Il maggio francese visto dalla polizia / Fotografia delle barricate

2 Febbraio 2022

Non so perché nelle varie storie dei movimenti studenteschi non ci si pone mai il problema delle immagini realizzate e detenute dagli stati, o più esattamente dai ministeri degli interni. Chi ha partecipato ai movimenti degli anni sessanta-settanta era perfettamente consapevole di essere fotografato e ripreso. Con i dovuti accorgimenti anche i più feroci regimi dell’Est europeo hanno reso accessibili (in parte) i loro vasti archivi. La democrazia più fragile del mondo occidentale, l’Italia, non lo ha fatto, se non a volte, per caso e involontariamente. Si pensi agli archivi dei servizi riguardanti i cosiddetti misteri della strage di piazza Fontana e dell’omicidio di Pinelli. Ampi settori delle forze armate e la quasi totalità dei cosiddetti servizi erano rimasugli del passato nazi-fascista, più attratti dai colonnelli greci che dalle convergenze parallele. Lo stato non era la controparte dei movimenti, era il loro nemico.

 

Uno strano libro fotografico, proposto da NERO, ci impone alcune riflessioni meno datate. Taxonomy of the Barricade raccoglie le fotografie fatte per conto della polizia francese, durante gli scontri del maggio francese, il cuore del mitico ’68. Dentro ci sono immagini sorprendenti, anche fotograficamente apprezzabili. Cosa dovevano fotografare i poliziotti? Di quale tecnologia disponevano? Senza rifare la storia del maggio francese ricordiamo che si trattò di un fenomeno di massa e le foto ce lo dicono chiaramente: vediamo decine di migliaia di manifestanti. Gli scontri si irradiano dalla Sorbonne all’intero centro della città. Ai contenuti libertari del movimento (in cui confluiscono varie organizzazioni rivoluzionarie in via di rapida formazione) si aggiungono (ma forse senza sommarsi veramente) movimenti sociali ben più complessi: nello stesso mese di maggio si svolge e si trascina per giorni il più grande sciopero generale dal dopoguerra.

 

 

Anche gli operai vengono fotografati dalla polizia: un’interessante sezione del libro mostra diversi picchetti davanti alle principali fabbriche della città. I fotografi sono ovunque, da una parte e dall’altra. Quelli della polizia dominano i tetti e varie finestre, ma non sono pochi quelli che si mescolano alla folla e scattano ovunque. Nel movimento si forma una classe dirigente, che continuerà in varie forme a fare politica: da Daniel Cohn-Bendit a Bernard-Henri Lévy. Analizzare le varie componenti del movimento giovanile (per non parlare del resto) comporterebbe la stesura preliminare di un elenco quasi infinito: anarchici, situazionisti, trotzkisti, maoisti, anche qualche nostalgico stalinista duro e puro. Un movimento è tutto e il contrario di tutto. Come gli altri movimenti che seguiranno il maggio francese non ha contenuti dominanti insurrezionalisti. Quasi nessuno dei partecipanti aveva un progetto ideale-sociale in testa. Era ribellione pura, una frattura storica che attraversava la società, una voglia di sbaraccare il vecchio ciarpame del passato. Oggi non possiamo trascurare un dato di fatto: il movimento, la ribellione, segue al grande e prolungato boom economico del dopoguerra e alla scolarizzazione di massa. L’ottimismo si trasforma in rivolta, i beneficiari del boom erigono barricate. Si può senz’altro affermare che il ’68 francese è conseguenza diretta del grande boom economico. 

 

Andando indietro negli anni, prima delle grandi guerre mondiali, la storia parigina è piena di eventi rivoluzionari ben più gravi. Ma il ’68 non ha legami diretti con la Comune di Parigi, non ne è emulazione. Ci sono nuove tirannie da combattere, nuovi contenuti prima sconosciuti. Per esempio il consumismo. Una vita spesa per pagare un mutuo, per mantenere una famiglia vecchio stile, per la solita carriera prospettata dai genitori. Basti ricordare il vecchio grido situazionista: ne travaillez jamais! Già nei precedenti movimenti americani erano emersi gli stessi temi, con un maggior orientamento hippy-pacifista (“andiamo a pisciare al Pentagono” era uno degli slogan più famosi). Il ’68 è un calderone, non si sa se causa o effetto del cambiamento generale, ma quando vedi i protagonisti in foto sembrano tutti uguali. Questo notiamo subito: non ci sono segni particolari nell’abbigliamento. I ragazzi sono spesso in giacca e cravatta, le ragazze in tailleur. Solo in pochi indossano un buffo caschetto da motociclista che lascia il viso scoperto: nessuno si copre il viso, non ci sono passamontagna. Anche i ragazzi che lanciano pietre si lasciano ritrarre a viso scoperto: non sono lì a manifestare quello che sono ma quello che stanno diventando. Non hanno ancora divise da indossare.

