18 dicembre 1922. Brandimarte: la strage fascista di Torino

18 Dicembre 2022

Piero Brandimarte ha 29 anni nel 1922, ha partecipato alla prima guerra mondiale come tenente dei bersaglieri, nel dopoguerra ha subito aderito al fascismo e nel 1919 ha assunto il comando della “Disperata”, la prima squadra d’azione torinese. È decorato di medaglia d’argento ed è un campione di lotta. È profondamente convinto che la violenza sia lo strumento principale che il fascismo ha per affermarsi ed è pronto a usarla senza alcuna remora. Ed è lui che assume il comando a Torino, alla vigilia della marcia su Roma, delle squadre d’azione. Squadre che hanno il compito di dirigere le operazioni quando verrà l’ordine dell’occupazione da parte del comitato segreto del Fascio. In realtà, a Torino la marcia su Roma si limita all’occupazione temporanea e simbolica di alcune zone e la sera del 28 ottobre del 1922 la città appare tranquilla. Gruppi di fascisti si acquartierano nel parco del Valentino e il giorno dopo sfilano per la città. Non mancano gli attacchi ai nemici politici, come alla sede dell’Ordine Nuovo di Gramsci e alla sua tipografia, oppure ad alcuni centri di distribuzione della Alleanza cooperativa. I fascisti distruggono la Casa del Popolo del quartiere operaio di Barriera di Milano e nella notte del 29 ottobre viene incendiata e devastata la Camera del Lavoro. 

A Torino il fascismo è debole e poco radicato sul territorio. Ben diverso peso hanno le organizzazioni socialiste e comuniste che godono di una diffusa solidarietà comunitaria che caratterizza i quartieri operai e la loro popolazione. Ha scritto Gramsci nel 1918: “Torino è città moderna. L’attività capitalistica vi pulsa con fragore immane di officine ciclopiche che addensano in poche migliaia di metri quadri diecine e diecine di migliaia di proletari. Torino ha più di mezzo milione di abitanti: la umanità vi è divisa in due classi con caratteri di distinzione quali non esistono altrove in Italia”. Quell’umanità operaia e socialista costruisce la sua identità politica e la sua resistenza al fascismo nelle osterie, nelle Case del popolo, nei circoli operai. È un radicamento e una presenza che producono una profonda rabbia e fastidio in un fascismo che vorrebbe incarnare l’idea della rivoluzione e che invece viene respinto dalla città delle fabbriche.

Tuttavia, lo squadrismo torinese non disarma dopo la salita al potere di Mussolini e malgrado l’indicazione del partito di perseguire una strada più moderata. Uomini come Brandimarte, formatisi nella guerra e nella quotidiana violenza del dopoguerra – e che in quel contesto hanno acquisito prestigio e potere – rischiano di perder e tutto e si sentono progressivamente isolati. D’altra parte, il primo atto del Gran Consiglio, a metà di dicembre, è la fondazione della “Milizia volontaria per la sicurezza nazionale” che sostituisce le squadre d’azione e ha il chiaro intento di legalizzare la parte più violenta ed eversiva del fascismo. Non si tratta di privarsi del proprio braccio armato ma di controllarlo dall’alto. Sul piano politico, il fascismo torinese assiste in quei mesi a un duro scontro tra le sue due principali personalità, Cesare Maria Devecchi e Mario Gioda, sostenitore del ricorso indiscriminato alla violenza il primo, rappresentante dei fascisti delle origini, il secondo. D’altra parte, per i più avvertiti il partito fascista, che ha rapidamente ingrossato le adesioni, è un luogo in cui ormai si gioca il destino politico di molti. 

È in questo quadro che nasce un complesso intreccio di insoddisfazione dei fascisti torinesi per le scelte apparentemente moderate del governo dopo la marcia su Roma, di conflitti per il potere nella città e nel partito, di profonda rabbia e delusione per un movimento operaio e socialista che, nonostante la violenza e le sconfitte, non appare piegato. La strage del XVIII dicembre 1922, a meno di due mesi dalla conquista fascista del potere, ne è la principale e drammatica conseguenza. Materialmente, ciò che accade tra il 18 e il 20 dicembre è la feroce rappresaglia per l’uccisione di due fascisti, Giuseppe Dresda, un ferroviere di 27 anni, e Lucio Bazzani, uno studente di 18. Dell’assassinio viene accusato il ventitreenne Francesco Prato, un comunista di 23 anni, anch’egli ferito, che riesce a nascondersi fino e in seguito ad allontanarsi da Torino e rifugiarsi in Unione Sovietica. Dalla marcia su Roma sono le prime vittime fasciste e l’impressione a Torino è grande. I fascisti si mobilitano mentre sui muri della città vengono affissi manifesti a firma di Brandimarte che invitano i fascisti a non piangere i morti, ma a vendicarli. 

È esattamente ciò che accade nei due giorni seguenti. I quartieri operai diventano zone di occupazione da parte dei fascisti, che li attraversano con i camion fornitigli nei mesi precedenti dagli industriali, si fermano davanti ai circoli operai, entrano, li devastano e li incendiano. La stessa sorte conoscono ancora una volta la Camera del Lavoro e la sede dell’Ordine Nuovo. Gli squadristi hanno una lista di tremila nemici dalla quale scelgono 24 nomi: sono coloro che devono pagare per la morte di Dresda e Bazzani. Entrano nelle loro abitazioni o li cercano sul posto di lavoro. Li uccidono davanti ai parenti oppure li portano via, procedendo a esecuzioni sommarie nelle vie o nei prati.

