Attualità di Furio Jesi
«L’intuizione e l’annuncio di Sorel era che nel secolo delle masse la discussione parlamentare doveva risultare assolutamente inadeguata a formare una volontà politica e che in avvenire bisognava sostituirvi un vangelo di finzioni mitiche destinate a mettere in azione le energie politiche come primitivi gridi di battaglia. La rude ed eccitante profezia del libro era in sostanza: che i miti popolari o, meglio, fabbricati per le masse, sarebbero diventati il veicolo dei moti politici: fiabe, fantasie e invenzioni che non occorreva contenessero verità razionali o scientifiche per fecondare, per determinare la vita e la storia, e dimostrarsi in tal modo realtà dinamiche».
Se prendessimo questo stralcio proveniente dal Doctor Faustus (1947) di Thomas Mann e lo sottoponessimo senza dare alcun indizio a un ipotetico lettore ignaro, questo potrebbe pensare senza troppe difficoltà all’oggi. Il povero sottoposto potrebbe credere che il testo si riferisca ai rigurgiti destrorsi che lamentano la perdita di un ipotetico mondo tradizionale fatto di valori sani e immutabili capaci di dettare le norme dei comportamenti, oppure che ci si stia riferendo a guerre e stermini che oggi come ieri vengono giustificati e perpetrati sulla base di credenze millenarie. Il nostro lettore potrebbe poi arrivare a supporre che esista un fil-rouge che unisce tutto questo alla riapparizione di mode, discipline, estetiche esoterico-orientalistiche. Non avrebbe torto: nonostante il mito venga dichiarato morto a intervalli regolari, esso continua a riemergere sotto diverse forme mantenendo intatta la sua capacità di produrre mobilitazione e coesione politica; di toccare le corde più recondite dell’animo umano, perfino in un mondo apparentemente iper-razionale. Insomma, progresso scientifico e innovazione tecnologica convivono perfettamente con le fiabe, con le fantasie e con le invenzioni mitiche. E non è ahimè una supposta morte di Dio ad aver cancellato la necessità quasi antropologica del “brivido simbolico” che solo il racconto mitico può generare.
Una figura che non ha mai smesso di credere all’efficacia e alla pervasività del mito nel mondo moderno è senza ombra di dubbio Furio Jesi: studioso eclettico e poligrafo, dai molteplici interessi disciplinari. A Jesi il filosofo Salvatore Spina ha dedicato una recente monografia (Furio Jesi. Mito, Rivolta, Festa, Macchina Mitologica, Cultura di Destra) agile eppure efficace, pubblicata per l’editore DeriveApprodi all’interno della collana “Essentials”: una raccolta pensata con l’ambiziosissimo obiettivo di offrire uno sguardo accessibile sul pensiero di un autore o di un’autrice nell’arco di poche pagine (meno di cento) e attraverso cinque concetti fondamentali.
Sono passati quasi quindici anni da quando un altro studioso – Enrico Manera – dava alle stampe il primo volume dedicato alla ricostruzione dell’itinerario scientifico e politico jesiano (Furio Jesi. Mito, Violenza, Memoria, Carocci, 2012). Quindici anni circa da quando lo stesso Manera, in un numero di Alfabeta2, parlava di una “Jesi Renaissance” che animava il dibattito scientifico e culturale nazionale ed europeo, grazie alla ripubblicazione di molte opere del mitologo torinese. La domanda che ci si potrebbe porre è allora se esista effettivamente la necessità di un’altra monografia jesiana. E la risposta la offre lo stesso Spina dichiarando già nell’introduzione che lo scopo principale del volumetto è proprio quello di vagliare e di dimostrare l’attualità politica e teorica di Jesi. E in effetti nel momento in cui si cerca di rendere disponibile a un pubblico ampio, non necessariamente accademico, il pensiero di un autore, significa da un lato che ha qualcosa da dire sul presente, e dall’altro che l’interesse nei suoi confronti si è allargato notevolmente. Il libro di Spina è quindi una porta d’accesso: chiara ed esaustiva.
Cinque concetti dettano il ritmo della nuova monografia. Un «pentagramma teorico», i frammenti di un lessico jesiano, che pur discostandosi dalla tirannia dell’itinerario cronologico, riescono a mostrare, pur con qualche imprecisione (il concetto di “reversione del mito” viene attribuito allo storico delle religioni Karoly Kerényi quando in realtà è stato coniato dal folklorista Vladimir Propp) cesure e continuità nel pensiero di Furio Jesi. Mettendo poi in dialogo l’autore con altre figure fondamentali della filosofia contemporanea (Michel Foucault, Giorgio Agamben, Martin Heidegger, Jacques Rancière).
