Anna Toscano: voci di donne
Ho delle polaroid incastrate nella cornice del grande specchio che occupa la parete della sala: una piastrella di Lisbona, un lampione di Venezia, dettagli di corpi femminili di marmo. Le hai scattate tu: è il tuo sguardo. C’è poi un altro scatto, questo è nella mia testa: verso Punta della Dogana, sono dietro di te, sei di spalle e le canette ti girano attorno. Sei avanti, e un po’ in là, a capire prima. L’ultima volta che ci siamo viste hai detto che ci aspetti davanti al mare, con i sassi di Nervi: ci hai descritto la sottile linea bianca che li attraversa. Avrai con te Lisetta, Goliarda, Agota, Grace, Anne e tutte le altre.
Anna Toscano era poeta, docente, scrittrice, fotografa e critica. Abbiamo le sue raccolte di versi (Cartografie, Samuele Editore è l’ultima raccolta pubblicata); i suoi saggi (Il calendario non mi segue. Goliarda Sapienza; Con amore e con amicizia. Lisetta Carmi, Electa edizioni); gli articoli su queste pagine (Anna Toscano) e molte altre riviste – Artribune, Domani, Nazione Indiana, Il Sole 24 Ore, Rivista Studio. Scriveva con le parole e con gli abiti che sceglieva, con i giocattoli rotti da salvare, con le piante e le teiere, con le scatole di biscotti e la polvere nelle tasche. Trascorreva il tempo “disponendo parole, spostando oggetti, leggendo virgole e accudendo cane, che è tutta un poco la stessa cosa”.
Come la si ricorda? Come si restituisce quanto ha attraversato e raccontato? Siamo tra noi, qui, dove, con te, ci troveremo sempre: nelle voci femminili che ci hai fatto incontrare e hai intrecciato; voci di carta e di carne, di manichine e di cose. Voci che si son fatte, tra le tue mani, versi corpo e carne.
[A.S.]
“E se mi risveglio sulla Striscia di Gaza?”. È la prima cosa che mi hai detto quando siamo venute a salutarti per l'ultima volta, e mi ha fatto pensare di essere arrivate comunque in ritardo, che la tua testa bellissima fosse già andata allo strazio di chi muore lontana quattromila chilometri, lasciando il tuo corpo qui a fare i doveri di casa con un’ospite privilegiata che non ne voleva proprio sapere di salutarti per sempre. Ma sbagliavo: eri tu, tutta tu, che tieni insieme i vivi che lasci a Venezia e i morti di Gaza; le nostre cane sgangherate e le vetrine delle pasticcerie; le mostre da vedere e i cimiteri su cui lasciare piccole cose perché in fondo che cos'è una tomba se non un museo e viceversa?; tua madre che si impone per dire la sua anche da morta e mia figlia di lato che ti torna nei sogni; le reiette come fossero protagoniste di un romanzo da scrivere e le scrittrici come se fossero da struccare, mettere davanti a una fetta di torta e parlarsi; la vita con tutta la morte che può contenere. Hai sempre parlato con la morte, tu: la portavi alle feste, ai festival, l'hai infilata nei regali che ci spedivi, nelle poesie che scrivevi e in quelle delle care altre che ci leggevi. Ci hai dialogato così bene con la morte da aver convinto un allora novenne molto attento che assisteva in prima fila ai tuoi racconti su Lisetta, che la nostra potesse non solo essere ancora viva, a girovagare in qualche vicolo genovese fotografando gli ultimi come fai tu, ma addirittura che gli avesse dormito accanto per tutta la notte seguente. E parlavi con la morte così bene da aver convinto anche me, sai, che a gennaio sentendo la parola tumore ho pensato addio, che a giugno vedendoti stanca dopo pochi passi ho pensato basta, e a dicembre leggendo il tuo “Chiara, sono gli ultimi giorni” ho pensato ecco, che quando mi hai salutata alla fine, invece, ho creduto che tu e la morte insieme avevate trovato ancora una soluzione e che avrebbe tenuto insieme anche me, come tutto quello che ci portavi tu dall’altrove. E così: eccomi qui a parlarti, Anna.
[C.A.]
Ho pochissime vere amiche che fanno il mio stesso mestiere, quello delle parole, così poche che stanno in una mano e tutte abitano lontano da Napoli. Fra tutte Anna Toscano era l’unica ad avere la mia età. Adesso è andata ad abitare così lontano che non posso più ricevere i suoi pacchetti né spedirle i miei. Tuttavia, non sarà mai così lontana da non risentire la sua voce che per vent’anni mi ha raccontato cose. Ad esempio, di manichine, che salvava e collezionava. Una volta ne vidi una antica in un negozio e le mandai la foto: “Salvala! Salvala!”, mi scrisse. Ma costava troppo, dovemmo abbandonarla. Mi ha raccontato dei suoi genitori, di sua nonna, di sua sorella, di case, delle poete che amava, Anna Maria Carpi, Bianca Tarozzi, di canette, di Gianni che avrebbe poi sposato.
