Speciale

Conversazione con Marco Revelli / Povertà, status sociale e beni relazionali

 

È stato presentato di recente il “Rapporto Coop 2017” (si legge all’indirizzo www.italiani.coop) sulla vita quotidiana degli italiani curato dall’Ufficio Studi COOP. Sono dati che fotografano la situazione dei consumi, ma anche quella economica delle famiglie italiane. Il 28,7% delle famiglie è a rischio povertà e esclusione sociale, un italiano su 4, poco lontano dal 35,7% della Grecia. Mentre i consumi crescono: più 1,2%. Domina l’ossessione della salute e della rincorsa al benessere: cosmesi e chirurgia estetica; poi emerge l’abbandono progressivo delle religioni tradizionali a favore di forme più soft di spiritualità (buddismo, yoga, vegan); si fuma meno e anche il desiderio sessuale sembra in calo; si mantiene alta la propensione al gioco d’azzardo, una vera piaga sociale. Il 68% si dice disposto a farsi curare dai robot; mentre aumenta il timore per le catastrofi ambientali e quello verso l’immigrazione. Il cibo terapeutico è in cima alle ricerche alimentari degli italiani e il “carrello del lusso” supera l’8% di crescita nel primo semestre dell’anno. Ne abbiamo discusso con Marco Revelli, sociologo, storico e politologo. Dal 2007 è presidente della Commissione di indagine sull'Esclusione Sociale (CIES). Insegna all’Università degli Studi del Piemonte Orientale. I suoi ultimi libri sono: Non ti riconosco più. Un viaggio eretico nell’Italia che cambia (Einaudi 2016) e Populismo 2.0 (Einaudi 2017). 

 

Il rapporto Coop comincia dalla povertà, fornisce un rapporto che immagino tu conoscerai, visto che ti sei occupato a lungo di questo tema: un italiano su quattro è a rischio povertà. Cosa significa “rischio povertà”?

 

Ci sono molti indicatori della povertà che spesso si confondono l’uno con l’altro. L’espressione “rischio di povertà” è usata da Eurostat, l’istituto di statistica europeo, ed è una misura intermedia che come dice la parola stessa non misura in valori assoluti la dimensione della povertà, la misura come distanza da una media che è considerata invece la media disponibilità di spesa degli individui e delle famiglie del Paese.

 

Puoi tradurlo in termini concreti? Significa che chi rientra in questo rischio non può andare al supermercato, non ha l’auto, non fa le vacanze…

 

Queste sono le misure di privazione assoluta. La povertà assoluta è misurata da un paniere di beni che sono considerati il minimo indispensabile per condurre una vita dignitosa. È in povertà assoluta chi non può fare due pasti normali al giorno, chi non può permettersi un tetto sulla testa e quindi pagarsi una casa, chi non può spostarsi liberamente e quindi non ha i soldi per i trasporti e non ha mezzi di trasporto. Sono beni e servizi stimati indispensabili. Questo pacchetto di beni ha un valore diverso a secondo della parte del Paese in cui si risiede. A Milano il costo di questo set di beni e servizi è alto; in un piccolo comune della Sicilia è molto più basso, in un capoluogo di provincia ha un valore relativo. Al Nord, al Centro e al Sud cambia. L’Istat ha costruito una tabella con molte variabili, per ogni tipologia di famiglia e di località c’è un valore. Chi sta sotto quel valore misurato in euro, è un povero in senso assoluto.

 

Quanti sono gli italiani in questa condizione?

 

Sono 4 milioni e mezzo. Come si legge molto chiaramente nel Rapporto Coop sono raddoppiati dal 2008 al 2016. Sono quasi 2 milioni di famiglie, in prevalenza famiglie numerose, famiglie con minori, e questa è una piaga della povertà italiana per cui i minori sono la zavorra che portano a fondo le famiglie; la presenza di uno o più minori è la situazione che determina sovente la discesa sotto la soglia. 

 

Perché?

 

In Italia non esistono servizi, non esistono sussidi, non esistono politiche di sostegno. La povertà minorile è la piaga italiana, noi siamo agli ultimi posti in Europa riguardo a questo.

