Speciale

Adolescenti esagerati

30 Settembre 2025

Insegno da diversi anni e negli ultimi tempi sento, davanti alle nuove classi, un po’ di imbarazzo nel presentare questa colossale istituzione, la scuola, che non muta. Ho come l’impressione di dover giustificare gli anacronismi e difendere quel che resiste e ha valore. Molte cose hanno valore, smetterei di insegnare se non lo pensassi, e tuttavia quest’anno, con non poco disagio, ho messo a tema il “vietato” con cui ci siamo ritrovati a settembre.

Una mia alunna, in Canada per il quarto anno di liceo, mi ha mandato qualche giorno fa un video con cui si candida per il ruolo di ambassador dell’agenzia con cui è partita: montato con sapienza, contenuti interessanti, foto ricercate, ammiccamenti alla camera, lipgloss e un inglese che mi sogno. Non sarei in grado di creare un prodotto del genere e la mia idea di aprire le pagina Instagram dei filosofi, con cui avevo conquistato una quinta di ormai troppi anni fa, è un poco ridicola e di certo invecchiata. Davanti a questo scarto tra loro e me, spegnere il cellulare rassicura, così come stabilire norme sull’abbigliamento: sanzionare e punire. Perché interrogare, perché implicarmi, perché studiare per aprirmi a delle trasformazioni che fuori da queste mura procedono a vele spiegate senza intoppi né divieti? Perché mettere in discussione il fuori, i comandamenti della società che ci divora. Cambiamo la scuola, è più semplice; insegniamo lì un altro alfabeto e lasciamo immutato, fuori, l’alfabeto del mondo, continuando in questa evoluzione rapida che priva homo sapiens delle mani libere, condannato come è a stringere tra le dita lo scettro che lo rende potente e connesso. Tra le competenze richieste da acquisire durante un triennio ci sono le competenze di cittadinanza – sì, anche di cittadinanza digitale: dovremmo essere in grado, noi adulti, di mostrare come ci si confronta con le differenze e le novità, con sufficiente fiducia in quello che si propone e nelle contaminazioni che si renderanno necessarie. Non è questa una competenza di cittadinanza?

Insegnare significa, oggi più di prima, costruire ponti tra un mondo, quello scolastico, che percepiscono come alieno, e l’universo in cui vivono, rispetto a cui mi pare abbiano fame di istruzioni per l’uso, molto più delle generazioni precedenti. Non credo ci siano mai stati adolescenti così sensibili allo sguardo adulto, e anche così capaci di intercettare chi non è disponibile a relazionarsi con loro.

Non possediamo risposte e forse, per la prima volta – e per fortuna – non ci illudiamo di averle; ma possiamo vederli, questi ragazzi e ragazze. Cosa voglia dire questo vederli è ben mostrato in Non siamo capolavori (Laterza, 2025) di Marco Rovelli, libro che non è un manuale di istruzioni – lo abbiamo detto, istruzioni universali non esistono – né una classificazione con intenzioni esaustive: il tentativo in atto in queste pagine è dare spazio a una pratica che sarebbe bene si diffondesse come un contagio. Al di là dell’istituzione scuola, dunque, con le sue malattie e le sue trasformazioni, con il suo conservatorismo e le sue paure, c’è una dimensione del “cosa significa insegnare veramente oggi”, per riprendere le parole di Enrico Manera, che riguarda l’imparare a leggere, decifrare, stare, con quel che non si può catalogare né spiegare; un “lavorare per limitare il peggio del nostro tempo inquieto e ferito”.

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Che esagerati gli adolescenti! Scena muta per un esame così semplice. Che esagerati, che fragilità esagerata. Lo detesto il termine “esagerata”: sì, sono esagerate le scenate, i pianti, il corpo. Esagerato è uno dei nomi dell’alterità, del femminile; esagerato è quello che non sta nei confini imposti dal discorso sociale e chiede di trovare una via per poter esistere. Esagerato è un gesto che scuote, che dice di no, che fa rumore. Sono esagerati gli adolescenti. Sì. Esagerato è spesso il loro silenzio.

