La notte in cui cadde Mussolini

2 Marzo 2024

Fra le date storiche assurte ad antonomasia, il 25 luglio, giorno della caduta di Mussolini nel 1943, è una delle più fortunate. Nel lessico politico-giornalistico italiano, l’espressione «25 luglio» si applica a qualunque evento in cui un leader carismatico viene esautorato, non ad opera di nemici o avversari esterni, ma in seguito all’iniziativa più o meno inopinata e proditoria di alcuni dei suoi seguaci. Come ha scritto qualche mese fa Marcello Veneziani sulla «Verità», il 25 luglio è  «il paradigma di tutte le cadute dei capi, di tutti i conflitti tra poteri e di tutti i voltafaccia e i tradimenti, i passaggi di campo». Non è il caso ora di chiedersi quanti cittadini capiscano davvero quel modo di dire, e siano edotti della sua origine; se però c’è un mezzo (scuola a parte) per diffondere la conoscenza di eventi fondamentali della storia nazionale, quello è certamente la televisione. Di qui l’interesse dello sceneggiato dal titolo La lunga notte, andato in onda su Rai1 tra il 29 e il 31 gennaio, diretto da Giacomo Campiotti, e facilmente recuperabile sulla benemerita piattaforma RaiPlay. 

Dal punto di vista dello spettacolo, non si può non riconoscere innanzi tutto la bravura di Alessio Boni, al quale è stato affidato il ruolo di Dino Grandi, il gerarca che firmò l’ordine del giorno approvato dalla riunione del Gran Consiglio del Fascismo convocata il pomeriggio del 24 luglio e terminata solo alle due di notte, dopo la votazione. Il pomeriggio seguente Mussolini si recò dal re Vittorio Emanuele III, che lo destituì e lo fece arrestare. In tarda sera, gli italiani appresero dalla radio la notizia: «Sua Maestà Vittorio Emanuele III ha accettato le dimissioni di Sua Eccellenza il cavalier Benito Mussolini». Il segno della fine di un’epoca stava tutto in quella desueta, prosaica denominazione – «il cavalier Benito Mussolini» – che riportava bruscamente l’osannato, celebratissimo «Duce» alla misura di un presidente del Consiglio qualsiasi. L’incarico di formare il nuovo governo venne affidato al Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, da allora – e fino a oggi – esecrato come un traditore dalla destra politica italiana. 

Ora, la maniera più facile di raccontare questa vicenda è presentare la riunione del Gran Consiglio come una congiura contro Mussolini. I gerarchi tradiscono il Duce, il Re ne trae le conseguenze e lo esautora. Una maniera diversa, un po’ più sofisticata – seguita dalla Lunga notte – consiste nell’interpretare il voto del 25 luglio come l’espressione di una coraggiosa, non clandestina dissidenza. In entrambe le chiavi di lettura, l’eroe della vicenda (positivo o negativo a seconda degli orientamenti ideologici) diventa Dino Grandi, presidente della Camera (la Camera dei Fasci e delle Corporazioni). Il guaio è che le cose, con ogni probabilità, andarono diversamente.

La riunione del Gran Consiglio del Fascismo del 25 luglio 1943

Una premessa indispensabile è che nessuno sa esattamente cosa accadde durante quella fatale notte. Della seduta non venne redatto alcun verbale. Le testimonianze fornite in seguito dai partecipanti (assai numerose) divergono su molti punti essenziali. Chi ne parlò a più riprese, come Grandi, ne fornì versioni diverse. Inoltre, tutti coloro che ne parlarono, prima e dopo la fine della guerra, erano mossi con ogni evidenza da propositi apologetici: ciascuno, a seconda delle circostanze, adatta il resoconto ai propri interessi del momento. Insomma: un film sul 25 luglio era un’impresa non facile da realizzare. Fatto sta che la ricostruzione proposta da Campiotti dell’intera dinamica degli avvenimenti che ebbero luogo durante quei giorni del 1943 è viziata dall’intento – comprensibile sul piano artistico, almeno in linea di principio, ma discutibile su quello storico – di trarne qualcosa di simile a un dramma shakespeariano: mentre nessuno dei personaggi implicati aveva una statura più che mediocre, a cominciare da Grandi, già capo dello squadrismo bolognese, del quale non si contano le professioni di devozione al Duce (anche durante la guerra, che pure, in un primo momento, osteggiò). 