 

E il “rischio di povertà” cosa comporta? 

 

Quelle che Eurostar definisce a “rischio di povertà” sono le fasce di popolazione che hanno una spesa mensile media o una disponibilità di reddito che si colloca o al 60% o al 50% o al 40% rispetto alla media nazionale. Se la media nazionale è 2000 euro al mese è considerato a rischio di povertà chi ha solo il 60 o il 50 o 40% della cifra; dipende dalla scelta di quale soglia si vuole evidenziare nel calcolo statistico. Equivale un po’ al concetto di povertà relativa che in Italia l’Istat registra. È relativamente povero o in condizioni di povertà relativa quella coppia che ha una spesa media mensile pari al 50% delle coppie “normali” o pari a un singolo. Si tratta più di una misura di esclusione sociale che non di povertà. Chi si trova in questa situazione, ma vive in un contesto molto solidale con l’orto, con un vicinato che si aiuta, potrebbe anche non essere una persona a cui mancano molte cose, ma come capacità di acquisto si trova lontano dalla media dei suoi simili, quindi è un “diverso”. 

 

Quanti sono in Italia queste persone?

 

Più di 8 milioni, tre o quattro volte una città come Milano.

 

In questi dati ci sono anche gli stranieri che vivono in Italia?

 

Sì, sia nella povertà assoluta che in quella relativa. L’Istat li registra. Gli stranieri sono gli svantaggiati tra gli svantaggiati.

 

Hai dei dati di incidenza degli stranieri?

 

Ho dei dati sull’incidenza della povertà relativa tra gli stranieri. Una incidenza più del doppio di quella italiana. Non esistono dati sulla povertà degli stranieri rispetto alla popolazione italiana. Averli comporterebbe dei problemi complessi, la possibilità di censirli tutti, per esempio.

 

A fronte di questi dati negativi che evidenziavi anche tu, il rapporto Coop ci dice che continua il trand positivo nei consumi: sono aumentati…

 

Prima di risponderti vorrei aggiungere una cosa sulla deprivazione, che nel Rapporto Coop è utilizzato a ragione: è una misura reale che si colloca a metà tra la misura della povertà assoluta e la misura della povertà relativa. È considerato deprivato chi accumula più di quattro fattori di deprivazione: chi non è in grado di alimentarsi adeguatamente con un pasto almeno due volte alla settimana, e così via; ma anche chi nel corso dell’anno non ha fatto nessuna vacanza o chi dichiara di far fatica ad arrivare alla fine del mese. Ci sono una serie di indicatori di deprivazione. Chi ne accumula almeno quattro è considerato deprivato. Un deprivato potrebbe anche essere uno che non è in condizione di povertà relativa, infatti la percentuale dei deprivati è maggiore della percentuale dei poveri relativi, ma per una serie di ragioni famigliari, ad esempio perché ha un disabile a carico, perché ha la coppia di anziani con l’Alzheimer e metà del suo reddito gli va in badanti, perché nel suo quartiere non c’è l’asilo nido e la moglie non può lavorare, sono tutti fattori che determinano questa situazione, anche se tu tecnicamente non saresti un povero assoluto o un povero relativo. Sei un deprivato.

 

E a fronte di questa situazione che stai descrivendo, dice il Rapporto che crescono i consumi…

 

Molto interessante il ragionamento che viene fatto nel Rapporto, sia a fronte dell’estensione, e crescita, non tanto della povertà relativa ma quella assoluta, su questa discrepanza. Ma anche in rapporto alla crescita del PIL, della ricchezza complessiva, perché in alcune fasi i consumi risultano in rapporto alla crescita generale, il che significa che le famiglie intaccano i risparmi.

