Panahi fra Beckett e Hitchcock
Ormai, solo al di fuori degli ambienti cinefili è necessario sottolineare quanti ostacoli da parte del regime iraniano incontri la produzione artistica di Jafar Panahi. Produzione che, oltre a essere uno stoico esempio di mirabile resistenza politica, ottiene inevitabilmente prestigiosi riconoscimenti in quasi tutte le manifestazioni cui eroicamente, alla fine, riesce a partecipare. Un semplice incidente, infatti, è stato premiato con la Palma d’oro all’ultimo Festival di Cannes, e questo, statisticamente, ha fatto di Panahi l’unico regista ad aver vinto tutti e quattro i maggiori festival al mondo (in precedenza: Locarno con Lo specchio, nel 1997; Venezia con Il cerchio, nel 2000; Berlino con Taxi Teheran dieci anni fa, senza contare la Camera d’or a Cannes nel 1995 con il suo esordio, Il palloncino bianco). Benché i premi talvolta servano solo ai rilievi computistici delle carriere o a infarcire le premesse delle recensioni (mea culpa), nel caso di Panahi diventano risposte e attestati di solidarietà del mondo occidentale a un lavoro artistico capace di aggirare l’opposizione del governo con sudata classe e avventurosa abilità.

Nel loro essere sottili specchi della società che intendono raccontare, in qualche modo i suoi film rendono esplicita la stolida preoccupazione del regime su ciò che viene riflesso all’esterno, come se l’eco delle proteste di piazza e delle manifestazioni spontanee non fosse già fin troppo assordante. Un semplice incidente è, se possibile, ancora più diretto dei lavori precedenti, forse anche più coraggioso. Perché, pur indossando molte vesti diverse, mostra di stare comodo in ciascuna di esse e di attraversarne modalità e consuetudini per integrarle in un tessuto denso e consistente, perfettamente in grado di restituire su più piani la follia di una società ormai totalmente uscita dai cardini. Utilizzando una struttura picaresca e qualche (non so quanto volontaria) suggestione hitchcockiana (dalla cassapanca di Nodo alla gola al grottesco della scomoda presenza/assenza de La congiura degli innocenti), Panahi satireggia nei territori della commedia nera, non temendo di sconfinare spesso nella farsa, riuscendo tuttavia a non far deragliare nessuna delle tonalità utilizzate, mantenendole tutte in un equilibrio che appare instabile solo perché squilibrata è la logica da cui trae il fertile spunto. Ma il suo sguardo critico origina soprattutto una domanda: immaginando un prossimo futuro in cui gli iraniani saranno liberi e il regime cadrà, è possibile fare i conti con il recente passato della Repubblica islamica, con la sua violenza repressiva, con il concetto di perdono? E di conseguenza: di fronte a un trauma assoluto come la detenzione e la tortura, nel caso si presenti in modo inaspettato la chiara occasione di regolare i conti, vittima e carnefice hanno davvero la stessa profonda natura?
Il semplice incidente del titolo è il classico pretesto che fa deflagrare l’insieme, la tessera iniziale del domino che conduce alla caduta rovinosa di tutte le altre. In macchina con tutta la sua famigliola in una serata qualunque, un uomo investe un cane, causando, oltre alla morte dell’animale, un guasto che costringe a una sosta in un’officina per riparare l’auto. All’interno, il titolare, Vahid, crede di riconoscere nell’uomo il feroce aguzzino del periodo di detenzione patito per l’opposizione al regime. È convinto si tratti di Eghbal, detto “Gamba di legno” per via di una zoppìa dovuta a una protesi alla gamba. Il giorno seguente lo rapisce e lo porta nel deserto per seppellirlo vivo, ma di fronte all’obiezione dell’uomo che sostiene come le ferite siano troppo recenti per essere le stesse dell’antico carceriere, Vahid è assalito dal dubbio di giustiziare un innocente e per tale motivo coinvolge altre persone che hanno vissuto la stessa esperienza, nella speranza che, riconoscendolo, forniscano certezze maggiori.
Quello intrapreso da Panahi è un percorso tortuoso che solo giunto al nucleo drammatico si mostra per quello che realmente è: una morality play che ha nel dubbio e nella difformità antropologica del male il suo fulcro di riflessione. È in questo spazio, reso simbolico dal deserto che tutto azzera per restituire fatti e situazioni nella loro urgenza ed essenzialità, che Panahi allestisce una rappresentazione teatrale sotto forma di dibattito etico osservato con uno sguardo fenomenologico, crudo e immediato, privo di una parafrasi espressiva. Già di per sé drammatico nella sua umanità ferita e desiderosa di un’elaborazione. Siamo ai confini dell’assurdo, rievocato nelle parole dei personaggi che attendono un Godot metaforizzato in una catarsi che pare non arrivare davvero mai. Se non nella scena finale, quando solo la confessione dell’aguzzino immerso in una luce drammaticamente rossastra dovuta ai fari dell’auto libera la rabbia covata e repressa, per uno sfogo che è insieme soluzione dell’enigma e ideale riscatto dai conti del passato da parte dello stesso regista, detenuto a più riprese fin dal 2010 e poi vessato, censurato, ostacolato, ripetutamente condannato. Sfibrato nell’anima, mai nella produzione artistica.