Una forzatura dei dati storici consiste ad esempio nella sopravvalutazione dell’importanza di Grandi rispetto ad altri gerarchi: primo fra tutti Giuseppe Bottai (probabilmente il meno inattendibile fra i testimoni del 25 luglio), che ebbe nella vicenda della stesura e della proposta dell’ordine del giorno un ruolo certo non inferiore. In secondo luogo, La lunga notte ci presenta un Grandi lucidamente risoluto, per il bene dell’Italia, a provocare la caduta di Mussolini, a costo di mettere a repentaglio la propria vita: e che per questo non esita a scontrarsi apertamente con lui. La scena madre – la riunione del Gran Consiglio nella Sala del Pappagallo di Palazzo Venezia – è condotta su toni urlati e melodrammatici, in flagrante contrasto con le conclusioni a cui è giunto uno storico autorevole come Emilio Gentile nella sua monografia di pochi anni or sono (25 luglio 1943, Laterza 2020), che fra l’altro ha potuto giovarsi delle carte di Luigi Federzoni solo di recente acquisite dall’Archivio Centrale dello Stato, fra cui gli appunti da lui presi durante la seduta del Gran Consiglio (allora Federzoni, già presidente del Senato, presiedeva l’Accademia d’Italia e l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana). La posizione a cui arriva Gentile, dopo accurato esame e riscontro delle fonti, è che in realtà l’ordine del giorno Grandi non intendeva abbattere il regime fascista, bensì garantirne la sopravvivenza nonostante il rovinoso corso della guerra. Il fine della richiesta di restituire al Re il comando delle forze armate era di consentire a Mussolini di occuparsi delle questioni interne, attribuendo ad altri la responsabilità delle iniziative militari. La misura implicava, senza dubbio, una critica all’esasperato accentramento di potere nelle mani del Duce, ma non prospettava affatto una soluzione di rottura. Che invece avvenne perché Vittorio Emanuele – cogliendo di sorpresa sia Mussolini, sia i membri del Gran Consiglio – approfittò delle circostanze per realizzare un desiderio che da tempo covava sia negli ambienti della corte sia nelle alte sfere delle forze armate.    

Dunque, il 25 luglio non fu un losco complotto ordito da vassalli infedeli, né un coraggioso e disinteressato atto di resipiscenza da parte di un gruppo di fascisti pentiti: bensì un tentativo disperato (e verosimilmente tardivo) di alcuni gerarchi di salvare il salvabile, che s’incrociò con la crescente insofferenza verso il Duce del sovrano e degli Stati Maggiori. Dopodiché molti interrogativi sono destinati a rimanere aperti. È difficile valutare quale peso abbiano avuto, nella decisione del Re di destituire Mussolini, da un lato l’andamento sempre più negativo della guerra e il conseguente calo di popolarità del regime, dall’altro la progressiva erosione delle prerogative della Corona perpetrata negli ultimi anni dal regime fascista: dall’equiparazione di fatto di Re e Duce, che condividevano la carica di Primo Maresciallo dell’Impero, all’attribuzione al Gran Consiglio del Fascismo di competenze in merito alla successione dinastica.

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Allo stesso modo è difficile stabilire quanto, nell’ottobre del 1922, la scelta di Vittorio Emanuele III di non sottoscrivere la proclamazione dello stato d’assedio (che avrebbe consentito all’esercito di neutralizzare le colonne fasciste in marcia verso Roma) avesse risentito del timore che suo cugino Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta (soprannominato da d’Annunzio il «Duca invitto»), noto estimatore di Mussolini, potesse cogliere l’occasione per detronizzarlo. 

La versione dei fatti proposta dalla Lunga notte non rende ragione di una serie assai rilevante di circostanze. Mussolini non aveva alcun obbligo di convocare il Gran Consiglio; avrebbe potuto tranquillamente rifiutare di mettere ai voti l’ordine del giorno Grandi; avrebbe potuto far arrestare dalla Milizia chi l’aveva votato; avrebbe potuto presentare un ordine del giorno alternativo (il segretario del PNF Scorza aveva lavorato in questa direzione); avrebbe potuto chiudere la riunione esponendo, o meglio imponendo, come in passato, le proprie conclusioni; infine, non aveva alcuna necessità di denunciare al Re l’infedeltà dei suoi gerarchi, né alcuna convenienza a farlo. Di contro, nessun documento avvalora l’esistenza di un’intesa sotterranea fra i presunti congiurati e il sovrano, del quale nessuno si fidava davvero. Fra gli stessi gerarchi allignava una forte diffidenza reciproca; molti voti furono estemporanei. Nessuno aveva gli eventi sotto controllo; il caso giocò un ruolo determinante.  