 

Ricorrono al prestito…

 

Questo è l’elemento strategico che conferma e approfondisce un fattore potenziale di crisi e di costruzione di bolle. La crisi del 2007 e del 2008, la sua dimensione, è stata determinata proprio da questo: una curva delle remunerazioni e una curva dei consumi che si sono aperte a forbice, mentre le remunerazioni sono rimaste al palo o addirittura sono diminuite, la curva dei consumi ha continuato a crescere, in modo addirittura preoccupante. C’è un interessantissimo rapporto di Mario Draghi su questo di più di sette anni fa, che mostra esattamente il grafico con questa apertura. Com’è possibile che i consumi crescano con una dinamica prima dell’impatto devastante della crisi così superiore alla dinamica dei redditi? È il credito, in particolare il credito al consumo, dall’uso dalle carte, dalla concessione senza controllo dei mutui, e così via. Qui entriamo nel meccanismo che ha innescato la crisi, ma questo vuol dire dagli anni Ottanta in poi. In tutto l’Occidente, non solo in Italia, i salari si sono raffreddati. Possiamo individuare una data globale: il settembre del 1979, il discorso di insediamento di Paul Volcker, Governatore della Federal Reserve, nominato da Carter, non ancora da Reagan. Tiene il suo discorso d’investitura in una situazione del capitalismo internazionale molto grave; eravamo nel pieno della stagflazione, cioè nella situazione di stagnazione, se non di depressione caratterizzata da alti tassi di inflazione, superiore alle due cifre. Volcker dice: è finito un lungo ciclo iniziato nel 1929, quando il primo punto dell’agenda di tutti i governi era la piena occupazione; si viveva con l’incubo delle file dei disoccupati davanti agli uffici di collocamento nelle metropoli americane, e poi europee. Per cinquant’anni questo è stato il primo obiettivo dei governi: sostenere l’occupazione accettando e sostenendo una dinamica salariale calda. Da oggi si cambia, dice il Governatore, il primo nemico diventa l’inflazione. Mettere sotto controllo l’inflazione, abbatterla, voleva dire sfondare la rigidità salariale, ovvero entrare a piedi uniti nella composizione sociale e nel mondo del lavoro, diminuirne o annientarne il potere di contrattazione. E così è stato fatto. Quello che ha fatto poi Reagan era in qualche misura scritto in quel discorso d’investitura: la delocalizzazione, lo smantellamento della cintura dello Steel Belt dell’acciaio, la fine di Detroit e delle grandi concentrazioni industriali, la fine di Torino, dell’Alsazia-Lorena, della Ruhr.

 

Tutto questo come si rapporta con l’aumento dei consumi?

 

Questo attacco frontale al salario e in generale al reddito da lavoro ha marciato di pari passo con la coazione al consumo. Il problema era: continuare a sostenere i consumi, anzi farli crescere. E questo è stato l’altro must delle élite governanti ed economiche e politiche: il sostegno dei consumi in una situazione di remunerazioni stagnanti. Il primo discorso che fa Bush dopo l’11 settembre, dopo l’abbattimento delle Twin Towers, non invita gli americani alla guerra, quello lo farà dopo. La prima cosa che dice è: uscite di casa e andate a comprare. Come garantisci la crescita quasi illimitata dei consumi senza salario e senza remunerazione? Con il credito. Sostituisci al reddito il credito. Il meccanismo dei subprime ha funzionato come grande macchina di generazione di ricchezza virtuale, per cui gli americani con il mutuo compravano la casa, la casa aumentava di valore, la vendevano incassavano il surplus, pagavano il mutuo, facevano un nuovo mutuo maggiore, compravano una casa di maggior valore, e questa cresceva ulteriormente, e producevano denaro senza lavoro. Il meccanismo è stato questo e poi le carte di credito hanno fornito un impatto enorme. Siamo arrivato alla soglia della crisi del subprime in cui c’erano nazioni in cui la popolazione era indebitata per il 70-80% delle proprie possibilità.

 

Dalle prime righe del Rapporto emerge che l’oggetto del desiderio non è più tanto la casa, bensì la salute, e che il cibo è ora parte sostanziale del benessere in generale. Questo cambiamento introduce a tuo avviso qualcosa di nuovo?