 

 

Guardiamo una dopo l’altra le facce dei ragazzi ripresi dalla polizia: sono bravi ragazzi, compreresti un’auto usata da loro. Le foto devono essere documentazione di reato, quindi sono chiare e ben esposte. Ma il libro contiene immagini diverse dalle solite. Le foto delle barricate e delle camionette della polizia incendiate le avevamo già viste, scattate dai fotografi vicini al movimento. Stampate con grande efficacia in questo libro ci sono anche le immagini riprese dagli elicotteri. Che naturalmente avevano una funzione diversa: cercavano di capire in quale direzione quella massa fluida si diffondeva in città. Foto del genere, lo nota Wolfang Scheppe nella post-fazione, avevano uno scopo quasi accademico, non potendo essere trasmesse in tempo reale ai dirigenti della polizia (vediamo in un curioso inserto anche le foto della sala-regia, invero assai ridicola vista oggi). Dagli elicotteri giungevano, più utili, le informazioni via radio dei piloti: i manifestanti si stanno dirigendo verso… alcuni gruppi si stanno riunendo all’altezza di… Le foto dall’alto hanno un indiscutibile fascino. Il movimento si chiama così perché è qualcosa che si muove: può comprimersi in place de la Bastille ma può anche dissolversi in mille rivoli ricomponendosi altrove. I movimenti di una massa come un’unica grande creatura munita di una sola mente.

 

Come si vede nelle foto sotto il selciato c’era davvero la sabbia, lo suggeriva uno slogan dell’epoca. Vediamo intere strade prive del manto pietroso. Il porfido finiva nelle barricate ma anche sugli elmetti dei poliziotti. Gli scontri (che non sono documentati se non marginalmente) sono stati molto violenti. Molte facce di rivoltosi ricorderanno quei giorni con numerose cicatrici. Botte da orbi, molotov, ma a ben guardare pochi danni a banche e negozi. Strade dissestate, alberi abbattuti, automobili e mezzi della polizia bruciati sono le uniche ferite inferte alla città, che del movimento non era, almeno all’inizio, affatto nemica. Wolfang Scheppe, nel suo breve saggio, dà un’interpretazione semiologico-politica a queste immagini largamente condivisibile. Sotto l’occhio vigile del Leviatano, è l’immagine che suggerisce. Un occhio che recepisce e uccide nello stesso momento. Lo sguardo che uccide. Un libro del genere può anche cullare qualche bel ricordo giovanile, ma non può prescindere da questa inquietante riflessione sul presente: l’occhio del Leviatano, dotato di tecnologie moderne, droni e ottiche perfette, geolocalizzazione, visione e ascolto di tutto, a 360 gradi, è ormai ovunque.

 

 

Ci si può anche chiedere se questo Leviatano esiste veramente, se c’è un centro o se invece esistono soltanto dei monconi periferici che in fondo accumulano il nulla. Un bel paradosso. Hai scattato diecimila fotografie con il telefono ma non ne hai nessuna. Ora che puoi controllare veramente tutto e tutti in realtà non puoi controllare nessuno. Manca il Grande Elaboratore Centrale, insomma il nemico non è sempre chiaro, quando non è un dittatore o un tiranno. Ma non è del nemico che voglio parlare. È il movimento ad attirare il mio interesse di lettore. Il Potere, qualunque potere, ha sempre raccolto informazioni dettagliate sui suoi oppositori, con spie, microfoni, fotografi e operatori. Il Potere ha il potere di sapere tutto. Non tanto o non sempre per agire in qualche modo, ma per sua natura, come pura manifestazione di sé. Il movimento del maggio non è stato distrutto dalla pur durissima repressione, ma si è dissolto nell’estate. Da una fase pre-rivoluzionaria che non c’è mai stata davvero si è passati alle vacanze al mare. Fu un’estate particolarmente calda, quell’anno, nessuno aveva voglia di sorbirsela in città. L’immensa iconografia sessantottina ce ne offre l’immagine riassuntiva nel celebre manifesto “Retour à la normale”, apparso già nei primi di giugno, con malinconiche pecorelle che contornano la scritta.

 

 

Ormai lo abbiamo imparato: i movimenti hanno cicli brevi e determinati, proprio per l’eterogeneità che li fonda. La loro forza è anche la loro debolezza. La rivolta non si estingue con il ’68, si professionalizza. Nasceranno decine di gruppi rivoluzionari dei più svariati orientamenti, che avranno un ruolo non secondario per almeno un decennio ma che non saranno più un movimento. I movimenti nascono con la certezza inconscia della loro dissoluzione. Hanno uno sviluppo velocissimo e impetuoso, una vita breve, e una fine certa. Non possono trasformarsi in partito: dal maggio francese nasceranno decine di piccoli partiti, incapaci di agire sulla realtà. La trasformazione messa in piazza dal maggio era invece espressione di una trasformazione generale, che probabilmente sarebbe avvenuta comunque. Ho incontrato e ascoltato diversi leader dell’epoca, trovandoli più o meno interessanti. Mentre li ascoltavo ho sempre creduto di percepire una nota dissonante, cioè la tendenza a intestarsi il cambiamento epocale indotto dal maggio. Ne ho sentite di tutti i colori sul ’68 francese (e su quello italiano, un po’ in editio minor), ma resto della mia opinione: i Beatles hanno influenzato quel movimento più dei Grundrisse.  

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