Ma il dramma di un passato virato nell’incubo, pronto a riaffiorare prepotentemente in funzione di stimoli inattesi, è solo il livello più evidente di Un semplice incidente. Il passato, nel cinema di Panahi, non solo in quest’ultimo lavoro, è superficie plastica di un tempo che si condensa, quasi cristallizzandosi nella continuità di immagini che paiono non evolvere. L’uso insistito di long take, di inquadrature su silenzi di attesa che indugiano nel dubbio e nelle eventualità, i piani fissi sui personaggi, talvolta incuranti del loro spostamento nello spazio (come nella scena finale, nella quale le gambe delle figure in nervoso movimento hanno la stessa dignità drammatica del prigioniero legato all’albero) esprimono un’effettiva sospensione del presente, segnato da una ferita lacerante che impedisce qualunque sviluppo senza la necessaria elaborazione.

Il merito di Panahi, tuttavia, è di andare oltre la (comunque) ricca evidenza del racconto, di utilizzare la varietà di mood e la coerenza stilistica solo come strati superficiali di una narrazione esperibile a più livelli, il più profondo dei quali è la precisa allegoria della totale incapacità (o impossibilità, nel suo risvolto politico) di vedere. La visione, infatti, è negata, e la società iraniana è popolata di persone ferite, intimamente sconvolte, le quali, come conseguenza, hanno smarrito la possibilità di osservare e di decodificare ciò che le circonda. Eghbal, l’aguzzino, non è mai stato visto in precedenza: nessuno ne conosce le fattezze perché qualunque contatto è sempre stato mediato da una benda sugli occhi dei detenuti. E non è visto da Vahid quando compare nell’officina in cui ha cercato aiuto per la rottura dell’automobile. Vahid ne avverte la presenza attraverso la voce e soprattutto l’incedere claudicante dovuto a una protesi per una gamba amputata, ma non ne vede il volto, perché, cercando di osservare senza essere visto, il suo sguardo appare soggettivato dalla precisa scelta di Panahi di occultare l’oggetto con effetti di surcadrage dovuti alla posizione defilata e nascosta dell’osservatore, ostruita dagli elementi scenografici.
L’oggettivazione, suggerisce Panahi, è impossibile. Perché anche i tentativi successivi di fugare i dubbi, effettuati coinvolgendo altre vittime del possibile aguzzino, portano solo alla sommatoria di ipotesi, malgrado tra i personaggi coinvolti ci sia anche Shiva, una fotografa, altro simbolo vano di mettere a fuoco una verità priva di certezze perché frutto di una società cieca, orbata nei diritti e nella ragione. Il male si può solo percepire con gli altri sensi, con l’udito delle cadenze ritmiche della protesi, con l’olfatto che ricorda il sudore marcio frutto del sadismo delle torture, con il tatto che analizza le ferite dell’arto orrendamente mutilato. La determinazione della colpa, primo passo di un auspicato futuro in cui le parti, forse, se la Repubblica degli ayatollah dovesse mai cadere sotto i colpi delle incessanti proteste, dovranno convivere una accanto all’altra, è l’ammissione diretta, la confessione, non l’identificazione. Perché questa è già avvenuta come colpa storica, se non nelle responsabilità individuali. Peraltro, offuscate anche queste, se è vero che, sempre all’interno della metafora proposta da Panahi, lo stesso Eghbal, nella dimensione parallela di amorevole padre e marito, innesca la vicenda non vedendo durante la guida notturna il cane investito, immagine di quell’accecamento ideologico che fa del torturatore un martire e non il criminale che dovrebbe essere considerato.
La speranza a cui velatamente il film di Panahi allude, confermata anche dalle dichiarazioni del regista, è comunque venata da un’inevitabile ombra lunga, che probabilmente non si dileguerà mai completamente. La traccia della profonda ferita è tutta nell’ultima indicativa inquadratura, in cui un rumore, quel rumore cadenzato che origina il dubbio, la vicenda che ne trae spunto e la confessione finale, si manifesta nuovamente, mentre Vahid, ancora una volta, è girato di spalle (e non potrebbe essere altrimenti: freudianamente, nel momento in cui la minaccia si scorge, smette di essere perturbante). Non è la soluzione di un enigma già risolto, è la paura nella sua inesauribile pervasività. Non si tratta di un finale aperto, di una trovata logico-drammatica, ma della sua espansione eidetica, ideale e simbolica, rispetto a un timore che storicamente non finirà davvero mai.