 

Introduce senza dubbio qualcosa di nuovo che sta totalmente dentro questa nuova struttura sociale nella quale c’è una parte di popolazione che sta sotto le soglie, una parte, molto ampia, che sta a metà della scala del reddito sociale e anche dello status, stagnante come reddito, e una parte sempre più sottile che schizza in alto. Questo è il meccanismo che ha governato l’ultimo quarto di secolo e forse di più. Da una struttura a botte, nella quale c’era una piccola e media porzione sul culmine in alto, una grandissima pancia, un ceto medio che si era alimentato assorbendo una parte della classe proletaria che si era “cetomedizziato”, per usare l’espressione di De Rita, e una parte piccola di poveri. Questa era la struttura nel trentennio dopo la fine della seconda guerra mondiale. Il 900 maturo è stata questa cosa qui. Prima si è asciugata la pancia e una parte consistente, come nella clessidra, è scesa ad allargare la base, l’esercito degli impoveriti, e poi si è anche assottigliata la punta; la punta si è molto allontanata, è molto salita verso l’alto, una bottiglia alla Modigliani con un lunghissimo collo, in cui il vertice è salito alle stelle. Questa dinamica dei consumi riflette una situazione nella quale c’è una parte di società che esce fuori, che scende in basso, che consuma junkefood, quella che va ai discount, che non si cura della salute perché come ha teorizzato Amartya Sen la povertà è una perdita di progettualità su se stessi: povero è chi non ha più la capacità di progettare su se stesso la propria traiettoria sociale, in primo luogo su ciò che mangia, sul proprio corpo. E poi c’è una parte medio-alta di società, quella che ha mantenuto una capacità di spesa, di acquista che si qualifica, a differenza dell’esercito della povertà, a partire dalla composizione del proprio paniere della spesa.

 

 

Che quantità numerica ha questa parte medio-alta della società attuale in Italia?

 

Dobbiamo parlare d’indice di status e non tanto di indicatore di reddito per identificarla. Sempre di più tu sei quello che mangi, tu sei il tuo sistema di relazioni sociali; la conversazione quotidiana ruota intorno a questo, il sistema delle amicizie e delle relazioni si costituiscono in palestra, si costituiscono sul campo da golf, al tennis.

 

Ma non è sempre stato così?

 

Il ceto medio non si qualificava necessariamente su questo negli anni Sessanta e Settanta. Si qualificava sullo status professionale, la scolarizzazione, se vuoi le letture, il vicinato; ancora adesso in buona misura dove abiti dice chi sei. Il processo di gentrification sta dentro questo meccanismo. Questo tipo di consumi, che sono beni relazionali, prima ancora che beni finalizzati all’alimentazione o all’abbigliamento, che producono sistemi di relazione…

 

Sono dei luoghi?

 

Sì, luoghi che ti qualificano e che entrano nella tua biografia e che ti rendono quello che sei. In presenza di un processo di impoverimento, che è il fenomeno con cui ci misuriamo oggi, non è l’emergenza povertà il problema principale. Quello che ha caratterizzato il ceto medio è un processo di stagnazione del reddito d’impoverimento. In questo processo chi deve selezionare i propri consumi tenderà a sacrificare una parte di consumi essenziali pur di salvare i beni relazionali.

 

Puoi fare qualche esempio?

 

La famiglia che fino al 2005-2006 era benestante, perché il marito manager di una media impresa guadagnava parecchie migliaia di euro, la moglie impiegata con un ruolo di quadro intermedio o esecutivo, che portava il suo contributo: 2000-2.500 euro che entravano in famiglia, per un totale di 7-8-10.000 euro al mese, e si era comprata la casa con il mutuo, anche bella, a un certo punto deve dimezzare il proprio bilancio perché la moglie perde il lavoro, perché i benefit del marito diminuiscono, o addirittura viene licenziato. Ho conosciuto tanti ingegneri che da un mese all’altro sono finiti in cassa integrazione, in lista di mobilità. Costoro taglieranno tutto, ma non la palestra, o il circuito alimentare, rinunceranno alla carne, diventeranno magari vegani, e continueranno a consumare nei luoghi in cui vengono venduti questi beni, così come per i figli non rinunceranno alle scarpe firmate, che sono un simbolo di status, e che gli amichetti e le amichette riconoscono, non rinunceranno all’ultimo modello di smartphone, sacrificando alcuni beni essenziali, magari la cultura in qualche caso, cioè tutto ciò che non produce conferma di uno status che invece si è eroso, ed è sceso. Questa situazione produce ricollocazione nel sistema dei desideri e dei bisogni, ma produce anche mentalità e politica.

