Infanzia in guerra / For Sama. Messaggi nella bottiglia

25 Febbraio 2020

Qualche giorno fa è diventato rapidamente virale sul web un breve video di una bimba che ride in braccio al suo papà. Lui si chiama Abdullah Al-Mohammad, e la bambina, che ha tre anni, Salwa. Abitano a Sarmada, in Siria, al confine con la Turchia, dove la resistenza a Bashar al-Assad è ancora forte, motivo per cui la città subisce continui bombardamenti. Abdullah ha inventato per sua figlia un gioco che ha chiamato “ridere sotto le bombe”, convincendo Salwa che le esplosioni sono in verità fuochi d’artificio. Perciò ogni volta che una bomba cade e si sente il boato, la risata di Salwa ci investe con una forza contagiosa che trasforma un universo assurdo in una realtà possibile. 

 

È quello che farebbe un qualsiasi genitore per proteggere i figli: dalla paura, dall’invasione di immagini, suoni e sguardi che possono condizionarne per sempre l’esistenza. Ogni padre e madre lo ha fatto durante le guerre del passato e continua a farlo in quelle del presente, pur sapendo che le bombe, la morte, la fame e il terrore – che sono il basso continuo della loro esistenza quotidiana – accelerano in modo rapidissimo la fine dell’infanzia. Il gioco non salva dalla guerra, ma è pur sempre un aspetto essenziale dello sguardo dei bambini sul mondo, e rappresenta per loro la possibilità di dare senso alla realtà, di renderla intellegibile, di stabilire argini, ed è un modo per sviluppare la capacità di rispondere ai traumi e alle ferite

 

E tuttavia non basta per un genitore. In mezzo alla guerra, alla persecuzione, alla lotta quotidiana per resistere, alla sofferenza che è costretto a infliggere ai propri figli – di cui non è responsabile ma che è comunque accompagnata da un profondo senso di colpa – è necessario che l’esperienza diventi una lezione, un messaggio nella bottiglia che in qualche luogo e tempo il proprio figlio, forse, troverà. Ancor più se quel figlio è così piccolo da non poter comprendere ciò che sta accadendo e se i luoghi in cui è nato vanno via via cancellandosi e si trasformano in macerie.

 

 

Il documentario Alla mia piccola Sama, di Waad Al-Khateab ed Edward Watts (Gran Bretagna, 2019, tit. or. For Sama) è, appunto, un messaggio nella bottiglia, e il titolo più che una dedica è l’indicazione del destinatario a cui si spera che arriverà. La piccola Sama del titolo nasce in una Aleppo ormai assediata, sotto le bombe. Sua madre, Waad, studentessa universitaria, inizia già nel 2011 a filmare le proteste dei giovani contro la dittatura di Bashar al-Assad, quando le primavere arabe investono anche la Siria. Lo fa in un’ottica di reportage e forse di documentazione storica, di fronte a una durissima repressione del regime e alla fuga di moltissime persone da una vita ogni giorno sempre più pericolosa e difficile.

 

Waad è tra coloro che scelgono di restare, come il suo amico Hamza, che in seguito diventerà suo marito, uno dei pochi medici che aiuta la popolazione di Aleppo. Il documentario di Wanda racconta anche questo: di Hamza che resta ad Aleppo anche quando la situazione ormai disperata e quasi tutti gli altri medici hanno abbandonato la città. E racconta di come svolga il suo difficile compito, nell’ospedale che lui stesso si è speso per realizzare, mentre allo stesso tempo cerca di sensibilizzare l’opinione pubblica internazionale su ciò che sta accadendo tra le macerie della città siriana. Le interviste che Hamza rilascia sul web sono un altro messaggio nella bottiglia, solitario e inascoltato. Siamo nel 2016 e Waad ha filmato per cinque anni tutto ciò che è accaduto in quella piccola porzione di mondo assediato: bombe, morte ma anche proteste ed entusiasmo politico, giochi, matrimoni, felicità, amori. Nel frattempo è nata appunto Sama, e Waad è incinta di un’altra bambina. Ed è per Sama che continua a riprendere tutto ciò che accade intorno a lei. 

