Sulla dicotomia interfaccia-database

9 Dicembre 2013

Nel suo articolo Tesi sul racconto lo scrittore e teorico letterario Ricardo Piglia propone l’idea che “un racconto narri sempre due storie”. Nel caso del racconto classico (Edgar A. Poe, Horacio Quiroga), per esempio, lo scrittore “narra in primo piano la storia 1, e segretamente costruisce la storia 2. L’arte del narratore consiste nel cifrare la storia 2 negli interstizi della storia 1. Una narrazione visibile ne nasconde una segreta, raccontata in modo ellittico e frammentario” (Piglia n.d.). Ogni narratore gestisce in modo diverso il rapporto tra storia 1 e storia 2; tuttavia, la Seconda tesi di Piglia è che “la storia segreta sia la forma del racconto”.

 

Giotto, Cappella degli Scrovegni (1303-1305)

 

Il presente articolo propone di pensare la (famosa) dicotomia tra interfaccia e database in termini di un rapporto tra storia 1 e storia 2. Con questo obbiettivo due approcci diversi ma possibilmente complementari saranno considerati: quello di Lev Manovich e Antonio Caronia.

 

Secondo Manovich “creare un’opera in new media può essere inteso come creare un’interfaccia che permetta l’accesso a un database. […] Il database diventa il centro del processo creativo nell’era dei computer. Gli oggetti new media consistono in una o più interfacce al database di materiali multimediali” (Manovich 2001: 20).

 

Michelangelo Buonarroti, Cappella Sistina (1508-1512) Screenshot: http://www.vatican.va-various-cappelle-sistina_vr-index.html

 

Di conseguenza l’interfaccia diventa una “narrativa interattiva” che permette all’utente di attraversare il database seguendo il proprio percorso. Ad esempio, nei sistemi operativi Mac o Windows la narrativa della “scrivania” favorita viene preferita in opposizione ad un database nascosto. Come spiega Manovich (2001: 10):

 

Anche se gli oggetti new media si presentano come narrative lineari, narrative interattive, database o altro, al di sotto, al livello della organizzazione materiale, sono tutti database. […] Più precisamente, un database può supportare la narrativa, ma non c’è niente nella logica del medium stesso che favorisca la sua generazione. Non sorprende allora che i database occupino un territorio significativo, se non il più vasto, nel panorama dei new media. Quello che sorprende ancora di più è perché nell’altro estremo dello spettro — le narrative — esistono ancora nei nuovi mezzi.

 

L’ipotesi di Manovich è che la dimensione narrativa (lineare) persiste perché la logica dominante del ventesimo secolo è quella del cinema. A questo punto bisogna aggiungere che la logica del cinema non è l’unica logica narrativa dominante. Le narrative sono pervasive nella cultura occidentale, filtrano le esperienze quotidiane in modo analogo a quello in cui i nuovi media filtrano tutta la produzione culturale, e aiutano anche a capire il mondo, a fare più accessibile lo sconosciuto.

 

Non è un caso allora che diversi teorici che investigano e scrivono su letteratura e narrativa abbiano anche affrontato temi che riguardano la tecnologia, o meglio, abbiano usato la letteratura e la teoria narrativa come modelli per capire meglio e cercare di spiegare non solo quello che i soggetti fanno con la tecnologia – reale o immaginaria – , ma anche quello che la tecnologia fa coi soggetti. Solo per nominarne alcuni: Brenda Laurel (1991), Janet Murray (1997), Katherine Hayles (1999, 2002, 2005, 2008), e in Italia, Antonio Caronia (2006, 2010). Nello stesso modo in cui la realtà virtuale funziona come un modello per la cognizione umana a molti livelli diversi, le narrative, le storie, i racconti di qualsiasi tipo sono in senso stretto una delle prime realtà virtuali create dall’uomo: il linguaggio, per così dire, è uno dei primi strumenti che permette la creazione di altri mondi.

 

Se il predominio di un paradigma temporale, lineare, cronologico coincise con l’ascesa della storia come disciplina umanistica nel diciannovesimo secolo, attualmente la logica del digitale sta riportando il paradigma spaziale, simultaneo, non lineare che era stato relegato allo status di cultura minore, o pop – come i comics, ad esempio (Manovich 2001). Ciò nonostante gli antecedenti di questo paradigma nella cultura occidentale risalgono a diversi modelli, come alcuni cicli di affreschi ecclesiali, specialmente nelle cappelle, e in altri modelli spaziali immersivi che permettevano una lettura non lineare, e che allo stesso tempo che puntavano, con questa stessa “tecnica immersiva”, a un maggiore coinvolgimento emotivo dell’osservatore – esattamente come la realtà virtuale.