 

Qualche esempio? 

 

Non c’è dubbio che la sindrome populista è in strettissima connessione con i processi di estensione della deprivazione e soprattutto con il meccanismo dell’impoverimento. Non lo definirei disagio sociale, è un’espressione ambigua, perché richiama categorie di ieri. Quello che accade è qualcosa di diverso dal disagio sociale, è quello che determina l’atteggiamento rancoroso, rabbioso, frustrato, depresso, che sta al di sotto di questi nuovi comportamenti politici. Se tu sovrapponi le mappe del voto con le mappe della velocità di scorrimento delle aree territoriali, trovi una corrispondenza quasi perfetta. Là dove restano aperte piste a scorrimento veloce e dove l’ascensore sociale continua a funzionare in modo non così spaventosamente selettivo, e riesce a trainare verso l’alto una parte consistente di popolazione, si ha un voto pro establishment; là il meccanismo di ascesa sociale si è rotto, o si è aperto un piano inclinato che comunica un senso di deprivazione, e che non è solo deprivazione materiale, è deprivazione di status, di senso di sé, di autostima, di riconoscimento, di essere all’interno del racconto sociale prevalente, là dove questo non avviene, tu hai lo smottamento.

 

Quanto a tuo parere è reale o quanto è immaginaria questa caduta?

 

Il senso principale della caduta, come ho scritto su doppiozero commentando il voto torinese, è la narrazione. Se tu sei dentro o fuori dalla narrazione prevalente o quasi unica che viene fatta.

 

Quali sono i fattori che fanno sì che questo venga percepito dalle persone?

 

Il senso del fallimento. Basta niente. La paura è in conseguenza di un senso di nientificazione, di nullificazione. La sensazione di essere “rien”. Cosa sono? Niente. Perché il racconto sociale parla di altro e io non ci sono dentro. Il racconto sociale parla di un paese che tiene, di opportunità che si aprono, di voltar pagina, di cambiare passo, e io non riesco a cambiare passo, e resto al margine, e sono fallito. Se io sono fallito, c’è la depressione, e vado tra gli scoraggiati oppure c’è la chance della rivolta: se sono fallito è colpa di qualcuno, che mi ha portato via quello che mi spettava. Chi è questo qualcuno? O sono le multinazionali o quelli dei vaccini o dei farmaci o la lobby ebraica. Ma questi sono lontani. Oppure il marocchino che ha degradato il mio quartiere, il nero che immagino stia nell’albergo 5 stelle, e allora: perché a loro sì e a me no? E parte lo sguardo trasversale, il malocchio invece dello sguardo verticale. L’invidia dei poveri. Sono i serbatoi dell’odio di cui parla Sloterdijk che crescono, non ci sono più le banche dell’odio che lo stoccavano, la Chiesa e i partiti che promettevano in modo differito nel tempo il momento in cui tutte le cose sarebbero tornate in equilibrio, la giustizia…

 

La promessa del futuro è passata dai partiti alle carte di credito?

 

Quando la banca ti dice: il suo credito è esaurito, tu sei nulla.

 

Già, ma la carta di credito è verificabile, mentre le ideologie non lo erano.

 

Però con la carta di credito hai le esplosioni non differite dell’ira, che sono il flashmob contro il Tiburtino tre o la ronda contro le prostitute che hanno fatto crollare il valore immobiliare della tua residenza. Un’ira molecolare che non viene più differita ma che esplode.

 

Questi fattori esistevano già, ma com’era gestito il conflitto sociale? Che tipo di narrazione funzionava?