Soprattutto, il 25 luglio non si spiega se non si tiene conto della strisciante stanchezza che stava prendendo possesso dell’animo di Mussolini, della sua tentazione a cedere alla rassegnazione (Gentile parla di «eutanasia di un duce»): cosa di cui lo sceneggiato non tiene conto, mostrandolo grintoso, sospettoso, rabbiosamente attaccato al potere, eppure, nei momenti cruciali, inspiegabilmente remissivo. Insomma, se Alessio Boni interpreta in maniera efficace un personaggio che con il Dino Grandi storico non ha molto a che vedere, a Duccio Camerini è stato affibbiato un Mussolini un po’ caricaturale. E rilievo non piccolo, nell’economia dello sceneggiato, gioca la decisione di inserire un subplot con personaggi d’invenzione: l’assassinio per diretta volontà del Duce di un ufficiale dell’esercito legato a Grandi da antica amicizia, cui fa seguito la storia d’amore tra il figlio (militante del clandestino Partito d’Azione) e la nipote dello stesso Grandi. Un diversivo sentimentale utile a giustificare l’inopinata conversione democratica del presidente della Camera. 

Altre considerazioni si potrebbero aggiungere in merito alla caratterizzazione delle figure femminili. Se non c’è dubbio che la principessa Maria José fosse molto più lucida dell’incolore principe Umberto, che aveva ereditato una parte non piccola della passiva indole del padre, molto più arbitraria è l’attribuzione di opzioni politiche precise a Clara Petacci (l’uso del diminutivo «Claretta» è un postumo e non innocente vezzo del dopoguerra), che, al pari di donna Rachele, sembra capire con chiarezza tutto quello che a Benito sfugge. L’unica donna che appare meno perspicace dell’uomo che ha a fianco risulta, non a caso, la moglie di Grandi. 

Concludo. Il 25 luglio non è solo una data importante nella storia italiana: è anche un nodo storico emblematico per la sua ambiguità e la sua complessità. Spesso accade che propositi e intenzioni tra loro difformi, o addirittura divergenti, provochino, incrociandosi, risultati che non corrispondono alla precisa volontà di alcuno, ma con i quali tutti devono poi ovviamente fare i conti. E questo condiziona il modo in cui i fatti vengono a posteriori narrati, e manipolati secondo le esigenze e le intenzioni attuali. Chi vive più a lungo ne è inevitabilmente avvantaggiato; ma lo sguardo dei posteri – inclusi registi e sceneggiatori – dovrebbe saper fare la tara e operare i giusti confronti. Tra i presenti quella notte alla riunione del Gran Consiglio qualcuno verrà fucilato pochi mesi più tardi, dopo il processo di Verona (come Galeazzo Ciano o il generale De Bono); Mussolini viene ucciso nella primavera del ’45; non pochi sopravvivono alla guerra, ma, tra le figure di maggiore spicco, Dino Grandi camperà vent’anni più di Luigi Federzoni, e quasi trenta più di Giuseppe Bottai. 

Ma il 25 luglio è una data che merita riflessione anche per un altro motivo. A causare la caduta di Mussolini non bastarono gli insuccessi dell’attacco alla Francia e dell’invasione della Grecia del 1940, che resero l’Italia del tutto subalterna alla Germania; non bastarono la sconfitta in Libia, la perdita dell’Africa Orientale e il disastro in Russia del 1942; non bastò neppure lo sbarco degli Alleati in Sicilia il 10 luglio 1943. Perché qualcosa succedesse fu necessario che venisse colpita addirittura la capitale: ci volle il bombardamento di Roma del 19 luglio (quello in cui viene distrutta, nel quartiere di San Lorenzo, la casa di Iduzza Ramundo, nella Storia di Elsa Morante). Fra le tante cose che la storia può insegnare non c’è solo la coscienza della complessità e imprevedibilità degli avvenimenti, che rende difficoltosa una spiegazione univoca dei fatti; c’è anche il monito sulla forza d’inerzia che caratterizza molte circostanze storiche. A priori, non sappiamo mai se a prevalere sarà la sostanza vischiosa dell’esistente o una sua più o meno segreta fragilità: non sappiamo se, sotto la sollecitazione di mutamenti imprevisti, organismi e istituzioni sapranno perpetuarsi o si sgretoleranno d’improvviso. 

Non lo sapevano nemmeno i 19 componenti del Gran Consiglio del Fascismo che, in ordine sparso e senza alcun accordo politico preliminare, votarono l’ordine del giorno Grandi, ignari di quello che sarebbe successo qualche ora più tardi. Per questo tentare di far quadrare i conti cercando un eroe da celebrare non sembra un’operazione lodevole. Anche se sono trascorsi ottant’anni, quegli eventi sono ancora troppo vicini a noi perché possiamo permetterci il lusso di fare dei loro modesti protagonisti – tutti sconfitti dalla storia – dei personaggi letterari.  

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