Il volume si apre con la riflessione jesiana intorno al mito, o più precisamente con la distinzione tra un mito genuino e un mito tecnicizzato. Il primo, similmente a quello dell’antichità, sgorga spontaneamente dalla psiche e «ha la capacità di costituire lo sfondo simbolico entro cui una comunità può prendere forma e riconoscersi», mentre il secondo è «lo spazio artificiale, ricostruito in maniera faziosa» che ha il fine di conseguire determinati effetti politici. Il mito tecnicizzato è stato ad esempio nell’ottica di Jesi l’elemento che a partire dalla Prussia guglielmina e dalla Germania di metà Ottocento, ha fondato il terreno ideologico adatto all’ascesa del Nazismo. Se in un primo momento Jesi ha pensato che il mito genuino fosse nietzschianamente sperimentabile anche in un mondo disincantato e secolarizzato mediante l’arte e la letteratura, è con la teorizzazione della “macchina mitologica” che la sua prospettiva muta radicalmente.
Inizialmente influenzato dall’irrazionalismo etnologico e storico-religioso – spesso legato ad ambienti di destra (ad esempio quello di Mircea Eliade e Leo Frobenius) – che pensava il mito come una sostanza fuori dalla storia capace di influenzare le vicende umane, Jesi muta la sua prospettiva fra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta facendo i conti con i suoi autori di riferimento. C’è insomma la necessità di un approccio al mito che escluda la sua riduzione a mera superstizione, e che al tempo stesso non dichiari esperibile quel fatto presumibilmente accaduto in un passato remoto (perché quello è l’atteggiamento della Cultura di Destra). Di ciò che forse è stato non possiamo dire nulla, dobbiamo invece concentrarci sulla mitologia, cioè sui racconti che incontriamo in un dato momento storico e in un preciso contesto socio-politico. E dobbiamo comprendere il perché determinati racconti prendano vita in un certo momento, osservando il modo in cui essi si articolano nell’immaginario collettivo.
L’impressione che si ha nella lettura della monografia è che i lemmi centrali, quelli capaci di illuminare l’intera traiettoria intellettuale di Jesi e di rimarcare la radicale attualità del suo pensiero, siano “Rivolta” e “Festa”. Il termine Rivolta viene introdotto da Jesi nel 1969, momento in cui l’autore sta lavorando allo studio delle manipolazioni politiche del mito, e contemporaneamente partecipando da cronista e da attivista alle mobilitazioni dell’Autunno Caldo italiano. Rileggendo le vicende e le disfatte della Lega di Spartaco (1919), Jesi compie una ricostruzione storiografica funzionale alla riflessione sul suo contesto storico segnato dalle lotte operaie e studentesche che confluirà nel volume Spartakus. Simbologia della rivolta (uscito solo nel 2000 grazie al lavoro archivistico di Andrea Cavalletti). La rivolta è un fenomeno che transita dalla vicenda spartachista alle battaglie politiche del suo tempo; un evento spontaneo, privo di orizzonte strategico e pertanto “irrazionale”, che però merita di essere interrogato.

Come sottolinea giustamente Spina l’insurrezione, letta da Jesi mediante gli strumenti della storia delle religioni e strizzando l’occhio alle riflessioni benjaminiane sulla filosofia della storia, è un momento sicuramente tumultuoso e violento ma che mette in luce le aporie delle società capitalistiche. La rivolta è un fenomeno mitico che genera una “autentica” collettività in un mondo sempre più atomizzato e gerarchizzato; che consente di osservare la realtà nella sua forma genuina, squarciando il condizionamento ideologico, spettacolare, iper-mediatizzato, nel quale siamo immersi, interrompendo l’andamento del “tempo normale”. Spina scrive infatti che «la rivolta è una forma di diserzione dal tempo scandito dalla produzione fordista, dal tempo degli orologi delle città industriale e delle fabbriche, dalla visione propria del capitalismo che equipara il tempo al denaro; nella rivolta ogni momento vale di per se stesso al di là del “valore che una visione economicista gli impone”».
È impossibile leggere queste frasi senza andare automaticamente con il pensiero alle mobilitazioni che nelle scorse settimane hanno interrotto il flusso di “tempo normale” che quotidianamente scandisce la nostra vita lavorativa e ricreativa. Il grido dei manifestanti «blocchiamo tutto», anche se riferito allo sciopero generale – e dunque non necessariamente a una esplosione violenta – rimanda senza ombra di dubbio alla necessità di interrompere l’andamento della macchina capitalistica che ci costringe ad essere indifferenti di fronte allo scempio e che vorrebbe che lo show continuasse nonostante tutto. E la necessità per la società capitalistica di mantenere inalterato il flusso delle merci, dei movimenti e delle comunicazioni, si è concretizzato nella difesa – o nel tentativo di difesa – delle stazioni ferroviarie e degli aeroporti, luoghi di transito che evidentemente rimangono imprescindibili perfino in un mondo auto-proclamatosi immateriale e digitale. Certo, Jesi sottolinea che la rivolta (e nel nostro caso lo sciopero generale) non corrisponde al processo duraturo, strategico, a lungo termine della Rivoluzione. Che essa non può sussistere in autonomia senza essere inserita in un disegno di mutamento concreto della realtà. Eppure la necessità di fermare il tempo “omogeneo e vuoto” non può essere taciuta.