 

Screenshot: http://www.metmuseum.org/works_of_art/collection_database/

 

Analogamente, e seguendo ancora Manovich, le dinamiche tra database e interfacce possono essere paragonate al modello semiotico del paradigma e del sintagma, secondo il quale gli elementi di un sistema possono essere messi in relazione in due dimensioni: sintagmatica e paradigmatica.

 

Screenshot: http://archive.newmuseum.org/index.php/Detail/Occurrence/Show/occurrence_id/930

 

Negli oggetti culturali “tradizionali”, come la narrativa e il cinema, gli elementi della dimensione sintagmatica sono espliciti, i.e. si leggono tutte le parole appartenenti ad una frase; mentre la dimensione paradigmatica è implicita, i.e. tra tutte le scelte possibile tra tutti i sinonimi di una parola, solo una viene incluse nella frase. Di conseguenza, la dimensione sintagmatica ha una certa “materialità”, mentre quella paradigmatica rimane “potenziale” o virtuale. Tuttavia, nei new media questo rapporto viene invertito: il database è presente, perché tutti gli oggetti new media sono database in ultima istanza; e la dimensione sintagmatica è quella volatile, la narrativa della interfaccia dipende sempre dall’utente, ed è sempre diversa, ri-creata ogni volta da capo.

 

Screenshot from Halo 3: http://www.hightech-edge.com/halo-3-game-review-video/1426/

 

Perciò la lettura proposta sul rapporto tra interfaccia e database si può sintetizzare come segue:

 

Storia 1) Interfaccia (narrativa)-sincronia-sintagma;

in rapporto con

Storia 2) Database-diacronia-paradigma.

 

La storia 1, la interfaccia, sarebbe nascosta negli interstizi della storia 2, il database. Il punto rilevante per questo tema è allora la Seconda tesi di Piglia, cioè, che “la storia segreta è la chiave della forma del racconto”. Come è ben noto, ci sono oggetti new media che favoriscono specialmente l’aspetto narrativo, il che è ovvio nei videogames ad esempio; altri invece mostrano il database in maniera più aperta, come è il caso delle biblioteche o librerie online. Ciò nonostante, per la maggior parte, questi oggetti sono un combinazione di entrambi, in cui l’interfaccia “racconta una storia” che garantisce, o aiuta, nell’accesso a un database nascosto.

 

A questo proposito nel suo articolo L’inconscio della macchina, ovvero, come catturare il significate fluttuante (2006), Antonio Caronia propone di pensare ad una “estetica del database” in cui non c’è opposizione, in cui non ci dovrebbe essere una “storia nascosta”, ma un intreccio coerente tra i due, e influenza reciproca. Quindi l’idea di avere due storie, o logiche, separate deve essere superata in favore di un rapporto senza storie nascoste, senza divisioni né gerarchizzazioni tra interfaccia e database (Caronia 2006: 2):

 

Vorrei infatti proporre l’idea che il design dei media interattivi e digitali in genere debba necessariamente basarsi su una integrazione molto stretta fra interfaccia e database (per utilizzare una dicotomia usata dallo stesso Manovich), e che le intenzioni espressive, per così dire, delle opere e dei processi digitali non siano più di competenza esclusiva del livello dell’interfaccia, ma influenzino anche la loro “struttura profonda” (che possiamo metonicamente identificare nel database). In altri termini, se mi è consentito il ricorso a un vocabolo sempre più equivoco, suggerirei che ci sia un’estetica del database, e non più solo dell’interfaccia.

 

Leggere questa dicotomia tra database e interfaccia in termini di storia 1 e storia 2 può aiutare a sviluppare un modello complementare per svelare i modi nei quali uno codifica l’altro; e in seconda istanza può rendere possibile un approccio come quello proposto da Caronia nel quale database e interfaccia sono interdipendenti e uno dà senso all’altro. La pertinenza di questo approccio, come proposto in un articolo precedente, sta nel fatto che le interfacce mediano potenzialmente tutti le produzioni culturali a cui si può accedere, per non parlare delle attuali forme di comunicazione, e, come tali, formano il modo in cui ogni uno percepisce e decodifica il mondo, sia esso fisico o digitale. Come capita molto spesso, l’arte – di qualsiasi tipo – può provvedere uno spunto sui possibili percorsi a seguire.
E la conclusione, non può che essere quella di Piglia (Piglia n.d.):

 

Il racconto è costruito per fare comparire in maniera artificiale qualcosa che era nascosto. Riproduce la sempre rinnovata ricerca di una esperienza unica che ci permetta di vedere, sotto la superficie opaca della vita, una verità segreta. “La visione istantanea che ci fa scoprire lo sconosciuto, non in una terra lontana, ma nel cuore stesso dell’immediato”, disse Rimbaud.
Quella illuminazione profana è divenuta la forma del racconto.

 

Copyediting versione italiana: Amos Bianchi.
Le traduzioni di Manovich e Piglia sono di Gabriela Galati

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