Fabio Viola. Sparire

28 Maggio 2013

Sparire, di Fabio Viola, è un libro inospitale, faticoso, che fa sentire in trappola.
Ci riguarda, e non lo vorremmo.

Non è sparita solo Elisa, che Ennio, il protagonista, va in Giappone a cercare. Ma è sparita, o sul punto di sparire, ogni cosa: la storia d’amore che forse non è mai stata tale, per quanto muova Ennio da un capo all’altro del mondo, il Giappone così come si è disegnato nel nostro immaginario; nemmeno il desiderio ha consistenza, né Ennio stesso, né la realtà tutta intera; ogni senso.

 

 

Non è la trama, il dipanarsi dei fatti, il cuore del romanzo. L’organizzazione logica è spezzata, e il tempo sembra un tempo sospeso, che concorre a suggerire l’irrealtà, nonostante vi siano eventi, ricordi, e anche il terremoto del 2011.
È piuttosto proprio lo sparire, il centro: progressivo.
O forse, a essere progressiva, è solo la coscienza, e il dissolversi operante sin dalle prime pagine.
Le atmosfere si fanno via via più rarefatte, scenari di desolazione, complice la devastazione naturale, e personaggi che si sfilacciano; il sogno, il delirio, le finzioni e le menzogne create da Ennio, prendono progressivamente la scena, contaminano il residuo di realtà che inizialmente si aveva avuto l’illusione di tenere tra le mani, con le strade che erano strade e il lavoro, le telefonate, le birre, e un orizzonte descritto in maniera meno sfuocata.

Sparire contiene qualche cosa di intimamente legato alla miseria del tempo che viviamo – ogni tempo ha la sua miseria – e vi è la malattia del corpo, il corpo dell’umanità intera. Ma non è una denuncia, ed è forse questo a renderlo insopportabile. Fabio Viola non descrive né suggerisce la mancanza di valori, né l’assenza di legami. Ennio è arido, borghese, con i soldi sempre a disposizione; Ennio è violento, violento il suo sguardo sulle cose, il suo manipolare la realtà. Ma la violenza di Ennio è la violenza che agisce chi vive in uno stato di distacco radicale, ed è lui stesso a esserne prima vittima.

 

 

Quello che del romanzo ci riguarda accede a una dimensione intima, denuda dei fantasmi che non sono quelli che ci facciamo complici per dare corpo al desiderio di tendere la realtà e lasciar parlare l’inquietudine che ci tormenta. I fantasmi, qui, nascono nell’intreccio di relazioni, sono quelli di cui Ennio prova a farsi burattinaio. Non far esistere l’altro per liberarci da una posizione costretta, come Ennio prova a fare, può significare inchiodarci a un altro che siamo noi stessi a costruire, credendo che ci liberi, che ci consenta un riscatto che si rovescia invece in prigione, produce profezie che sono trappole, deforma, distorce, e rompe il legame tra parole e cose. E allora l’amore può scriversi solo in una dimensione di esilio.

Il vuoto e la disgregazione riducono via via lo spazio del romanzo.
È l’aria, a sparire.
E a lasciare lui, e noi, soli, a disagio, senza consolazione alcuna, come se lo sfaldarsi descritto fosse quello del nostro terreno sociale.
Ed è in questa atmosfera claustrofobica, sapientemente restituita sulla pagina da una prosa dura, in questa rassegnazione sfiancante, in questa separazione, che è forse possibile trovarsi: camminando su un binario parallelo o forse aspettando o forse ancora dissolvendosi.
«Non me la dici la verità?», domanda grandiosa e insopportabile.

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