“Yekatit 12” / I massacri del 1937: Addis Abeba e Debre Libanos

17 Febbraio 2021

È da tempo che ci si pone il problema di ripensare il “calendario civile” italiano ricordando anche i crimini del colonialismo del giovane Regno d'Italia e le successive atrocità delle “avventure” imperiali fasciste del ventennio, deliberatamente rimosse nelle narrazioni mainstream e nelle immagini semplificate della memoria pubblica, come è avvenuto nel caso delle recenti “scuse” della famiglia Savoia per le leggi razziste antiebraiche del 1938 che ignorano completamente la questione coloniale, riproponendo persino nei toni e nel lessico ulteriori problemi concernenti l’“italianità”. Facciamo nostro il recente appello del collettivo Wu Ming, perché il 19 febbraio diventi una data significativa della memoria pubblica italiana. Per fare i conti con una delle pagine più terribili della storia nazionale. 

 

1937. “Yekatit 12”, il dodicesimo giorno del mese di Yekatit, corrisponde al 19 febbraio. Il Viceré d'Etiopia Rodolfo Graziani subisce un attentato. Due partigiani eritrei lanciano otto bombe a mano sulle autorità italiane: i morti sono sette e i feriti una cinquantina, tra cui lo stesso Graziani che però ne esce vivo.

I soldati italiani sparano indiscriminatamente sulla folla, provocando una prima strage. Graziani ordina che vengano attuate «le misure idonee a impedire eventuali ripercussioni», e che si agisca «col massimo rigore al primo manifestarsi di moti» (come riporta un resoconto presente nell'Archivio dell'Ufficio dello Stato Maggiore dell'Esercito), e Mussolini in un telegramma chiede un «radicale repulisti» – una piazza pulita. Ed è così che alcune migliaia di italiani – sia civili che militari – si lanciano in una terrificante “caccia” all'uomo che passerà alla storia come il massacro di Addis Abeba. Un poliziotto etiope, uno dei testimoni oculari della strage, avrebbe ricordato gli italiani che entravano nelle case dei locali e che, al grido di «Buongiorno!», li uccidevano a colpi di baionetta o di fucile, o li bruciavano vivi – quando i bambini scappavano dalle case in fiamme, gli italiani li lanciavano di nuovo dentro. È una carneficina.

 

Solo il trapelare delle notizie fino in Europa, attraverso i corrispondenti esteri, fa sì che il governatorato italiano imponga di cessare le violenze, che comunque proseguono. Vengono bruciati i cadaveri a migliaia, e continuano le rappresaglie, gli arresti indiscriminati e le torture. La strage conosce varie fasi, e va oltre i confini della capitale.

Indignato per la ferocia del massacro e non immaginando che altri stiano scattando delle fotografie che contribuiranno a lasciare traccia dell'avvenimento, il medico ungherese Ladislas Shashka, autore della più completa ed esplicita testimonianza che sia stata mai ritrovata a proposito di quei giorni – e riportata in Ian Campbell, Il massacro di Addis Abeba. Una vergogna italiana –, scrive che «le fiamme illuminavano la notte africana», e poi:

 

«Per la prima volta nella mia vita temo che qualcuno possa dire che sto mentendo. È per questo che desidero far ricorso alle testimonianze per provare ciò che ho detto, che è certamente davvero incredibile. Vorrei che molte persone potessero guardare quella fotografia che una Camicia nera si è fatta scattare da un suo camerata. È una perfetta rappresentazione della civiltà italiana: una Camicia nera con un pugnale in mano, circondata da una famiglia di abissini morti, padre, madre e tre bambini. Un’altra Camicia nera ritenne necessario trasmettere la sua immagine ai posteri mentre teneva in mano la testa mozzata di un abissino».

