Performance de-genere

17 Settembre 2014

Negli ultimi tempi, si sono moltiplicate le riflessioni, le azioni e le iniziative di collettivi e singolarità queer nello e sullo spazio pubblico, in Italia come nel resto del mondo. La Ladyfest di Milano che si è svolta allo Zam dal 6 all’8 giugno 2014 ne è un esempio. Questa attenzione per lo spazio pubblico come spazio privilegiato dell’azione non è ovviamente cosa nuova ma di sicuro è rilevante il fatto che la volontà di intervenire, utilizzare, sconvolgere e ribaltare lo spazio pubblico e le norme che lo attraversano sia esplicitato ed enfatizzato. Ma cosa intendiamo quando usiamo il termine ʻspazio pubblico’, a quale immagini viene associato?

 

Non è semplice definirlo senza fare riferimento alle diverse scuole di pensiero e tradizioni disciplinari, cosa che (per mia fortuna) non è oggetto di questo breve intervento. Vorrei piuttosto approfittare per ribadire, casomai fosse necessario, che lo spazio pubblico come spazio di tutt* è un semplice mito. Certo, se non appartieni alle categorie contemplate in quella che viene considerata la norma (eterosessuale, bianca, maschile, classe media, abile) di sicuro ne hai fatto l’esperienza e lo sai fin troppo bene, ma è sempre meglio ricordarlo perché il taken for granted, il dato per scontato, è sempre in agguato, pronto a far dimenticare gli invisibili meccanismi e strutture di potere che si celano negli interstizi regolando e opprimendo le nostre vite.

 

È probabile che tutt* ci siamo sentit* in un momento o in un altro out of place, fuori posto. Vorrei quindi partire da questo concetto per condividere qualche riflessione sullo spazio pubblico, sulla produzione e riproduzione delle norme, da una parte, sui tanti modi per intervenire e creare spazi, più o meno temporanei, di visibilizzazione e di rottura di queste stesse norme dall’altra.

 

Cominciamo quindi con l’evidenza: lo spazio pubblico non è uno spazio neutro. Non è nemmeno un palco sul quale avvengono le azioni umane. Al contrario, esso regola i comportamenti sociali, prescrive e sanziona atteggiamenti, comportamenti, usi considerati più o meno consoni, contribuisce a creare, riprodurre e interiorizzare le norme che li regolano. Lo spazio pubblico è, quindi, un potente dispositivo di controllo sociale.

 

Piazze, strade, parchi insieme a tram, metro e bus ma anche bagni e toilette come pure sedi delle istituzioni quali scuole, università, ospedali, prigioni, sono gli spazi in cui nel quotidiano il potere della norma viene esercitato, in cui i rapporti e comportamenti tra gli individui vengono regolati, in cui si stabilisce e si riproduce l’ordine sociale basato su sessualità, genere, classe, razza, etnia, dis/abilità. Lo spazio pubblico è quindi uno strumento della “geopolitica del quotidiano”, del potere diffuso ed esercitato alla micro-scala, quella della vita quotidiana, quella dei corpi delle persone.

 

 

Prendiamo un parco pubblico ad esempio. Immaginiamo un ragazzo e una ragazza che si scambiano gesti di tenerezza. Se fossimo lì presenti forse sentiremmo commenti che andrebbero dal “che teneri” a “Questi giovani... Ai miei tempi invece...” passando per “beati loro”. L’atteggiamento della coppia sarebbe ʻtollerato’, ammesso e non concesso che non si lascino andare a comportamenti che dalla sfera considerata dell’affettività e dell’amore romantico passino alla sfera della sessualità. In quel caso, probabilmente, la disapprovazione per quel gesto sarebbe generale. Questo perché è spesso il binomio spazio pubblico/spazio privato, l’uno associato alla sfera della maschilità, l’altro a quella della femminilità, l’uno a quella della non sessualità, l’altro a quella della sessualità, a determinare reazioni e giudizi da una parte e ad auto-limitare le nostre azioni dall’altra. Adesso pensiamo alla stessa scena.

 

Immaginiamo pero due persone considerate dello stesso sesso, oppure una persona trans* e una cisgenere, due persone trans* o, ancora, più di due persone che vivono situazioni di poliamore, di altre intimità, di amore diffuso, delle “relazioni senza nome”. Cosa succederebbe? Probabilmente verrebbero guardate con insistenza (sguardo rivelatore di disapprovazione o di curiosità) da alcun*, apostrofate da altr* e da qualche parte perfino multate. Insomma, la stessa sorte riservata alle due persone di ʻsesso opposto’ che rendono visibile il desiderio ed esplicita la sessualità toccherebbe a tutte quelle persone il cui genere e le cui pratiche affettivo-sessuali escano da quella che viene considerata la norma, ovvero, l’eterosessualità, la coppia obbligatoria, la condizione cisgenere, il sesso procreativo, la monogamia.

