Marion Milner. Una vita tutta per sé

12 Marzo 2014

“Questo libro è il documento di una ricerca durata sette anni. Lo scopo di questa ricerca era scoprire che tipo di esperienze mi rendevano felice” è l’incipit che punta dritto al senso del saggio Una vita tutta per sé di Marion Milner (pubblicato a Londra nel 1934 con lo pseudonimo di Joanna Field, lo stesso con il quale ne licenziò la prima versione italiana La Tartaruga edizioni nel 1977). Una vita tutta per sé – che inaugura la collana “Pensiero e pratiche di trasformazione” diretta da Annarosa Buttarelli per la Moretti&Vitali, casa editrice da sempre attenta nel fiutare i movimenti e le declinazioni in continuo divenire delle scienze umane – è una perla preziosa nel panorama della consulenza filosofica di trasformazione a cui si riferisce il Master universitario dov’è nata anche l’idea di questa collana di manuali.

 

Marion Blackett in Milner nacque nel 1900 a Londra dove si laureò a ventitre anni in psicologia e fisiologia. Tirocinante al dipartimento del National Institute of Industrial Psychology, lavorò su test mentali e problemi della concentrazione fino alla fine del 1927 quando vinse una borsa di studio alla Harvard Business School dove seguì i corsi di E. Mayo fino al 1930, contestualmente a un’analisi junghiana. Tra una ricerca alla Girls Public Day School Trust sul tema dell’insuccesso scolastico, e la scrittura di testi autobiografici, fu all’indomani di una conferenza del pediatra e psicoanalista Winnicott alla quale assistette nel 1938 che decise di intraprendere un’analisi freudiana e, un anno dopo, il percorso di analista, sotto la guida della dr.ssa Payne, appartenente al Middle Group – il gruppo neutrale, nel mezzo rispetto alle due scuole di psicanalisi britanniche in forte dissenso tra loro, capeggiate una da Anna Freud, l’altra da Melanie Klein. Contestualmente all’analisi, Marion Milner frequentò regolarmente la clinica di Winnicott del Paddington Green Children Hospital, l’osservatorio pediatrico rivolto a mamme e neonati e si dedicò ogni giorno al disegno e alla pittura. L’esperienza confluì nel testo Non poter dipingere (1950).

 

Nella prefazione Anna Freud sottolineò come il metodo filosofico-analitico della Milner non fosse di natura strettamente riflessivo, ma aderisse alla pratica della trasformazione come esercizio radicale del partire direttamente da sé. “L'approccio di Marion Milner alla creatività psichica,“ scriveva Anna Freud, “differisce sotto molti aspetti da quelli generalmente noti e accettati, con i quali i lettori di psicoanalisi hanno una certa familiarità. Come oggetto della sua ricerca, la Milner non sceglie l'artista professionale e riconosciuto, ma se stessa come pittrice dilettante. […] È affascinante, per il lettore, seguire i tentativi dell'autrice di liberarsi dagli ostacoli che le impediscono di dipingere, e paragonare questa battaglia per la libertà dell'espressione artistica alla battaglia per la libera associazione e lo svelamento della mente inconscia, che costituiscono il nucleo del lavoro terapeutico dell'analista." Lavoro che conobbe l’apice del proprio successo nella conclusione del percorso di analisi descritto in Le mani del dio vivente (1969), storia di una paziente schizofrenica curata attraverso l’interpretazione dei suoi disegni portati in seduta.  

 

L’intreccio tra teoria e pratica nutrita dall’esperienza personale ha disegnato l’intero arco della ricerca di analisi della Milner. L’entusiasmante lettura dei Saggi di Montaigne fatta nel 1926 le ispirò il diario alla base di Una vita tutta per sé, perché l’autore francese “insiste sul fatto che ciò che chiamiamo anima è molto diverso dalle nostre aspettative e spesso è proprio il contrario,” scrisse nella Postfazione Marion Milner. Così il suo diario voleva essere il monitoraggio quotidiano di un’anima apparentemente in evoluzione, ma in realtà bloccata, perché “mi pareva chiaro che la mia vita non fosse come la volevo.” Da una constatazione comune all’esistenza dei più - La mia vita non è quello che vorrei – prende il via questo saggio accattivante e, per sua stessa natura, ben lungi dall’essere imparziale. “Eccitante come una detective story,” recensì entusiasta il poeta W.H. Auden nel 1934, il diario ha come oggetto principe dell’indagine nel proprio universo interiore la felicità, intesa come sia dell’autrice – che si definisce “un detective” - sia di chi le sta intorno, perché “convinta che il metodo della mia ricerca possa essere utile ad altri, anche a coloro le cui scoperte su se stessi fossero l’opposto delle mie.”  Rispetto al testo a cui occhieggia il titolo scelto dalla Milner, la Stanza tutta per sé di Virginia Woolf (1929), Una vita tutta per sé pare indicare il trapasso evolutivo rispetto alle possibilità di un’esistenza, da una stanza a una vita finalmente afferrata nella sua pienezza e dove nessun cambiamento è rettilineo, ma spiriforme come gli stessi pensieri.

 

Al termine del saggio, Marion Milner concluse che “si possono affrontare i problemi in due modi possibili e opposti. Uno, cercare di cambiare il mondo esterno, l’altro, cercare di cambiare se stessi.” Spesso ci si muove in modo unilaterale, finendo per impantanarsi in sterili movimenti a vuoto. La giusta distanza sta nel faticoso percorso che sta nel mezzo e che deve tenere lontani dalla cecità “sulle proprie inclinazioni,” così come dall’”accettare come propri i bisogni confezionati dagli altri” per noi. È un libro divertente, pieno di comprensione, di umanità e di forza Una vita tutta per sé, ma non privo di insidie, perché, sia ben chiaro, “che nessuno pensi d’intraprendere un esperimento del genere senza essere preparato a scoprirsi più pazzo di quanto avesse pensato.” I lettori sono avvertiti.

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