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Studiare, conoscere, frequentare / Le mode, il gusto e la questione contadina

5 Settembre 2017

 

Paradossale, ma nelle varie mode che di volta in volta si susseguono e si alternano nel mercato enoico e gastronomico, l’elemento fondamentale che dovrebbe orientarle manca totalmente: il gusto.

È vero che il gusto attiene al singolo individuo, ma resta il fatto che il gusto potrebbe essere educato, ma questo avviene raramente, e ancor più grave è il fatto che non viene preso in considerazione se non marginalmente.

Oggi le mode vanno per categorie di esclusione: no allo zucchero, no ai carboidrati, no al glutine, no alla carne, con l’esplosione dei vegetariani e dei vegani. Anche il vino ha i suoi fautori del “no”: quelli che lo vorrebbero analcolico, quelli che lo vorrebbero con data di scadenza obbligatoria in etichetta, quelli che lo vorrebbero “leggero” o che “non mi dia il cerchio alla testa”, addirittura ci sono quelli che lo vorrebbero pieno di difetti purché siano quelli cui sono abituati, per non parlare dei fautori del tetrapack, del tappo a vite, della capsula.

 

Mai nessuno che si batte per averlo buono. Magari lo vogliono genuino, senza definire cosa significhi.

Così il Treccani:

Genüino agg. [dal lat. genuinus, der. di genu «ginocchio»; riferito in origine al figlio che il padre riconosceva prendendolo sulle proprie ginocchia, fu sentito poi come affine di gignĕre, genus, ecc., donde gli usi traslati]. – Non alterato, non sofisticato, quindi vero, schietto, autentico, naturale: vino g.; prodotti g. di fattoria; documento g.; anche di cose astratte: sentimenti g.; notizia g., che viene da fonte sicura e perciò esatta; un riso g., schietto, spontaneo, e così una frase, un’espressione g.; talora con riferimento a persona: ha un carattere aperto e g.; è una ragazza veramente genuina. 

Non alterato, non sofisticato. Ottima cosa la genuinità, anche se preferirei che si definisse seriamente cosa si intende per non alterato e non sofisticato.

 

Ho bevuto vini “genuini” pessimi, vinificati da vignaioli incapaci che hanno fatto crescere vigne moralmente false. Come confrontare una vigna che produce 200 quintali ad ettaro con una che ne produce 36? Ovvio che la mano dell’uomo ha la sua parte in commedia. E, insieme all’uomo, il costo di produzione. Sono tutti elementi determinanti per ottenere un gusto migliore.

Una bottiglia di aranciata per legge deve contenere il 12% di succo d’arancia (l’Italia aveva legiferato per il 20% ma l’Europa ci ha ricondotti al 12%), e la possiamo trovare intorno agli 80/100 centesimi al litro; una bottiglia di vino deve contenere il 100% di succo d’uva (e l’uva mediamente costa più dell’arancia), poi il vino deve fermentare, e questo prevede del lavoro ulteriore, deve essere elaborato da macchinari costosi, deve invecchiare in botti che costano anch’esse, soprattutto le modaiole barriques, e questo significa incassare anni dopo la vendemmia. Come fa ad essere genuino un vino se viene messo in commercio ad un prezzo molto simile a quello dell’aranciata?

Arrivo al punto. Dobbiamo mettere il gusto al centro delle ipotesi modaiole. Solo educando il gusto usciamo dal pantano dell’omologazione.

 

Werner Bischof - Farmers Inn. Puszta plains. Hungary,1947

 

E questo significa educare il cliente e contemporaneamente rispettare il lavoro del vignaiolo. Quindi prevedere un costo congruo alla fatica e all’investimento che il vignaiolo fa.

Spesso gli amici e i parenti, conoscendo la mia esperienza in campo enologico mi chiedono dei consigli, mi pregano di indicare una bottiglia per loro, poi la volta successiva mi dicono che non l’hanno presa perché costava troppo, ne hanno presa una “simile”.

Spesso mi dicono: ho accettato il tuo consiglio, ho preso il Barbaresco, ma di un’altra marca che costava moolto meno.

 

Oppure mi chiedono cosa ne penso dei prodotti biologici, biodinamici; cosa ne penso dei vegetariani, dei vegani, del cibo spazzatura e la mia risposta è sempre la stessa: Di chi? Che ne penso di un vino di chi? Di un piatto di chi? Di quale persona?

Cosa ne penso di un hamburger? se è un hamburger di fassona di Silvio non è spazzatura, se è la cucina di Jaia non è vegana, è alta cucina, così col vino.

