Mary Quant: Life was a whizz!

15 Aprile 2023

“La vita è stata un lampo! È stata così divertente e inaspettatamente meravigliosa nonostante, o forse proprio a causa della sua intensità... siamo state persone fortunate ad avere grandi occasioni e a saperle cogliere. Facevamo anche baldoria: non c'erano limiti reali”. Sono le prime righe dell’introduzione di Quant by Quant, l’autobiografia di Mary Quant scritta 53 anni dopo la prima edizione, per la ristampa del 2019 diffusa contestualmente alla bella retrospettiva organizzata dal Victoria and Albert Museum. Fate attenzione alla polisemia del termine whizz, perché le varie accezioni di rapidità, magia, e genialità sembrano riassumere al meglio Mary Quant.

In queste righe postume, Quant si esprime in prima persona plurale perché il racconto della sua ascesa al successo inizia dall’incontro con il suo compagno di vita e di affari Alexander Plunket Greene, che la incanta con il suo stile gender fluid. Alexander va a scuola indossando i pigiami di seta della madre, e per Quant rappresenta l’incarnazione del nuovo che rincorre da quando, a sei anni, sceglie il cucito per sopperire a una situazione economica tale da non poterle permettere un guardaroba vasto come vorrebbe. Quant’è pervasa dall’etica dell’avanguardia perché la crede l’unica strada per smarcarsi dal bigottismo della generazione precedente, o almeno dai limiti imposti dai suoi genitori. Sperimentare per contrastare il gusto corrente è una delle tante trovate geniali che costellano l’esistenza di Quant, resa interessante dalle lezioni di navigazione in dinghy per famiglie benestanti, al primo mascara resistente all’acqua. Solcare il mare del Pembrokeshire in Galles – luogo d’origine della famiglia Quant – non è tanto distante dal creare indumenti e cosmetici atti a semplificare l’essere donna; hanno in comune la rivendicazione della libertà. Quant sa che la moda deve comunicare con le altre arti – musica, cinema, fotografia, pittura – e deve essere in grado di restituire la complessità identitaria della gioventù. Difatti, a più riprese asserisce che è stata la strada a chiederle di cucire la prima minigonna da vendere in negozio, non lei a inventarla. Perciò si può riconoscere a Quant di aver portato lo streetwear in vetrina, precisamente in quella di un Bazaar di Chelsea, con la minigonna a capo della progenie di capi così nuovi e potenti da far tremare tutto il resto. Cambiano la silhouette e le parti del corpo coperte/scoperte, l’eleganza delle aristocratiche inglesi viene minacciata dallo “youthquake”, il terremoto della gioventù, con epicentro a Chelsea, Londra. 

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Mary Quant, 1966.

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Sfilata di moda di Mary Quant a Utrecht, 1969.

Quant trova il suo massimo appagamento nello scuotere violentemente ciò che la circonda: la liberazione del corpo, l’ampliamento della sua mobilità, devono essere espresse congiuntamente dall’inorganico e inanimato, bisogna rivoluzionare anche le modalità espositive dei negozi di abbigliamento. Con un amico scultore realizza manichini in pose dinamiche, fortemente angolari e culturalizzate, che ricordano quelle assunte da Jane Shrimpton, il non plus ultra della bellezza delle giovani britanniche. Le modelle non erano solo un corpo che indossava abiti, ma un corpo-modello socializzato, un ideale a cui ispirarsi, che doveva vivere al di fuori delle pagine di Vogue. Per Quant la donna alla moda possiede uno stile personale capace di anticipare istintivamente qualsiasi tendenza. I vestiti servono solo a enfatizzare un modo di essere poi consolidato dalla corporeità. Nella sua autobiografia, Quant difende strenuamente la moda, osservando che rinnegarla a vantaggio dell’intellettualità mostra un’intelligenza limitata: nessuno vieta alla donna di essere colta, madre e sensuale, se ben vestita. 

Da qui lo scontro tra square – persona seriosa – e Mod, e le continue polemiche sulla moralità delle nuove lunghezze. Nonostante le svariate accuse, la minigonna sovverte il processo di nascita delle mode, e, suo malgrado, diventa un’arma a doppio taglio perché per la prima volta nella storia compare un capo che non può essere esibito da signore, poiché adatto soltanto a ragazze giovanissime, addirittura acerbe. 

Lunghezza o brevità non sono naturalmente connesse all’erotismo, alla sensualità e alla blasfemia, è la loro connotazione arbitraria che le qualifica come tali. Non a caso Roland Barthes usa la minigonna per dimostrare che “non esiste un rapporto stabile tra forma e contenuto”, bensì solo storie create per appassionare o indignare. Ogni indumento racconta qualcosa di chi l’ha creato e del tempo che abita, fondando la sua sopravvivenza sulla quantità di giudizi di valore espressi nei suoi confronti. Coperto e scoperto continuano a essere al centro delle maggiori diatribe storiche e culturali. Che si tratti di capelli o di gambe, il fulcro del discorso è cosa si può fare mostrando di più.