 

Perché? Perché lo spazio pubblico è eteronormato, ovvero è uno spazio che legittima e riproduce l’idea che l’eterosessualità sia la normalità che si trasforma in norma. L’eteronormatività, pero, non definisce solo la pratica sessuale normativa, ma anche un modo di vivere considerato ʻnormale’. Normalizzare l’eterosessualità significa creare un dispositivo di disciplinamento degli spazi, operazione facilitata dalla divisione di origine patriarcale tra spazio pubblico e spazio privato, non più solo spazio maschile e spazio femminile ma anche spazio eterosessuale e spazio queer.

 

Sarebbe quindi ingenuo pensare che l’eterosessualità si limiti ad essere una forma d’espressione sessuale. Da essa, infatti, dipende molto di più della vita sessuale: la divisione tra lavoro domestico ed extra-domestico, la gestione delle risorse e degli spazi sociali, il lavoro di cura, come anche forme di segregazione e di esclusione create dall’ingiunzione costante all’invisibilità. La sessualità fuori norma è accantonata alla sfera privata, al closet, all’ʻarmadio’, che diventa così il primo luogo simbolico dell’esercizio della violenza della norma. L’eterosessualità normativa sanziona coloro che ne stanno fuori e mette ai margini dello spazio sociale le persone che non vi si adeguano, le ʻdissidenti’. Ed è qui che il capovolgimento ha luogo.

 

Le persone ʻdissidenti’, infatti, possono creare forme di resistenza all’oppressione dell’eterosessualità normativa, dell’eterosessismo, del patriarcato. I corpi considerati socialmente out of place possiedono un enorme potenziale di sovversione, soprattutto quando irrompono nello spazio pubblico. Per questo oggi si moltiplicano e si diffondo rizomaticamente forme di resistenza, di azione, di produzione contra-culturale che vedono corpi freak affermarsi nello spazio pubblico. Dal post porno (Malapecora, Abbattomuri, Ideadtroyinmuros) alla slut walk, corpi de-generi, favolosi, militanti, rriot, ribelli, arrabbiati ʻaggrediscono’ i luoghi in maniera performativa provocando rotture dell’ordine prestabilito.

 

 

Azioni quotidiane, magari singole, di resistenza e di contrattacco, come utilizzare il bagno in maniera indistinta alle uscite in drag (king o queen) da sol* o in gruppo in seguito a workshop di riflessione e di apprendimento delle ʻtecniche’, per arrivare ad azioni collettive in cui la frivolezza diventa la tattica per rispondere alla violenza del sistema e a politiche neoliberali di mercificazione di corpi e spazi. Ne sono un esempio gruppi come Torino Samba Band che rispondeva alle cariche della polizie ballando loro in faccia o Atlantide, storica sede bolognese di gruppi femministi, lesbici, gay, queer e punk che risponde allo sgombero con una corale, la corale atlantidea, idea sviluppata anche da Bella Queer di Perugia per rispondere alle Sentinelle in piedi.

 

Scrive Samuele Grassi in Anarchismo Queer (2013, ETS): “Tre aree fondamentali per le attività costruite nell’ambito dell’attivismo pink sono: l’azione come categoria privilegiata dell’antagonismo; il network, nel senso di fare rete per costruire relazioni; la materialità dei corpi, attraverso cui sperimentare morfologie della resistenza e liberare il desiderio da ogni fondamento (im)possibile dell’identità […]. Si è quindi costruito un grande laboratorio creativo e sfaccettato in cui sperimentare con una visione politica […] radicale, critica e libertaria, all’interno della quale condividere varie esigenze – dalla liberazione dei desideri e piaceri sessuali attraverso la pornografia e le perversioni all’educazione sessuale, dalla lotta al sessismo e all’omofobia a quelle contro il patriarcato, il capitalismo e il primato dell’Occidente bianco” (p. 119-120).

 

Questi corpi abitati se messi in relazione tra di loro vanno a creare una continuità tra gli spazi, fanno esplodere il binomio spazio pubblico/spazio privato, rendono porosi i confini dei luoghi, mettono in relazione il corpo singolo con gli altri creando un corpo collettivo che investe lo spazio pubblico, produce spazi di resistenza creativa, da vita a contro-spazi in cui ribaltare le norme dominanti. I corpi da stigmatizzati e messi al bando diventano, così, virali strumenti performativi di contaminazione di spazi, di abbattimento di muri, di superamento dei limiti, quelli virtuali e quelli materiali.

 

Il prefisso cis nelle espressioni cisuomini e cisdonne deriva dal latino e significa ‘al di qua’. Secondo la Transyclopédie (Espineira, Thomas, Alessandrin 2013) è stata Julia Serano ad introdurre nella letteratura accademica il termine cisgenere nel 2007. Secondo Espineira, Thomas e Alessandrin la potenza politica del termine cisgenere risiede nel fatto che esso rappresenta un “rovesciamento epistemologico”.

 

Dal momento che “l’identità cisgenere è ritenuta neutra e a tal titolo non è questionata” (Espineira, Thomas, Alessandrin 2013: 122) nominarla significa renderla oggetto di scrutinio, decostruirne la presunta universalità, neutralità, naturalità, rovesciare l’operazione attraverso la quale la soggettività trans viene costruita come l’“altro” in relazione ad una norma non dichiarata. Scegliere di utilizzare espressioni come cisuomo e cisdonna significa prendere parte all’opera di decostruzione del privilegio cisgenere.

 

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