Daniele Gaglianone, “Dove bisogna stare” / Quattro ipotesi per un’umanità possibile

9 Febbraio 2019

Forse non esiste un concetto più banale e abusato, soprattutto se utilizzato come categoria critica, ma appare quasi un imperativo definire Dove bisogna stare di Daniele Gaglianone, scritto con Stefano Collizzolli, soprattutto in un momento sociale e politico come questo, "un film necessario". Poi, se ci si sofferma un attimo, se si apre una pagina di un qualunque sito d'informazione per vedere cosa sia successo nel frattempo, e dopo aver constatato che migranti, sbarchi negati ed emergenze dichiarate e presunte sono diventati l'oggetto di fiere prese di posizione che al celodurismo di un tempo hanno sostituito la perentorietà stolida di un tweet, la stessa necessità di cui prima appare di colpo un'urgenza. Morale, più ancora che umanitaria. Il problema è che un solido documentario come Dove bisogna stare, pur se attuale, rischia in questo marasma liquido che è ormai la politica italiana, di diventare istantaneamente un frammento del passato. Consapevole di questo, il film inizia con una didascalia aggiunta in postproduzione che annuncia il notevole peggioramento della situazione italiana rispetto al periodo tra l'inverno del 2017 e la primavera del 2018, in cui le riprese sono state effettuate. 

 

 

Dove bisogna stare si riferisce contemporaneamente a un buco nero e al rovescio, quello più luminoso, di una medaglia. Uno in funzione dell'altra, in un rapporto dialettico che, da un lato, denuncia una carenza nella macchina dello Stato, mentre, dall'altro, segnala l'ipotesi di un'umanità ancora possibile. Il buco nero è nei circa diecimila migranti non inseriti in strutture di accoglienza finanziate dallo Stato italiano e per questo bisognosi di cibo, acqua e cure mediche essenziali. La – per certi tratti – sorprendente conseguenza è l'assistenzialismo volontaristico di persone che, una volta vista la sofferenza e il bisogno negli occhi di individui di varia provenienza, accampati in situazioni di emergenza e in condizioni che niente più hanno di umano, decidono di agire concretamente e di eleggere il soccorso e la solidarietà a indirizzo della propria vita. 

 

Quattro persone: Lorena, Georgia, Elena e Jessica. Quattro luoghi differenti di origine: Pordenone, Como, Ulzio in Val di Susa e Cosenza, che una volta segnati sulla cartina d'Italia offrono una sorta di indicativo quadrilatero ripartito sui confini cardinali della penisola. Ovviamente, ci sono anche le quattro storie personali di ognuna di loro: Lorena, psicoterapeuta in pensione formatasi in una famiglia mai scesa a compromessi politici, avverte come naturale l'aiuto nei confronti del bisognoso. Georgia, segretaria in uno studio medico, un giorno si trova di fronte un centinaio di migranti accampati nella stazione di Como a causa della chiusura della frontiera svizzera e da quel momento decide di spendere grossa parte della sua quotidianità per aiutarli a ritrovare una dignità come esseri umani. Elena, che ospita nella sua casa Mathieu, un giovane camerunense convalescente dal congelamento degli arti inferiori, patito nel tentativo di superare il confine con la Francia. Jessica, che gestisce con determinazione un edificio in cui risiedono circa ottanta migranti senza altra possibilità. 

 

Le storie personali, più che raccontate, sono incise sulle espressioni dei primi piani che si stagliano prepotenti sullo schermo, in una confessione intima con la macchina da presa ferma a osservare e a registrare, miscelando due dei paradigmi consueti nella pratica documentaristica, quello osservazionale e quello tematico. Gaglianone mostra l'azione quotidiana dei suoi quattro protagonisti, non interferisce minimamente con l'azione, si limita a osservare fedelmente, ora fermo, ora in movimento, secondo il principio del cosiddetto Fly on the wall (anche se alcune riprese effettuate dal regista con lo smartphone forniscono un effetto instabile e convulso più da bee in flight, il cui scopo è vivacizzare l'universo del personaggio o anche, in un caso, di soggettivizzare, con alcune immagini riprese nella neve, l'infausto percorso compiuto da Mathieu). Il rispetto avvertito dall'immagine è talmente ampio che in un'occasione, quando Jessica è costretta a redarguire pesantemente un ospite del caseggiato perché insediatosi in una stanza senza chiedere formalmente il permesso, la cinepresa si ferma all'esterno, restando al di qua della porta chiusa, in un'attesa che se non proprio discreta (il dialogo è comunque registrato) è perlomeno riservata nel non invadere spazi già colmi di tensione e disperazione. 

 

 

Intervallata a quest'azione quotidiana, c'è la testimonianza delle quattro donne, pronta a fissarsi in 12 frasi emblematiche che costituiscono la divisione in capitoli in cui è strutturato il film. Ed è in questi momenti che emergono i valori che animano i protagonisti di Dove bisogna stare, a partire dalla loro precisa collocazione sottolineata dal titolo, una collocazione che si fa scelta d'identità e che non può essere differente, per la natura stessa di un'umanità avvertita come spontanea, inevitabile. Agire per gli altri, per chi è escluso dalla società, è un atto politico, un assumersi la responsabilità come essere umano, all'interno di una condotta etica che punta all'inclusione per attestare esistenze altrimenti non riconosciute come tali. 

Tra le pieghe di ferme convinzioni e di piacevoli scoperte (Elena racconta meravigliata l'inatteso slancio altruistico della madre nei confronti di Mathieu, per esempio), affiora anche la pienezza di un'umanità che non è solo volontà e perseveranza, ma anche limite, come quando Georgia, in un lieve ralenti, si copre gli occhi colmi di stanchezza oppure nel momento in cui lo sguardo vispo di Jessica si riempie di lacrime pensando al legame vicendevole e inscindibile venutosi a creare con gli uomini che contribuisce ad aiutare.

 

Un film che inizia simbolicamente con un ponte (sull'Isonzo) e finisce su una vetta innevata (al confine con la Francia) che ai cinefili non può che ricordare il finale di Il cammino della speranza di Pietro Germi, quando gli immigrati (siciliani, in questo caso) muovono a compassione le guardie di confine riuscendo finalmente ad approdare in terra transalpina. È un segnale di apertura e di positività dato dalla struttura della narrazione che tuttavia si scontra con un piccolo rilievo aritmetico. I protagonisti del film appaiono sempre soli, in esigua compagnia o in un gruppo comunque ristretto; il servizio televisivo che mostra l'attuale ministro dell'interno, giunto a Como nella sua eterna campagna elettorale per sgombrare la stazione, intorno a sé ha una massa compatta di ammiratori esaltati che fanno da cassa di risonanza a ogni suo proclama, occupando, di fatto, tutta la superficie dello schermo. 

La lotta è impari, si sa, ma è dallo squilibrio di partenza che spesso nasce l'epos dell'impresa. E la speranza è che Dove bisogna stare non rappresenti soltanto una marginale testimonianza quanto un esempio sufficientemente intenso da illudere su un'inversione di tendenza. 

 

Per conoscere la distribuzione e le proiezioni di Dove bisogna stare nel corso dei prossimi mesi, si può consultare questo link

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