma con la proiezione e il successivo smembramento della pellicola in frammenti, che sarebbero stati distribuiti ai partecipanti in un vero e proprio happening, a cui si riferirebbe il sottotitolo Disperse Exclamatory Phase.

 

La prima proiezione avvenne a Parigi di fronte a decani dell’avanguardia come John Cage, Man Ray, Max Ernst e, ovviamente, l’amico Duchamp. L’azione, il rituale di distruzione della pellicola, non ebbe luogo, mentre il film venne poi ristampato dall’originale 35mm su pellicola 16mm, senza utilizzare una lente anamorfica nel trasferimento e stabilendo quindi la compressione orizzontale delle figure nella versione che tutti abbiamo visto: la grandeur del Cinemascope sgonfiata e appiattita nel formato che apparteneva tanto alla televisione quanto al cinema sperimentale e amatoriale. Come tracce di quel rituale mancato, accanto alla proiezione video del film, ci sono le tavole con le prove di montaggio: frammenti di pellicola costellati dalla minuscola calligrafia di Baruchello, note criptate di una sceneggiatura postuma, sorta dall’accostamento casuale dei fotogrammi, o dalla loro combinazione in base a serie numeriche, assonanze e ripetizioni visive. Nonostante gli autori giochino esplicitamente coi cliché dell’iconografia hollywoodiana, la Verifica non si perde nelle tipologie, nella malinconia collezionistica di tanti lavori di found footage che l’hanno seguita, ma opera impassibilmente sul residuo materiale della narrazione, dei suoi eroi, delle sue azioni e passioni: nella sua impietosa morale del giocattolo, il lavoro di Baruchello e Grifi sventra ogni interiorità, abolisce ogni significato delle immagini preesistenti e fa emergere un discorso neutro dal cozzare dei frammenti di significante.

 

Prova di montaggio - Verifica incerta (1964)

 

Il processo di montaggio, con la sua dialettica di decostruzione e ricostruzione, attraversa e consuma quest’opera come tutta la pratica di Baruchello, che ne fa un principio guida nell’attraversamento dei vari media, dal cinema al romanzo dal collage alla scultura. Nella prima sala, accanto ai frammenti di pellicola della Verifica incerta, si trovano le righe dattiloscritte e ritagliate per La quindicesima riga, libro collage composto nel 1966 prelevando e trascrivendo le quindicesime righe di quindici pagine di 400 libri. Dai fotogrammi della pellicola alle righe della pagina tipografica, dalle immagini alle parole, Baruchello riserva ai materiali culturali della sua epoca un trattamento di archiviazione e ricombinazione che ha molto a che fare con il cinema e la riproduzione tecnica. Da una parte la registrazione minuziosa di momenti apparentemente insignificanti, la trascrizione dei sogni, la cristallizzazione di giochi di parole e d’immagini. Dall’altra il risvolto enciclopedico di questa pulsione archivistica: connettere tutto con tutto, mettere disordine nell’immaginario collettivo, lavorando con la logica del sogno non tanto a creare nuove immagini quanto a disarticolare l’archivio di quelle esistenti; far sentire il vuoto che bisogna attraversare per connetterle l’una all’altra, come nero tra i fotogrammi o come il bianco che domina le tele e i disegni dell’artista, dove figure e scritte minutissime galleggiano disperse in una mappa mentale senza orizzonti.

 

L’indagine e la minuziosa registrazione dell’inconscio individuale si accompagna a un un utilizzo surreale delle tecniche della società amministrata e del suo materiale spettacolare, un lavoro sul sistema di segni diffusi dai mass media, che vengono elaborati con la crudezza di dettagli onirici: spostamenti e cortocircuiti come quelli tra cibo, merci e consumo, che reggono il dittico composto dal già citato Costretto a scomparire e Per una giornata di malumore nazionale (1968), dove Baruchello lava accuratamente in una vasca da bagno una gran quantità di monete che poi cucina e si serve in tavola. Osservati fianco a fianco nei monitor, col loro partito preso buñueliano e la gelida estetica procedurale che oggi può ricordare certi anonimi video di Youtube, questi due film restano ancora oggi indigeribili, e forse acquistano anche il retrogusto metallico di un piacevole sfregio alla pornografia del food che invade gli schermi televisivi e non. Altri due film attorno al 1968 sono intrisi dello stesso malumore, un senso di frustrazione che viene direttamente investito nel linguaggio cinematografico e televisivo: i trucchi svuotati e depotenziati nelle immagini sacrificali di Norme per gli olocausti (un piatto di spaghetti che prende fuoco, un uovo schiacciato da una ruota d’automobile, una mano inchiodata per finta a una tavola e cosparsa di smalto a simulare il sangue), la colonna sonora di Non accaduto, che crea una suspense ingiustificata sull’inquadratura di una giacca che oscilla appesa a una gruccia. Ma in questo senso il capolavoro di Baruchello sta inchiodato al muro di fronte, scritto sui fogli tratti dalla serie Una settantina di idee 1964-70 (2014): puro cinema mentale fatto di annotazioni, visioni oniriche o programmi per un uso politico del materiale inconscio attraverso i mezzi di riproduzione tecnica, progetti concepiti e per lo più irrealizzati, ma del tutto compiuti, esauriti nella loro concezione ed elencazione.