La minigonna contiene le gambe e le libera, ampliando il loro poter fare, e, al contempo, funge da superficie d’iscrizione memoriale, perché con Quant diventa emblema di rivoluzione e innovazione. L’assunto vale, in generale, per tutto l’abbigliamento, in quanto dotato di proprietà connettive che diffondono senso mediante il principio di armonia degli accostamenti, realizzati a partire da un determinato stile, individuale o indotto. Abbigliamento, corpo e accessori sono associati per asimmetria o simmetria, quest’ultima, sempre secondo Barthes, ricorrente in momenti di immobilità e conservazionismo. In effetti, la minigonna stravolge le linee del corpo e l’assetto degli indumenti, rendendo asimmetriche le passate concezioni di volumi, identità, configurazioni e supporti.

Alla minigonna vengono attribuiti una serie di valori volatili, riferiti alla cultura e al punto di vista da cui si osserva l’indumento, per veicolare un’appartenenza, un modo di essere, un’età della vita. La minigonna parla di un decennio di storia, della voglia di camminare e ballare liberamente, della necessità di ribellarsi, funzionalità comunicative e pratiche che dopo circa settant’anni sembrano quasi stucchevoli. E allora quanto creato sulla scorta di una grammatica solida, si modifica diventando un segno debole, soggetto a intenzioni ostensive o imitative. 

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Mary Quant si fa tagliare i capelli da Vidal Sassoon, parrucchiere simbolo della Chelsea Revolution. 

Della minigonna-segno di Quant oggi resta il potere generativo. Miu Miu, ad esempio, ha scalato la top five dei brand di moda di maggior successo del 2022 lanciando una micro-minigonna che copre 14 cm di epidermide, mentre Diesel ha acquisito visualizzazioni e seguito con una cintura-minigonna. Novità e shock sono proporzionali alla cortezza? Probabile, però con un lato oscuro. I corpi modello di microgonna vestiti sembrano quasi imporre un’inversione a U alla svolta della body positivity, anche se la permanenza dell’inclusive-washing nel sistema moda ci vorrebbe far pensare il contrario. Ho letto vari articoli entusiasti della microgonna Miu Miu – pubbliredazionali? –, accomunati da un triste epilogo in cui le nuove lunghezze del quotidiano vengono celebrate solo se godute nel comfort dei display degli smartphone e non sui corpi “normali”. Gonne troppo corte per essere funzionali? 

Così facendo si tradisce lo spirito originario della minigonna che, sebbene sia diventata iconica addosso a una donna nota per essere magra come un ramoscello – Twiggy – viene ideata da Quant per sovvertire i poteri dominanti, sottraendo lo scettro delle tendenze ai ricchi a vantaggio di una gioventù disorientata e squattrinata. 

Per fare il punto della situazione, ho seguito Umberto Eco e le sue stra-citate attribuzioni di significato alla minigonna correlate alla cultura di appartenenza, elencate da sud a nord, con l’obiettivo di evidenziare in un decalogo semiserio una certa immobilità simmetrica del senso comune:

  1. la minigonna non veste bene se si supera la taglia 42;
  2. non si addice alle persone over 35 (over 30 da Roma in giù) compresa Mme Brigitte Macron;
  3. crea scompiglio se non si è una celebrità o content creator;
  4. nuoce alla sicurezza perché rende preda di malintenzionati;
  5. segnala uno stile di vita libertino;
  6. suggerisce secondi fini;
  7. è adatta a pochi luoghi, forse solo alla discoteca e alla spiaggia;
  8. veste meglio le gambe senza cellulite asiatiche, nordiche o maschili dei cosciotti delle donne mediterranee;
  9. il suo abbinamento con o senza calze non è determinato dalla temperatura, bensì dalle tendenze in atto;
  10. mal si accorda con l’intellettualità.
  11.  

La permanenza dei significati attribuiti alla minigonna non è gradevole, soprattutto nella contemporaneità del fashion shaming, cioè del considerare il vestito come causa dell’effetto.

I pregiudizi sulla minigonna confermano quanto possa essere inutile far finta di non voler comunicare nulla con gli indumenti e gli accessori che indossiamo. 

Si tratta di incastrare le interpretazioni e i segnali dell’universo. Mary Quant scopre la formula del successo guardando il mondo, carpendo al momento giusto i segni delle mode, sperimentando su sé stessa le cose più impensabili, come adoperare un maglione da bambino per lanciare i top a costine, o, ancora, indossare una canottiera a rete su un abito formale e poi lanciare la tendenza del vedo/non vedo che ancora oggi sembra essere così “nuova”.

Mary Quant ha saputo tradurre un’atmosfera e, anche se la sua avventura nella moda è durata un lampo, è stata pura magia. 

Note bibliografiche

Eco, Umberto (1972).  “L’abito parla il monaco”, in AA.VV., Psicologia del vestire, Bompiani, Milano, pp. 5-25.

Quant, Mary (1965). Quant by Quant. The autobiography of Mary Quant, Cassell & Co., London. Riedito nel 2019 con illustrazione da V&A Publishing.

In copertina,“Mary Quant”, 6 aprile 2019 - 16 February 2020 V&A South Kensington, Londra.

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