La riflessione jesiana sulla rivolta consente poi di interrogare la difficile questione sulla legittimità del ricorso al mito nella prassi politica, di ieri e di oggi. Nel 1965, già su posizioni marxiste, il mitologo affermava che «anche la dottrina politica più progressista si serve di uno strumento intrinsecamente reazionario quando fa ricorso al mito poiché il mito è pur sempre “passato”: passato il quale esercita sugli uomini un certo potere». Quindi il problema che la rivolta ha in quanto fenomeno mitologico è quello di rifarsi alla glorificazione del passato e di creare a sua volta nuove immagini mitiche. Così è stato per gli spartachisti che hanno fondato la loro propaganda su un mito della sconfitta eroica (quello di Spartaco, schiavo romano che nel 73 a.C. ha provato a rompere le catene dell’oppressione venendo schiacciato dalla brutalità imperiale), accogliendo nel proprio immaginario una grammatica sacrificale che non ha lasciato scampo ai suoi leader. Secondo il mitologo infatti, la disfatta del 1919 è dipesa anche da questo fattore e ha indotto i rivoluzionari Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht a non fuggire da una Berlino assediata dalle truppe governative, nonostante l’imminente disfatta. Anche il movimento politico contemporaneo che abbia sposato la causa più nobile deve allora fuggire dalla tentazione di produrre una propaganda basata sul sacrificio, sulla mistica del martirio e della morte eroica, pena la disfatta e l’adesione a un modello simbolico appartenente alla Cultura di Destra.
La riflessione jesiana sulla rivolta si collega inevitabilmente all’indagine etnologica e politica sulla Festa (non a caso Spina colloca i due lemmi in sequenza). Questa viene intesa come evento periodico che apre a uno spazio mitico e che, mediante la sovversione dell’ordine cosmico, giuridico e gerarchico (si pensi al Carnevale di Bachtin) consente di esperire un tempo “altro” rispetto a quello quotidiano: «il lavoro viene sospeso, la produzione trova un momento di arresto». Ma la forza di Jesi risiede nella sua capacità di compiere un ragionamento che unisce problemi epistemologici ed etnologici, e osservazioni sulle contraddizioni del mondo moderno. Già a partire dagli anni Sessanta Jesi aveva polemizzato con il suo maestro Kerényi sul tema dell’esperibilità del mito: per lo storico delle religioni ungherese in un mondo secolarizzato il mito genuino è ancora sperimentabile dai “grandi maestri” (i letterati). Ma l’opzione kerényiana rischia di instaurare una gerarchia umana pericolosa, tra gli “eletti” che possono manipolare il mito, e i comuni mortali che ne subiscono il potere fascinatorio. Nel mondo moderno un’esperienza genuina del mito risulta praticamente impossibile: permangono solo cammini oscuri come il mito eroico della morte sacrificale. La festa, come il mito, mostra il paradosso del mondo moderno, della società dell’intrattenimento e del divertimento in cui però il “senso festivo” e la possibilità di accesso a una dimensione del tempo diversa da quella della produzione e del consumo è ormai preclusa. «Anche il tempo festivo – scrive Spina – viene considerato in base alla sua capacità di conformarsi all’imperativo del produrre e del realizzare – vacanze organizzate come si trattasse di stilare il programma di turno in fabbrica».
Se il senso del festivo è stato spazzato via dalla desacralizzazione del mondo, da una frattura antropologica che la modernità ha creato e che non ci consente nemmeno di assumere il punto di vista delle popolazioni non-occidentali che sperimentano ancora la festa, la riflessione di Jesi non conduce però al rimpianto nostalgico per un mondo perduto insito nel dibattito sul “Reincantamento del mondo”. Questa opzione rischia di condurci di nuovo dentro all’immaginario della Cultura di Destra in cui, come afferma Spina, «risuona il rumore cupo dell’Ur, dell’origine immemoriale e primitiva, che, pur non potendo essere verificata, impone la lunga onda dei propri effetti determinando gli assetti del potere». Per il mitologo non si tratta allora di riconquistare quel presunto passato, né di distruggere le macchine mitologiche che producono la nostalgia dell’immemoriale, in quanto queste si riformerebbero come le teste dell’idra; ma di distruggere la situazione che rende “vere” e produttive le macchine stesse.
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