 

L’elaborazione del materiale onirico come le serie numeriche, i giochi linguistici, le operazioni aleatorie che vanno da Dada a Fluxus, sono tutti processi, combinatorie che si esauriscono in choc materiali, irruzioni nei codici dello spettacolo, dell’informazione, delle merci: “happening al supermercato”, come Baruchello chiamava le collisioni tra parole, come Palle e spilli (1960), associazioni basate su omofonie e assonanze e precipitate in assemblaggi di oggetti concreti, recuperati in un centro commerciale e immortalati sotto una teca di plexiglas, un metodo che non può non ricordare ancora Duchamp e ancor prima il “procedimento” con cui Raymond Roussel ha scritto alcuni suoi libri. Quelle di Baruchello sono davvero Avventure nell’armadio di plexiglass, titolo di un altro romanzo sperimentale edito da Feltrinelli nel 1968, composto da annotazioni oniriche associate, almeno per la serie che vediamo, a un’immagine ritagliata da una rivista. L’armadio di plexiglass è lo stesso spazio raffreddato e disinfettato delle sue scatole, che non conservano l’aura nostalgica di quelle di Cornell, ma operano un prelievo e congelamento del tempo: i contenitori dei Leftovers (1975) preservano gli oggetti più disparati accumulatisi sul tavolo dell’artista alla fine di ogni giornata, depositi trasparenti di confusi frammenti diurni, fotografie tridimensionali di uno spazio interno, messe in teca e poi meticolosamente svuotate un anno dopo, come documentato in Inventario d’ottobre (1976).

 

Palle e spilli (1960)

 

L’archiviazione dell’istante qualunque, insignificante, come quello conservato dall’impersonale scansione dei fotogrammi, diventa al tempo stesso il presupposto di una ricerca filmica che non ripete il gesto tecnico del montaggio, ma ne ritrova piuttosto le tracce nella realtà stessa: montaggio interno, dato nel mondo, a partire dagli scarti e dalle discontinuità che lo costituiscono. Così Il grado zero del paesaggio (1963) e Grano (1974-75), sono riprese statiche di una Super8 rivolta alle onde del mare su una spiaggia e su un campo di grano nelle sue fasi di maturazione. La ricerca di un ritmo nelle cose stesse, attraverso la paziente misurazione e archiviazione del tempo, è un tema che percorre anche molti video degli anni Novanta: da Tic Tac (1998), che gioca a trovare orologi nel movimento naturale o meccanico, all’angoscia cronometrica, da conto alla rovescia, che sembra emergere nelle enumerazioni di Quanto (1999) e Quaranta immagini (1996). Il tempo perduto alla misurazione diventa visibile in Rétard (1996), nella mano dell’artista che regge un contasecondi e segna tautologicamente il tempo che passa tra due inquadrature di paesaggio identiche fra cui si inserisce: ritardo materiale (“un ritardo in vetro” diceva Duchamp), tempo di scarto che determina la non-identità di due immagini e il principio del loro mutamento.

 

Questo ticchettio d’orologi sembra dissolversi nell’ultima sala, uno spazio se non meno freddo, senz’altro più liquido e immersivo, permeato di immagini e parole che galleggiano sul filo tra il sogno e la veglia, dove ancora una volta archiviazione e montaggio dirigono il trattamento del materiale: su tre pareti una selezione di cento carte da In Store, che raccoglie trascrizioni grafiche di immagini oniriche, mappe e dissezioni dal tratto morbido e nitido, sempre immerse nel bianco e commentate da iscrizioni semi-leggibili. Sulla parete di fondo, scorrono le immagini virate in blu di Tre lettere a Raymond Roussel (1969-70), i cui tre capitoli (Limbosigne, A little more paronoid, La degringolade) sono qui proiettati contemporaneamente a tre canali: su immagini trovate o girate da lui stesso, lasciate fluttuare tra sovrimpressioni e associazioni libere, Baruchello monta registrazioni della sua voce, mentre tenta di recuperare le immagini di un sogno o è ancora nel dormiveglia. Con l’omaggio a colui che aveva fatto della lingua una macchina celibe di associazioni che producono immagini, si chiude un percorso perfettamente riuscito nell’assemblaggio dei propri materiali; unico appunto: la scelta di lasciare l’audio aperto, e quindi troppo basso e impastato in ragione dello spazio relativamente ristretto, penalizza la piena fruizione di alcuni lavori, mentre risulta affascinante in quest’ultima sala, dove le tracce gracchianti della voce di Baruchello si fondono in un brusio elettrostatico che sembra provenire da un sottomarino disperso.

 

Gianfranco Baruchello: Cold Cinema. Film, video e opere 1960-1999

Triennale di Milano, 10 dicembre 2014 – 22 febbraio 2015

A cura di Alessandro Rabottini

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