 

Per certi versi, si potrebbe dire che il comportamento di Waad e Hamza sia l’opposto di quello che ci attenderemmo da un genitore. Non mettono al sicuro la propria bambina, anche potendo, non scappano dall’angosciante vita quotidiana sotto le bombe, e dopo un breve viaggio in Turchia a trovare i nonni, invece di fermarsi lì, al sicuro, scelgono di rientrare nella pericolosa Aleppo perché solo così possono dare un senso a tutta la sofferenza propria e di un popolo; “I need you to understand what we were fighting for”, dice Waad rivolgendosi idealmente a Sama. Perché la guerra riduce le questioni all’essenziale, e la resistenza alla dittatura, alla sopraffazione, alla cancellazione dei propri valori è l’unica forma di futuro pensabile.

 

Non è dunque così ovvio sottolineare che il documentario di Waad è una rappresentazione straordinariamente efficace del rapporto tra vita e morte nella guerra di Siria. Se è evidente l’urgenza narrativa e testimoniale che accompagna ogni immagine, e se si arriva persino a cogliere il dolore profondissimo che Waad prova nel certificare quella sofferenza e quella violenza, l’aspetto che più colpisce è l’asciuttezza del racconto e delle immagini. Umanissima vita, umanissima morte, quasi colte nella loro essenza, a cui non è necessaria alcuna parola, come nella sequenza in un cui a una donna ferita viene praticato un cesareo d’urgenza. Il silenzio di tutti i presenti in quella sgangherata sala chirurgica, i gesti dei medici che schiaffeggiano il neonato che però non dà segni di vita, il tempo che sembra infinito e poi gli occhi che si aprono e il vagito: detto così, sembra la cosa più naturale del mondo ma nel contesto di quella abitudine alla morte in cui lo spettatore è collocato, il climax è talmente intenso che a tutti, in sala, sale un sospiro di sollievo.

 

Bisogna però fare attenzione. Non è una questione di commozione o di buon cuore, pericolosissimo antidoto alla consapevolezza, se non accompagnato dalla conoscenza e dallo spirito critico. È una questione di trasmissione culturale, del mondo che immaginiamo, delle ragioni per cui siamo disposti a sacrificarci. Sama e tutti i bambini che popolano Aleppo e il documentario sono la speranza che si incarna nell’infanzia, il cui futuro spezzato trova appigli, certo fragili, nel neonato che sopravvive, nei bambini che giocano nei crateri delle bombe, nel bisogno di affetto dei ragazzini che imitano la volontà di resistenza dei genitori ma che poi vorrebbero scappare lontano, e soprattutto in Sama, che sembra assurgere anche a simbolo universale delle colpe del mondo silenzioso e assente da Aleppo.

 

In questi anni lo abbiamo visto infinite volte: nel corpo di Aylan sulla spiaggia di Bodrum; nel volto di Omran Daqneesh, un bambino di cinque anni, fotografato mentre è seduto sul seggiolino arancione di un’ambulanza, sporco e insanguinato, lo sguardo vuoto, forse spaventato; nei disegni dei bambini scappati dalla guerra come quelli raccolti dagli psicologici ed educatori di Save The Children alla Stazione Centrale di Milano. Eppure Alla mia piccola Sama ci consente di fare un passo ulteriore perché colloca l’infanzia come protagonista e non solo come icona passiva: ne ascolta le voci, ne scruta gli sguardi, ne interroga le strategie di sopravvivenza, ne fa emergere la capacità di resistenza e di immaginazione mentre la guerra scava la loro vita, ne asciuga le speranze. E più che commosso, lo spettatore si trova solo e responsabile di fronte alla sua passività, di allora e di oggi.

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