 

Funzionava un’immagine verticale del conflitto, pur nella infinita complessità dei conflitti s’immaginava una verticalità. L’operaio Fiat che non ce la faceva più sulla catena e che si prendeva la multa, se riusciva a mettersi insieme agli altri andava sotto la palazzina degli uffici o in Corso Marconi e urlava a Valletta, ad Agnelli, a Romiti, alla figura apicale di turno che stava nello stesso territorio e era attingibile. La tua ira aveva un suo oggetto materiale che stava sopra di te. Poi c’era il terrone con cui prendersela; il piemontese che difendeva il suo status contro il terrone, ma veniva riassorbito dentro la verticalità, anche politicamente. La dialettica maggioranza-opposizione era comunque una dialettica verticale e chi si sentiva sotto poteva in qualche misura attraverso il voto sfidare chi stava sotto e sperare. Oggi questo è saltato completamente. Il conflitto è tutto orizzontale o, quando è verticale, è verso il basso. Io che ho perso la mia autostima come lavoratore perché la mia professionalità non vale più niente o non viene più considerata, ho perso una parte del mio reddito, non posso più permettermi quello che ci permettevamo come reddito famigliare, io maschio che ho perso il mio status perché le donne ci ridicolizzano…

 

Nel rapporto non solo si dice che le persone oggi sono ossessionate dal problema della salute, ma che il desiderio sessuale è diminuito: si vendono meno profilattici.

 

È il 6% in meno nelle vendite, ma mi apre che anche i siti porno siano meno visitati. Anche se raccolgono una parte consistente di traffico, sono in riduzione.

 

Quel desiderio dove va?

 

In risentimento. La libido frustrata va in risentimento o in auto sabotaggio, va in psicofarmaci. Le vendite schizzano in alto. Una società che deve curare la propria frustrazione da declassamento.

 

Ma c’è un’altra cura a tutto questo?

 

La cura sta nel discorso che abbiamo fatto prima. Parliamo un attimo di Torino, la città dove vivo, dalla mappa. Oggi servono più le mappe che non le tabelle statistiche. Mi ero riproposto di ricostruire la mappa dei conflitti sociali e capire dove si esprimono. E sono andato a cercare le vecchie statistiche degli scioperi che avevo usato negli anni Settanta. Ho scoperto che l’Istat dal 2009 non censisce più gli scioperi. La statistica degli scioperi in Italia si inaugura nel 1892 perché il codice Zanardelli aveva depenalizzato lo sciopero e la nostra nascente statistica ha cominciato a registrare. Tolto il periodo fascista, in cui lo sciopero era vietato, abbiamo la serie statistica che arriva sino al 2009 e poi l’Istat comunica che il rapporto costi e benefici è diventato sfavorevole e non vale più la pena di spendere soldi per censire le giornate di sciopero, le ore, la dimensione, il numero. Nessuno fa queste statistiche oggi in Italia, mentre la povertà sono in tanti che la misurano. Le raccolgono ancora nel Regno Unito e il Dipartimento del lavoro americano. Sono precisi: mettono i principali scioperi e sono per lo più nel settore dell’assistenza medica, nei servizi e nei trasporti. Questo per dire un altro elemento, per dire come ci è cambiato il mondo intorno. Torniamo alle mappe. Queste parlano coi colori. Per esempio il ballottaggio alle amministrative o quella del referendum promosso da Renzi, sono perfettamente sovrapponibili. Disegnano un centro pro establishment, che a Torino ha votato Fassino e ha fatto prevalere il Sì, poi hai a macchia d’olio, dal centro verso la semi-periferia, una non clamorosa prevalenza dell’Appendino e una media prevalenza del No, poi la periferia per il 60-70% 5Stelle e No. Lo stesso a Roma. Se prendi la mappa dei Municipi di Roma, anche lì Parioli e centro pro establishment e periferia pro 5 Stelle; e c’è una correlazione con il reddito medio: man mano che scende, cresce il voto di vendetta, non di protesta. Chi vota per far male a quello che ritiene sia la causa dei suoi male o colui che avrebbe dovuto rappresentarlo e non l’ha fatto. Meccanismo del Michigan per Trump. Votavano tradizionalmente democratico e questa volta tu che dovei rappresentarmi, rappresenti gli altri: Hollywood, Amazon, Silicon Valley, Wall Street, e io voto per il più brutto e il più sporco e cattivo che c’è. Perché ti faccio più male. Questo è il meccanismo.

 

Qual è l’anticorpo possibile?