Non siamo capolavori si fa carico del dissenso e del disagio di una generazione. E si apre con un assunto: la sofferenza è politica. È necessario leggerla e mettere in discussione il discorso sociale che la determina: “l’ipermodernità dunque, per far fronte alla propria crisi, strappa a se stessa la vulnerabilità, la piega alla logica dell’individualizzazione, ne fa veicolo per un ulteriore ripiegamento su un Sé individuale e isolato”; eppure, continua Rovelli, “fragilità e vulnerabilità, se rivendicate collettivamente, possono essere strumenti di cambiamento sociale, perché quando due fragilità si incontrano e si riconoscono producono una nuova situazione, un nuovo concatenamento che permette di guardare alle cose e di agire in esse da una nuova prospettiva, e in termini trasformativi”. Non ho mai visto una generazione così preparata ai termini psichici; conoscono il linguaggio medico, apprendono informazioni in rete, si diagnosticano disturbi ossessivi e anoressie che diventano etichette con le quali definiscono la propria identità: “se conosco la mia diagnosi, divento uguale a tutti gli altri che hanno la stessa diagnosi: vengo omologato e questo mi rende parte di un meccanismo”. Rovelli insiste sulla necessità che sia il contesto, collettivamente, a farsi carico di rompere tale meccanismo, mettendo in comune il disagio, creando spazi che consentano di aggiungere parole alle etichette, articolare vissuti, portare a visibilità il legame tra le condizioni materiali di vita e la sofferenza, magari facendo anche dei sintomi occasione di legame sociale: non la diagnosi che chiude, ma il luogo dove tutto possa essere interrogato, dove sia possibile scriversi in una comunanza, un ritmo condiviso che rimetta in moto la potenza vitale di ognuno.

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Chillie's Shed. © Sian Davey.

La scuola, oggi, non sembra in grado di essere il luogo di quel “processo di intensificazione del desiderio che è il cuore di ogni crescita personale”. Cosa possiamo dunque fare nel tempo della catastrofe? Il pessimismo è un lusso che non possiamo permetterci: per aprire il presente, le sue possibilità, e rendere meno minaccioso il futuro, Marco Rovelli interpella voci e competenze diverse. Non siamo capolavori è un libro plurale: un dialogo tra saperi, tra persone, con adolescenti, psichiatre, psicoanalisti, filosofe, insegnanti, professioniste. Rovelli riporta le opinioni, discute le teorie. Questa modalità di scrittura – in debito e in relazione – mi pare una prima lezione politica. Se vogliamo immergerci nella scuola, se vogliamo provare ad ascoltare gli adolescenti, dobbiamo procedere con quelle due arti che qualsiasi studente al terzo anno scopre, addirittura con incanto, se ha un buon insegnante di filosofia: dialogo e epoché. Dialogare, chiedere suggerimenti, fidarci di altri saperi; sospendere il “già pensato”, le convinzioni e i luoghi comuni. Provare a capire la dose di sofferenza che vediamo a scuola significa imparare a tenere conto dei fattori politici, economici e sociali; del discorso in cui gli adolescenti sono immersi; di come tutto questo venga elaborato nell’uno a uno della loro differenza singolare. E questo singolare mi consente di esplicitare un’ulteriore ragione per cui ritengo questo un libro politico: non c’è determinismo. Rovelli lo ripete in più occasioni, le spiegazioni causali lineari non tengono conto della complessità, dell’individualità, dei rapporti: questa è la ragione per cui è necessario, per leggere le forme del dissenso, porsi in ascolto e dotarsi di un dizionario sempre in divenire. Dissenso che può essere esplicito o tacito, che può sfociare in una rabbia autodiretta o eterodiretta, in un “non poter stare” che si fa inquietudine o in un silenzio che problematizziamo troppo poco, visto che non disturba le nostre lezioni e non sporca la bella immagine di una macchina funzionante.

