Speciale

La qualità mitologica della rivolta

4 Giugno 2014

“La rivoluzione comincia a casa, preferibilmente davanti allo specchio del bagno”, scrivevano gli Hüsker Dü, indimenticata colonna portante del punk e della controcultura americana, nelle note del disco del 1987 che chiudeva lo loro storia. Pare una glossa minimalista, in stile asciutto e diretto, a quanto scriveva Furio Jesi tra il 1967 e il 1969 in un libro pubblicato postumo con il nome di Spartakus. Simbologia della rivolta.

 

L’istante della rivolta determina la fulminea autorealizzazione e oggettivazione di sé quale parte di una collettività. [...] Lo spazio individuale di ciascuno, dominato dai propri simboli personali, il rifugio del tempo storico che ciascuno ritrova nella propria simbologia e nella propria mitologia individuale, si ampliano divenendo lo spazio simbolico comune a un’intera collettività, il rifugio del tempo storico in cui un’intera collettività trova scampo.

 

Ancora:

 

Si può amare una città, si possono riconoscere le sue case e le sue strade nelle proprie memorie più remote e segrete; ma solo nell’ora della rivolta la città è sentita veramente come l’“haut-lieu” e al tempo stesso come la propria città: propria poiché dell’io e al tempo stesso degli altri; propria, poiché campo di una battaglia che si è scelta e che la collettività ha scelto; propria, poiché spazio circoscritto in cui il tempo storico è sospeso e in cui ogni atto vale di per se stesso, nelle sue conseguenze immediate.

 

Gli oltre trent’anni dalla scomparsa di Jesi (1941-1980) hanno mostrato come il critico torinese sia più che mitologo e germanista: un pensatore politico attuale, i cui temi e strumenti intellettuali, intrecciati in una filosofia della cultura e della scrittura, si adattano alla nostra realtà sfuggente.

 

Tra 1967 e 1969, mentre i suoi interessi si spostavano dal mondo antico alle metamorfosi del mito nella letteratura moderna e alla critica dell’ideologia, Jesi scrive Spartakus. In questo testo, inedito per lungo tempo e pubblicato nel 2000, l’insurrezione spartachista del 1919 e la fine di Luxemburg e compagni diventano il punto di partenza per una discussione sul ruolo della simbolica e della mitologia nel conflitto politico e sociale.

 

Contro la svalutazione marxista-leninista che bollava ogni spontaneismo irrazionale, Jesi ripensa il significato della rivolta attraverso le categorie delle scienze religiose e percorsa da un afflato anarchico. Ogni rivolta rappresenta nella sfera politica l’«intersezione del tempo mitico e del tempo storico» ed è un agire mitico e infondato «che prepara il dopodomani»: la rivolta muove tra i poli del passato e del futuro, e se in termini strategici è un errore (suscita la reazione e non favorisce la maturazione della coscienza di classe), «in quanto esasperazione delle dominanti della coscienza borghese» è «effettivo superamento della società, della cultura e dello spirito borghese» e contribuisce alla «maturazione di una coscienza umana» nel suo complesso. Con la sua scarsa oculatezza il gesto di rivolta, che ha sempre qualcosa di intimo e privato, sopravvive miticamente, oltre e meglio delle realizzazioni storiche di una rivoluzione riuscita.

 

La rivolta è per Jesi «improvviso scoppio insurrezionale [...] che di per sé non implica una strategia» a differenza della rivoluzione, coordinata e orientata alla presa del potere; la distinzione è prima di tutto nella coscienza di chi vive «una diversa esperienza del tempo». Mentre il tempo della rivoluzione è lineare, storico e quotidiano, il tempo percepito nella rivolta è lampeggiante, mitico e festivo: mentre la rivoluzione «è deliberatamente calata dentro il tempo storico», la rivolta lo sospende e instaura «un tempo in cui tutto ciò che si compie vale di per se stesso, indipendentemente dalle sue conseguenze e dai suoi rapporti con il complesso di transitorietà o di perennità di cui consiste la storia». La rivolta è vissuto mitologico: esperienza ad alto livello di significatività in cui si concentra l’intera esistenza e in cui la folgorazione di una redenzione riscatta chi vi partecipa. La catena della bicicletta diventa un’arma; il nemico è un mostro, il nemico di sempre. La vita rivela il proprio senso in un attimo estatico di autoaffermazione e di pienezza. Il valore della rivolta è nel significato che assume per chi ne partecipa più che non nella sua realizzazione.

