Dizionario Manganelli 5. Solo menzogne!

Giorgio Manganelli, che non crede alle interviste, ha accettato di incontrare Jean-Claude Berger. Manganelli, uno degli scrittori più importanti del dopoguerra. Manganelli, una delle cui formule preferite è: “E’ quando non si ha più niente da dire che comincia il vero momento del dire”. Inutile cercare uno dei suoi libri nelle nostre librerie: Giorgio Manganelli, uno degli scrittori più importanti del dopo-guerra, già tradotto in greco, in spagnolo, in serbocroato e, soprattutto, in tedesco, è inaccessibile in francese, se si esclude qualche racconto di Centuria apparso recentemente in traduzione nella rivista di Losanna “Repères”. Meno ancora è conosciuto dal lettore francese l’immenso dibattito letterario acceso sulle rovine ancora calde del neorealismo, intorno ai focolari sovversivi della Neoavaguardia fin dagli anni sessanta, poi negli anni settanta, intorno a quelli del Neosperimentalismo. Nelle nostre memorie francofone la letteratura italiana è circoscritta solo a pochi nomi, quelli di Sciascia e di Calvino (entrambi vissuti a Parigi), di Moravia, ancora e sempre, talvolta di Soldati, di Landolfi raramente, e di Pizzuto per citare solo un esempio, mai. Giorgio Manganelli è stato uno dei leader del “Gruppo 63” nato dalla Neoavanguardia.

“Tanto per cominciare, bisogna precisare che il Gruppo 63 era una raggruppamento che raggruppava scrittori che avevano delle idee molto differenti; in seguito, per quanto mi riguarda, devo dire che non condividevo la sua tendenza dominante. Si tratta per la letteratura di trovare nuove forme capaci di interpretare la situazione di conflitto che si era prodotta nella società italiana: forme più fratturate di quelle, tradizionali, della letteratura di opposizione, le cui forme erano, per esempio, fortemente emotive, come in Bassani, o oratorie, come in Moravia, pur restando fedele, d’altronde, a un tipo di descrizione tradizionale, post-manzoniana, post-verista, della società italiana.

E soprattutto, queste forme tradizionali cercavano di riflettere questa società. Al contrario, dunque, sostenevano che la letteratura doveva essere un elemento attivo in questo conflitto sociale, producendo, direi, direttamente delle strutture conflittuali. Tesi con la quale io non ero particolarmente d’accordo”.

In effetti, lei è stato considerato prima di tutto come un formalista.

E a ragione! Io mi interessavo in effetti a qualcosa di più: il problema del linguaggio, dunque la ricerca linguistica, l’invenzione linguistica e strutturale. Avevano quindi ragione a considerarmi come formalista, mentre c’era ancora nel Gruppo 63 un potente residuo storicista, con il quale io non sono mai stato d’accordo. Per me, invece, il linguaggio è un movimento che è fatto di fratture: ad un certo punto il linguaggio si chiude, si spegne; oppure, anche, a un certo momento si illumina e nasce, e così appare bruscamente una presenza linguistica inedita.

La critica più attenta vi riconosce molti meriti: grande ricchezza di risorse linguistiche, sorprendenti acrobazie verbali e altre abili manipolazioni labirintiche – e un difetto, sembra, imperdonabile: l’assenza di denotatum.

Il denotatum è il linguaggio stesso: il linguaggio non parla d’altro che di se stesso, e non vedo di cosa d’altro potrebbe parlare, e nemmeno vedo cosa si può fare d’altro, con la letteratura, se non della letteratura.

Lei è l’autore di un brano apparso nel 1967, il cui solo titolo è tutto un programma, “La letteratura come menzogna”.

La letteratura non può parlare di nient’altro che del linguaggio, e quando pretende di dire delle cose sul reale, di dire il reale, è menzogna: il reale non esiste, e ancora meno la società. Sapete in quale società vivete? Quella che potete nominare intorno a voi, niente di più. All’inizio, negli anni sessanta, sono stato dileggiato perché la letteratura che facevo allora, e che continuo a fare, voltava completamente le spalle alla realtà per non interessarsi che al linguaggio. Mi si accusava di non parlare della realtà. Ma gli scrittori che pretendono di dire la realtà, di coglierla nella sua verità, fanno esattamente la stessa cosa che faccio io: come me, essi lavorano sulle parole, con le parole. La sola differenza consiste nel fatto che essi credono e soprattutto pretendono di parlare così di realtà, ed è precisamente qui che sta la menzogna della letteratura, perché la letteratura, ogni letteratura non può parlare di nient’altro che del linguaggio.