Soffrire è dissentire: “dobbiamo vedere le forme di sofferenza come un non sentirsi accordati al mondo: dove il soggetto di questo non sentirsi accordati al mondo è il corpo”. Il corpo, o meglio, i corpi esposti che siamo. Il corpo non è solo quello sottoposto allo sguardo, quello che deve essere in forma, che deve funzionare, che deve essere plasmato e perfezionato, oggetto di desiderio e di giudizio. Leggere i corpi e quel che vogliono dirci significa recuperare il corpo carne, per dirla con linguaggio fenomenologico, il corpo vivo, l’essere-nel-mondo, il corpo vissuto dall’interno e non visto dall’esterno: “ogni corpo è un campo di battaglia” e i sintomi parlano. Il corpo è la questione dell’adolescenza: “che fare con il mio corpo (che sono io)? Che fare con gli altri corpi? Sono le questioni più proprie dell’adolescenza, che diventano tanto più pressanti quando si vive sempre meno nella relazione con l’altro perché l’altro è lo specchio che guarda e giudica”. Il corpo sono gli ammiccamenti della mia studentessa in America, il suo lipgloss, le unghie vietate dai dress code (ebbene sì, sono riusciti a farmi difendere quell’orrore di artigli); il corpo è Tik Tok e lo stile creativo che hanno bisogno di trovare; il corpo è quel che parla anche se si prova a negare il dolore: “nella pratica dell’autolesionismo, nel ritiro sociale dell’hikikomori, nei disturbi del comportamento alimentare, nell’attacco di panico, nella sintomatologia ansioso-depressiva, è sempre il corpo che sta sulla scena come il soggetto che resiste attraverso la sua sofferenza”. Che fare davanti a questi corpi? La dimensione virtuale può essere certamente un vettore di isolamento, colma un vuoto, così come l’acquisto compulsivo di oggetti, ma davvero la scuola è impotente rispetto a questo vuoto? Non è il nostro compito di insegnanti quello di fornire loro competenze emotive e affettive necessarie per trovare altre vie? Non è la scuola il luogo in cui la grammatica identitaria si articola e si modella nel confronto con la differenza, con l’alterità, con l’istituzione e con le sue regole?

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 Sleeping Boy. © Sian Davey.

Possiamo insegnare il limite se insegniamo il senso del limite; e se questo senso, e il suo valore, li ritroviamo anche al di fuori delle aule scolastiche.

Insegnare oggi è “creare possibili”, lasciandosi toccare dai corpi degli adolescenti e dai corpi che siamo. Erich Fromm, nel 1953, quando tiene le sue quattro lezioni sul tema della salute psichica presso la New School for Social Research di New York (I cosiddetti sani, Mimesis, 2025) racconta di Toro Ferdinando, personaggio di un libro per l’infanzia: toro anomalo, che ama i fiori del pascolo e odia la corrida; scomodo in una società di guerrieri, costruita per combattere. Cosa accadrebbe allora se questo Toro Ferdinando ci infettasse con la sua differenza, sconvolgendo la struttura della nostra società? Una società ha bisogno di una certa dose di conformità; e però non può non subire, ogni tanto, scarti che rappresentano i passaggi di paradigma. Si va avanti così, alternando momenti di progresso e altri di riconfigurazione del mondo; e, in uno di questi ultimi, un Toro Ferdinando potrebbe averla vinta. Certo, poi si ripresenterà l’esigenza di tornare a istituire norme che regolano il gioco della vita. E tuttavia la società moderna soffre di una strana immobilità. Cosa infatti la caratterizza? Certo, l’individualismo; sicuramente la paura che l’uomo ha della libertà e una situazione in cui l’uomo è dominato dalle macchine che ha creato per controllare la natura. Ma c’è di più: un’idolatria scientifica che ha smarrito l’approccio scientifico. Manca, cioè, la disponibilità a modificare i risultati del nostro pensiero con la scoperta di nuovi dati. Così oggi – e lo diceva Fromm nel 1953 – siamo giunti al punto in cui il fondamento della nostra vita e della nostra società coincide con ciò che da un punto di vista oggettivo è da considerarsi normale e sano: insomma, a questo benedetto migliore dei mondi possibili ci crediamo davvero, e abbiamo fatto di quel che è, quel che deve essere.

In questo quadro la distinzione tra salute e malattia psichica viene operata con una tale sicurezza, ed è così perfettamente rispondente al far prosperare il tipo di società in cui siamo immersi, che, in fondo, ad ammalarsi sono le persone più sensibili alla questione del senso della vita. Chissà che tra gli adolescenti non ci sia un Toro Ferdinando, chissà che non possiamo provare a lasciarci contagiare dalle sue battaglie, da un amore per i fiori, economicamente poco seducente, che non capiamo.

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In copertina, Gathered by the River—Last Light. © Sian Davey

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