 

Se tutti questi problemi non dipendono solo da una variabile sociale, socioeconomica, legata al reddito, ma da qualcosa che attiene più strettamente all’identità delle persone, dall’autostima, quello che ha fatto la differenza è il discorso pubblico: chi si sente dentro e chi si sente fuori, chi si sente raccontato dal discorso pubblico e chi non si sente raccontato, o chi invece si sente raccontato dalla invettiva pubblica. Non c’è un altro racconto dall’altra parte, ma una invettiva pubblica. Mentre c’è un racconto edificante degli avatar che stanno nei posti di responsabilità politica e i loro referenti mediatici. Quel racconto edificante che dice che le tue opportunità sono infinite, ti esclude. Se si crede a quel racconto, l’escluso si sente un fallito.

 

Il tuo ragionamento si basa sul fatto che una fetta sempre crescente di popolazione non crede a questa narrazione, ma di cosa è fatta questa narrazione? Esiste davvero come esisteva un tempo? Per esempio, le agenzie di valori, la Chiesa di Papa Francesco, il volontariato, fanno parte anche loro di una narrazione pubblica, e allora come è possibile identificare così esattamente una narrazione?

 

Quando parlo di narrazione pubblica mi riferisco alle voci potenti o alla politica, i governanti, al racconto fatto dai governanti, che poi non si è rivelato giusto, com’è accaduto a Torino. Il racconto romano e torinese. Il racconto televisivo dei talkshow accreditati, il racconto del Presidente del Consiglio quando va da Bruno Vespa. Il racconto che viene accreditato formalmente come autorevole e che di fronte al disagio diffuso viene totalmente destituito di autorevolezza, ma in quel momento lascia le persone sole, perché non hanno autorità a cui riferirsi, e quindi alimentano i serbatoi dell’ira. Senza una proposta alternativa. L’antidoto? È il ritorno a una narrazione del basso. Un nuovo patto scrittori e popolo. Esiste una letteratura che ritorni a raccontare il sociale tale che chi lo abita si possa riconoscere e possa assumere la propria controfigura dentro una narrazione accreditata? Oppure il minimalismo dei narratori contemporanei ha cancellato questa possibilità? Se non si riparte da una operazione culturale in cui gli esclusi tornino a essere inclusi, ma non manzonianamente, ma recuperando una vena da grande letteratura europea, si scrivono libri in cui si dice: come sono orrendi gli abitanti delle Vele, che fa sensazione, produce dopamina nel leggere. 

 

Ti riferisci a romanzi come quelli sulla banda della Magliana o simili?

 

Il noir sociale non funziona perché conferma gli inclusi su quanto sono orrendi gli esclusi.

 

Ma non è abbastanza logico che sia così? Se la realtà è quella che racconti, è abbastanza naturale che gli scrittori raccontino questa situazione. I libri di Walter Siti sono così.

 

Vero. Ma l’impoverimento del ceto medio chi l’ha raccontato? Il ceto medio come poteva essere raccontato da Mastronardi, la sua crisi esistenziale, chi la racconta oggi?

 

Ci sono libri di giovani narratori sulla condizione del precariato, Falco ad esempio, tanti libri sulla condizione giovanile. Un’intera generazione si riconosce in questi libri. Il modello letterario prevalente resta Siti. Ho letto lo splendido romanzo sul capitalismo finanziario, Resistere non serve a niente. L’ho trovato straordinario, l’intreccio criminale economico-finanziario. Ma non dice niente agli esclusi attuali, non ci sono. Quelli di Vanchiglia, quelli che vivono l’erosione del proprio ruolo, la loro marginalità. A loro non dice nulla. C’è una bella descrizione della nuova morale delle élite dominanti, di chi sta in cima alla piramide.

 

Non produce reazioni o ripulsa? Produce ammirazione secondo te questa narrazione?

 

Orrore e ammirazione. Il mito di Briatore è questo. Produce persino desiderio d’identificazione. Mi piacerebbe essere in quel giro, sniffare coca, avere quelle donne, e così via. Si tratta di una droga sociale. Non è Zola. Non voglio dire che occorre ritornare al realismo. Se però non si afferma una dignità di racconto “normale”, non dell’eccesso, che socializzi il disagio, che riveli quanto di comune ci sia nel disagio con gli altri, si continua a fare maquillage della propria condizione sociale.

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