 

Spartakus riflette il suo tempo. Il torinese Jesi aveva negli occhi la battaglia di Piazza Statuto a Torino nel 1962, quando per la prima volta emergeva l’immigrato meridionale nelle lotte di fabbrica alla Fiat, o quella di corso Traiano nel 1969, con la presenza degli studenti e del quartiere Mirafiori; per non dire di Valle Giulia o del maggio francese. Avrebbe ancora seguito e partecipato attivamente alla militanza e alla discussione teorica sulle Nuova sinistra fino alle occupazioni di Università nel 1977, da docente nell’Ateneo palermitano. Il suo contributo teorico si inseriva in un dibattito vivo, nel quale faceva propria la posizione di Luxemburg, «il sogno di un rinnovato umanesimo» di stampo rivoluzionario. Contro le ipoteche escatologiche della mistica rivoluzionaria marxista e contro «un senso della storia super-umano», intendeva far valere il fatto che «gli uomini “fanno da sé” la storia» e considerava l’«utopia» come «concreto alimento ideologico dei movimenti rivoluzionari esterni alla Russia», un’utopia che «un concreto pessimismo distingue da quelle della rivoluzione riuscita una volta per tutte».

 

Ma l’aspetto estatico della rivolta vista da Jesi, un’estasi tutta mondana e psichica, ha ancora qualcosa da dire rispetto alle dimensione anche estetica delle rivolte di oggi? Con questo intendo dire che gli stessi movimenti si devono muovere consapevolmente dentro le contraddizioni delle cornici mediatiche e comunicative della loro azione politica e della eco che produrrà.

 

Jesi ha affermato con forza l’inevitabilità della dimensione mitologica che accompagna l’esistenza individuale, il fatto che ognuno di noi sia all’interno di una fitta trama di reti discorsive che trovano coerenza in uno storytelling implicito che è alla base degli agiti individuali e collettivi. Anche l’azione politica dei gruppi non può non porsi il problema di quale sia la costellazione di narrazioni alla sua base: non perché tutto sia solo ‘discorsi’, ma perché sono questi in cui le azioni sono inscritte. Il significato del mito per le identità politiche è relativo alla definizione degli orizzonti, dei problemi e dei frames di riferimento. Jesi si richiama a Benjamin sostenendo la «politicizzazione dell’arte» contro l’«estetizzazione della politica» operata dal fascismo, un tema che si ritrova riformulato più recentemente nella discussione che va dall’«ontologia della finzione» di cui parlava Nancy, in La communauté désoeuvrée, 1983 al «potere di scenarizzazione» descritto da Citton in Mythocratie, 2010.

 

La mitopoiesi è una dinamica elementare di costruzione della realtà: miti, luoghi comuni, strutture narrative ricorrenti determinano modalità di comportamento; la narrazione – concatenazione di simboli preesistenti in sequenze temporali, spaziali e causali – fonda, dà luogo e stabilizza la soggettività stessa. Tramite l’inserimento del sé in una narrazione, il racconto mitico si fa parte costitutiva di ogni progetto di senso e programma di azione. La storia del proprio vissuto, il racconto interiore, è l’identità stessa, processo di organizzazione narrativa della memoria e di autocostruzione che riguarda tanto il piano individuale quanto quello collettivo.

 

Per Jesi, che negli anni successivi ha sviluppato una riflessione sulla scrittura come ‘macchina mitologica’, un dato contenuto può monumentalizzarsi e con ciò precipitare in feticcio o estetismo, secondo le dinamiche della cultura di destra o del kitsch nella società dello spettacolo; qui il mito diviene una sostanza tale da sottrarre razionalità agli individui, in quanto strumento di una politica demagogica e soggetta alle logiche del marketing più commerciale (e vincente).

 

Un uso politico, legittimo e intelligente, della mitopoiesi oggi può (e dovrebbe) invece mantenere la leggerezza dell’utopia ed essere una versione aggiornata della ‘mitologia al servizio della ragione’. Con questa un gruppo, un movimento, una community si costruisce e si ritrova attorno a un immaginario tenuto insieme dal gioco di risonanze comuni, come suggerisce ancora Citton, che invita a ascoltare le «voci delle instabili epopee minoritarie che ci insegnano a vivere in un eterno cantiere (...) sempre aperto ai nuovi concatenamenti». In un’epoca soggetta a pulsioni identitarie forti, trovare formule di costruzione di narrazioni politiche e coesive, senza le quali non ci può essere ‘un noi’, è una strada da perseguire. Ancora Jesi:

 

Ci si appropria di una città fuggendo o avanzando nell’alternarsi delle cariche, molto più che giocando da bambini per le sue strade o passeggiandovi più tardi con una ragazza. Nell’ora della rivolta non si è più soli nella città.

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