La critica la sospetta, lei e qualche altro “neosperimentalista”, di ricorrere a modelli preromantici. Penso, per esempio, a Maria Corti, che scrive che lei ha “optato per un genere letterario che è stato efficace in un’altra epoca: il trattato manierista del XVII secolo”.

Sì… Ci sono critici che lo dicono: io non ho optato proprio per niente e nemmeno credo che la letteratura italiana del XVII e XVI secolo abbia avuto nessuna influenza su di me. E perché limitarsi al XVII secolo manierista? Si tratta piuttosto di tutta la letteratura che ha coscienza di avere il linguaggio come solo e unico oggetto, dunque che ha la coscienza di fabbricare oggetti completamente artificiali. E’ vero che gli scrittori del nostro XVII secolo manierista avevano pienamente coscienza che la letteratura è menzogna, che è qualche cosa di totalmente artificiale: essi hanno anche avuto una coscienza sfrontata.

Da lì il suo grande interesse per la retorica: io non so più quale critico italiano ha detto che lei è un “ossimoro vivente”.

Una definizione che non rifiuto: detto questo, la letteratura di autori latini, per esempio l’Oratore di Cicerone, è stato per me una grande scoperta: la letteratura italiana si è nutrita della tradizione latina fino alla metà del XVIIIsecolo. Leopardi compreso. Quando Leopardi stabilisce una crestomazia della letteratura italiana, ricorre a una classificazione per tema: classifica testi, e non autori, perché è ancora estremamente cosciente dei diversi generi di testi, cioè degli artifici della scrittura.

La letteratura italiana preromantica ha tuttavia cattiva stampa, anche in Italia. Basta leggere Francesco de Sanctis, per il quale la letteratura italiana del XVI e XVII secolo è decadente, dopo Ariosto. Ma un italianista come Mario Fusco non dice niente di differente nella sua presentazione dei Canti di Leopardi (L’Âge d’homme): “Più di due secoli erano trascorsi dopo la morte di Tasso, nel corso dei quali la ripresa incessante di cliché e formule usate fino al limite, in un linguaggio sempre più artificiale, ecc.”

De Sanctis ha stabilito una volta per tutte i valori della storia della letteratura italiana: noi vi facciamo riferimento ancora oggi. Quanto alla sua citazione evidentemente, si tratta di una affermazione del tutto rivelatrice. I secoli XVI e XVII italiani, che il nostro XIX ha scartato, sono ancora da scoprire, a mio avviso. Prendete il caso dell’Aretino: è solo da poco che lo si considera come un autentico scrittore e, soprattutto, che lo si può leggere in edizioni espurgate! Escluso un grandissimo scrittore, Manzoni, che vi è isolato, il nostro XIX secolo è di un’estrema mediocrità, pensare che il romanticismo in Italia è un’importazione! Ciò detto, accanto agli scrittori ufficiali del secolo passato ce ne sono comunque alcuni evidentemente misconosciuti ma che si vanno scoprendo, che sono modestamente dei buoni scrittori: Carlo Dossi, Imbriani, ecc.

Ciò che è condannato nella letteratura preromantica è, con l’artificialità e il gusto per la costruzione di macchine mentali, l’indifferenza al vero: si chiede alla letteratura che dica qualcosa sul mondo, che sia “realista”.

Il suo ultimo libro Dialogo dell’ombra e dello stemma, è un tessuto labirintico di paradossi e di provocazioni sibilline. Per esempio: “Quando non si ha più niente da dire, viene il momento vero del dire”; un capitolo comincia con “Tutte le volte”, ma questa parola è immediatamente distrutta dal suo senso comune per dispiegarsi in una digressione il cui soggetto è il locutore.

Non so se smetterò mai di scandagliare le parole in tutti i loro significati; e meno ancora so fin dove si può andare! Ma penso che c’è qualcosa di insondabile nella parola. Il dramma della letteratura, veda, è che il linguaggio è anche uno strumento di comunicazione e che per far entrare una parola in quell’artificio che è la letteratura, bisogna cominciare con il privarlo del suo significato socialmente garantito. Il linguaggio diventa letterario nel momento in cui le parole sono senza oggetto, o, se vuole – questo farà piacere a qualche professore – nel momento in cui esse sono desemantizzate. Fare letteratura, è scegliere la perdita della parola, scegliere di rinunciare alla sua ombra sociale per rovistare tutte le sue altre ombre, che sono infinite. La lingua dello scrittore è una lingua morta.

“Construire”, Zurigo, n. 36, 7 settembre 1983.

Questa intervista, tradotta da Luigi Grazioli, è pubblicata nel volume Giorgio Manganelli, a cura di Andrea Cortellessa e Marco Belpoliti, volume n. 44 della collana Riga, edita da Quodlibet.

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