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I loro cadaveri sono lasciati visibili, come espressione della vendetta e come monito per tutti. Difficile dire se esiste un ordine centrale, se la strage viene programmata oppure si tratta di una brutalità che si autoalimenta e che è una sorta di tentativo di eliminare il nemico. Resta il fatto che sono undici le vittime della furia fascista: Carlo Berruti, Leone Mazzola, Giovanni Massaro, Matteo Chiolero, Andrea Chiomo, Pietro Ferrero, Erminio Andreoni, Matteo Tarizzo, Angelo Quintagliè, Cesare Pochettino, Evasio Becchio. Tutto avviene nell’immobilismo e nella connivenza delle autorità cittadine, prefetto e questore innanzitutto.

È una violenza talmente feroce che viene stigmatizzata da Mussolini che ordina un’inchiesta, risultata una farsa. Peraltro il 22 dicembre il re concede un’amnistia generale per i reati politici commessi “per un fine nazionale” e che sembra fatta su misura per i responsabili della strage. Le critiche del duce agli “eccessi” compiuti dallo squadrismo torinese investono prima di tutto Devecchi. Ma è un gioco delle parti: il fascio torinese viene sì sciolto ma la sua ricostituzione è affidata proprio a Devecchi. La stessa dinamica si ripete un mese dopo quando le squadre d’azione confluiscono nella Milizia volontaria nazionale e a capo di quella torinese viene nominato il console Brandimarte. 

Non meno significativa la memoria della strage. I fascisti torinesi costruiscono il proprio martirologio con il funerale di Bazzani e Dresda. Le loro salme vestite in camicia nera sono portate alla Casa del Fascio, messe una accanto all’altra e ricoperte di fiori mentre alla porta montano la guardia le sentinelle nazionaliste in camicia azzurra. Il funerale si svolge il 21 dicembre, trasformandosi in una vera e propria manifestazione fascista, bandiere italiane ai balconi, una banda che suona inni fascisti e in testa alla fanfara un tamburino di deamicisiana memoria. Al cimitero, il rito fascista vuole che si alzino le voci dell’“Attenti!” a cui segue l’appello dei morti, ritmato dall’urlo “Presente!”. Il ricordo di Bazzani in particolare diventa da questo momento uno degli aspetti ricorrenti della memoria fascista a Torino, con lapidi e monumenti, sezioni e giornate commemorative tutti gli anni.

Sull’altro versante, l’impressione tra i militanti socialisti e comunisti, e tra gli operai delle fabbriche, è enorme, almeno quanto la paura per quanto potrebbe ancora accadere. Il silenzio finisce per prevalere. I funerali di Pietro Ferrero si svolgono, due giorni dopo il suo assassinio, in una sostanziale clandestinità. Il corpo viene portato di nascosto al cimitero, non accompagnato da nessuno. Mentre la nebbia avvolge le tombe e le lapidi, sono presenti solo sedici persone, e sulla bara viene deposta un’unica corona di fiori. L’epigrafe apposta sulla lapide della tomba viene in seguito cancellata dai fascisti. Stesso destino ha la targa affissa, nella notte, sul muro della Camera del Lavoro per ricordare le vittime della strage. Già il giorno dopo i fascisti l’abbattono, e poi si recano davanti alla sezione comunista e al cimitero per asportare le due corone di fiori deposte per ricordare i morti. Da quel momento i compagni e gli amici dovranno avere grande cautela se vorranno portare fiori sulla tomba e nel luogo dove il suo corpo è stato rinvenuto.

Con il passare dei mesi, la memoria della strage fascista viene cancellata nelle strade, sui giornali e attraverso la giustizia. Gli arresti di comunisti diventano pratica di ogni giorno e con essi il saccheggio delle loro sedi e dei loro beni. A mantenere vivo il ricordo e a chiedere giustizia, ci prova il comunista Giovanni Roveda che incarica due avvocati di promuovere inutilmente un’azione giudiziaria contro i colpevoli della strage. Si impegnano “l’Unità” e l’“Avanti!” rievocando nell’anniversario ciò che è accaduto in quei giorni. Sempre nel 1924 esce per le edizioni “Avanti!” La strage di Torino di Francesco Repaci che raccoglie i suoi articoli sull’avvenimento. Ma quella memoria diventa ogni anno sempre più difficile a causa della clandestinità e alla sempre minore e difficile diffusione di ogni informazione antifascista. Spariscono anche i protagonisti o perché incarcerati dal regime, oppure perché costretti all’esilio o ancora perché se ne perdono le tracce. 

La toponomastica della città e le celebrazioni nel dopoguerra restituiscono memoria e dignità alle vittime della strage, ma non è così per la giustizia. Processato per la strage, Brandimarte, viene prima condannato nel 1950 e due anni dopo in Corte d’assise d’appello assolto per insufficienza di prove. L’ex console torna libero e a poco servono l’indignazione, le proteste e la manifestazione che vengono organizzate a Torino.

Per vent’anni, il maggiore responsabile diretto di quella strage (ma certo non l’unico) può vivere tranquillamente a casa sua. Del giorno del suo decesso, nel 1971 è rimasta una fotografia fuori dalla clinica dove è spirato: la bara appena collocata nel carro funebre, alcuni nostalgici fascisti della Milizia e degli Arditi che tengono labari pieni di aquile fasciste e medaglie. Sullo sfondo si vedono sei-sette dei ventisette bersaglieri del 22° Reggimento fanteria della Divisione “Cremona”. Salutano sull’attenti ignorando o dimenticando di essere soldati della Repubblica italiana.

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TAGGED: fascismo