Certo è meglio che sia biologico. Come scrisse Veronelli, la agricoltura vera è di per sé biologica, non esiste una viticoltura che non sia biologica. Esiste una buona viticoltura e una pessima viticoltura e bene fa il mercato a cominciare a distinguere e mettere dei paletti per sfrondare il mercato stesso dalle ciofeche che spesso lo inondano; anche dalle ciofeche biologiche.

 

L'agricoltura non può non essere bio. Se no, non è agricoltura.

I trattamenti? Quelli che servono per migliorare la qualità. La contraddizione come sempre sta nell'obbiettivo. Bisogna avere contezza che natura e cultura si contrappongono, che l'abilità umana, la sua cultura appunto, ha il compito di piegare la natura, che da sempre il contadino ha lottato, ma a quale fine? Secondo quale volontà? Non certo quella di sfruttarla fino alla spoliazione! Invece è trionfante la volontà di rispettarla in modo da farne uscire la migliore qualità possibile.

Mi si chiede chi, negli ultimi anni, ha migliorato il suo businness. Ebbene la risposta è netta: chi ha lavorato meglio.

Chi ha coltivato la vigna, chi ha eliminato da ogni singolo ceppo i grappoli di troppo, quelli meno maturi, quelli che risultavano mal nutriti, chi ha ottenuto rese per ceppo contenute, chi non ha sovraccaricato la terra, chi non ha seguito le mode mettendo a dimora barbatelle di cultivar di altre zone, chi insomma ha difeso la terra. Chi inoltre in cantina ha tenuto tutto lindo e pulito, chi ha controllato le temperature di fermentazione, chi non ha avuto fretta di imbottigliare. 

 

Insomma i nomi più noti, i Consorzi più seri, sia per le aziende di ridotte dimensioni sia per quelle più grandi, hanno avuto successo e vendono senza sentire troppo i morsi della crisi economica che ci ha attanagliato per un decennio. Sono invece crollati quelli che speravano di competere abbassando i prezzi, aumentando la loro fatica, non la loro qualità, anzi spesso a dispetto della qualità stessa.

Ci sono però da fare due considerazioni entrambe amare: la prima che i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, e questo danneggia il consumatore medio che considera il vino un bene voluttuario e decide di spendere meno; questo fatto ha favorito il successo dei vini e dei cibi più cari, non sempre i più buoni: La favola che “costa tanto quindi deve essere buono” è dura a morire. La seconda considerazione è data dalla globalizzazione dei mercati. Infatti se da una parte la globalizzazione ha permesso anche al piccolo contadino di trovare un mercato al suo prodotto, dall’altra ha permesso una concorrenza internazionale per cui molti piccoli sono stati fagocitati da multinazionali che vendono prodotti tecnicamente accettabili ma privi di identità.

Che fare allora?

 

Si ritorna all’inizio, al gusto. Educare il gusto.

Dobbiamo imparare a scegliere e per farlo è bene rinunciare prima di partire a scegliere un vino per fare bella figura. I vini specchietti per le allodole sono nomi vuoti. Meglio evitare di comprare un Rolex cinese, che non è preciso, che si rovina se va sott’acqua anche se siete in superficie, anche se sembra autentico, e, se siete persone normali, meglio evitare anche il Rolex vero. Non compriamo Rolls Royce o Ferrari, accontentiamoci di una buona marca adatta alle nostre esigenze, ma che sia recente; che sia comoda piacevole, che inquini poco; così il vino: un Barolo o un Brunello che costa 10 euro sono come i Rolex cinesi, un Barolo vero di qualità di buona annata necessariamente supera i 60 e può arrivare facilmente a 200 euro. Non è necessario prenderlo per bere bene. Quando conoscerete e amerete il vino proverete anche ad investire cifre grosse per il piacere, una tantum, di una bottiglia eccezionale, ma intanto, se non siete esperti, meglio scegliere un Refosco, o una Barbera, o un Fiano, cercando il produttore che vi sembra il migliore, che conoscete meglio. Studiando, e assaggiando, si impara, mettendo in conto errori e cadute.

 

Rispettare la cultura contadina significa conoscerla, frequentarla e remunerarla; rifuggire dall’acquisto di damigiane di un contadino che mi dà il vino a 2 euro, doc e buonissimo. Ci metto la pastiglia per conservarlo e me lo imbottiglio da solo.

È come comprare una tela e dei pennelli da Van Gogh e mettersi a dipingere la notte stellata.

Comprate bottiglie finite: chiuse e firmate. Il vignaiolo si assume con la sua etichetta la sua responsabilità. Comprate in occasione di passeggiate, viaggi, scegliendo dai vari territori e imparando a conoscerli.

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