 

 

Lo storico britannico Ian Campbell, al termine di una ricerca durata decenni, ha stimato che le vittime delle sparatorie e dei roghi, nel massacro che coinvolge la città di Addis Abeba e i dintorni, sono circa 19.000, e cioè che la “caccia” uccide un abitante etiope su cinque della città. E la cifra lievita se si calcolano – oltre ai ribelli – gli indovini, i cantastorie, gli stregoni e gli eremiti che vengono successivamente massacrati a loro volta, perché osano preconizzare la fine della dominazione italiana in Etiopia raccontando, tra le altre cose, l'epica vittoria di Adua, quarant'anni prima. Il solo corpo dei carabinieri, tra febbraio e maggio 1937, passa per le armi 2.509 persone, come scrive in una relazione un suo colonnello. E proprio a maggio è il turno del monastero di Debre Libanos: i monaci cristiano copti accusati (senza prove consistenti) di collaborare con la resistenza etiope vengono portati in una piana che dà su un burrone, dove la comunità religiosa viene annientata: i morti sono 452 secondo i documenti italiani, circa 2.000 se ci si affida alle stime degli storici. Lo stesso Graziani, rivendicando lo sterminio, scrive di aver fatto «tremare le viscere di tutto il clero», e che i religiosi da quel momento capirono «la necessità di desistere dal loro atteggiamento di ostilità a nostro riguardo, se non volevano essere radicalmente distrutti».

 

Ma la resistenza, con le armi e in varie altre forme, sarebbe continuata. E con essa il tentativo di impedire i contatti, inevitabili, tra colonizzatori e colonizzati. Le stragi vengono seguite dalla promulgazione delle prime leggi razziste: il primo decreto, firmato dal re Vittorio Emanuele III (diventato anche “imperatore d’Etiopia”) il 19 aprile 1937, vieta i matrimoni tra cittadini italiani e sudditi delle colonie (Sanzioni per i rapporti d'indole coniugale fra cittadini e sudditi), e i decreti successivi delineano una rigidissima separazione “razziale”: si innalza «la barriera del colore», come rileva lo storico Nicola Labanca. Dunque sono vietate le unioni legali tra italiani e abitanti del luogo, ma questo non significa che gli italiani non abbiamo rapporti sessuali, spesso non consenzienti, con le donne etiopi, considerate alla stregua di oggetti di proprietà dell’Impero. Anzi, una delle ragioni per cui si partiva era propria la speranza di “conquistare” (con la forza, se necessario) qualche “faccetta nera”, “bella abissina” (come recita una canzone estremamente popolare dell'epoca). Quella coloniale era un’“avventura” prevalentemente maschile, perché maschi erano i protagonisti del fascismo, della guerra, dell’annientamento del nemico, nessuno escluso – uomini, bambini e donne.

 

Ed è verso queste ultime che la conquista si incarna in violenza sessuale e umiliazione: è verso le donne che si perpetra il maggiore e più ambiguo disprezzo. Madri, mogli e figlie vengono brutalizzate, predate, usate come oggetti da soldati fascisti ubriachi di propaganda. Il disegno complessivo del fascismo ha al centro un suo progetto di “uomo nuovo” che prevede la sottomissione delle donne e l'incentivo delle famiglie (tradizionali) numerose. Il fascismo sta educando un’Italia prolifica pronta a schiacciare chi non è ritenuto parte della comunità. 

 

«Il colonizzato è diventato solo il suo corpo. Un corpo bello da possedere o un corpo brutto da annientare» afferma Igiaba Scego, scrittrice italiana di origini somale. Perché se razzismo e de-umanizzazione sono alla base di molti processi di guerra, con il fascismo queste idee iniziano a diffondersi ed essere legittimate a livello sociale anche in Italia, in tempo di pace; la propaganda, le leggi, le immagini parlano chiaro: ci sono esseri umani che non vanno considerati come tali, oggi tocca agli etiopi e ai libici, domani chissà. Ma tra i soldati italiani nelle colonie ce n’è anche qualcuno che a questa narrazione non può credere, i fatti lo smentiscono: si innamora, mette su famiglia, ed è per combattere questo tipo di unioni che dallo stivale si legifera. Certo è che, nonostante sporadici tentativi di integrazione clandestina, l’immaginario della conquista dell’“uomo bianco” sulle donne e gli uomini neri segnerà in maniera indelebile le società interessate dal colonialismo e i loro sviluppi materiali e psicologici, con conseguenze che sopravvivono ancora oggi.

 

L'articolo è stato pubblicato per la prima volta su lastoriatutta.org (21 febbraio 2020)

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