Anna è stata poeta di qualità superiore, Al buffet con la morte e Cartografie sono due capolavori, curatrice geniale di antologie, Chiamami col mio nome, prima riscopritrice dei versi di Goliarda Sapienza, perfetta narratrice di vite, da Goliarda a Lisetta Carmi. Ogni volta che le ho affidato una donna da raccontare in Strane Coppie (Janet Frame, Sybille Bedford, Agota Kristof o Carson McCullers), lo ha fatto con tale immersione che tutte ne saltavano fuori salvate.
Quel che dovrebbe fare chi scrive davvero è essere sempre immersa nel dolore, trasformandolo in parole l’indicibile, e cercare con ogni sua forza chi lo ha fatto prima e resta esclusa, o dimenticata. Due attitudini che in Anna erano acutissime, perché nessuna restasse indietro, nemmeno le manichine. E poiché più spesso alle donne capita in arte d’essere seppellite, Anna con metodo metteva luce e tesseva fili. E intanto passeggiava per Napoli in un gran contrabbando di frolle, le sue preferite. Penso spesso a quella gelateria che chiude e causa la morte della nonna, ultimo baluardo della vita in Al buffet con la morte: ci sarà molto da scrivere su che spazio occupa la sua poesia nel canone contemporaneo, delle parole che ha reso coloratissimi pesci-gioiello, perle di impiraresse veneziane, pura bellezza, cristallo di dolore. Grazie Anna, poi ci sentiamo.
[A.C.]
È stata Agota Kristof. Dovevo debuttare con Trilogia della Città di K. al Piccolo e un giorno ho scritto ad Anna. Mi ha accolta come se ci conoscessimo da sempre. Ho ritrovato con lei una più lucida misura, senza perdere il trasporto che entrambe nutrivamo per quella storia bella e terribile. Poi è venuta a Milano: aveva scritto un bel testo per il programma di sala senza vedere ancora nulla, ma c’era già tutto. Pensai che avesse un superpotere. Al bar accanto al Melato, abbiamo parlato per due ore di Agota, Goliarda Sapienza, Mariella Mehr, poesia, amicizia, maternità, scioperi (ce n’era uno e lei doveva tornare a Venezia), tempi perduti e ritrovati. Ero stordita, felice. Anna è venuta allo spettacolo, ha scritto, abbiamo fatto un incontro col pubblico. Era così: definitivamente generosa. Ogni tanto mi arrivava un’immagine notturna o solare da Venezia. Un pensiero affettuoso, idee vive e brillanti, il racconto di un sogno. In una strana notte insonne, ad esempio, le era apparso un corteo di otto Goliarde su un palcoscenico e ognuna si raccontava: una per ogni evento forte della vita. Era certa, disse, che fosse stata la “mia” Trilogia a farle comparire a quel modo. Le ho scritto a metà ottobre: vieni a teatro? Facciamo L’analfabeta! Lei ha risposto, al solito festosa: è una notizia bellissima! Ma non l’ho più sentita e mi son detta: forse posso riscriverle... Dieci giorni dopo è arrivata una sua foto: Federica Fracassi agli applausi di fine spettacolo. Con un commento: «Super!». Cara Anna, se penso a quanto abbiamo ragionato su Lucas, Claus e ogni finale possibile! Adesso, per quanto sia incredibile non poterne riparlare, posso quasi vederti mentre ne discuti, in quel tuo modo senza scorciatoie, direttamente con la nostra Agota. Vi vedo, un po’ appartate, nel misterioso mondo ancora a noi precluso, coi begli occhiali tondi e, dietro, i vostri occhi intelligenti, insieme allegri e malinconici, e mi sembrate assai più forti di ogni possibile visione.
[C.L.]

“Il corpo pare lo dobbiamo restituire/ e quanto ci è costato/ dobbiamo cedere tutto al mondo/ quando ce ne andremo”: ho ritrovato questi versi ieri, sottolineati in Cartografie, libro di poesie pubblicato da Anna l’anno scorso. Era insieme a un altro che lei mi aveva consigliato, sapeva a cosa stavo lavorando e mi mandava fotografie di pagine, riferimenti, consigli, sollecitazioni. Perché Anna era sempre generosa del suo sapere e dei suoi talenti, che in lei diventavano anche azione, attenzione, presa di posizione e luogo dove stare insieme nel comprendersi. Dono prezioso e unico. Come erano le sue polaroid che lei scattava a persone, cose, ombre: “quell’ombra della polaroid in cui l’ombra di un lampione crea delle lancette” un brandello di quello che mi aveva scritto inviandomene una che mi aveva fatto fantasticare, entrare nell’incantamento del suo raccontare. In questo confuso scrivere, impastato dal dolore, dalle emozioni, dal rimpianto (dovremo poi scrivere della grande eredità di Anna, dovremo renderle omaggio cercando di dare il giusto valore al suo incredibile lavoro), non riesco a non pensare al corpo di Anna. Accanto, quello di Gianni. Un corpo grande, in cui ti veniva naturale rannicchiarti, ascoltando le sue parole. Era bello vederla arrivare con la sua camminata tra il baldanzoso e il pensieroso. Il suo stile era inconfondibile, e a me piaceva tantissimo. I capelli dal taglio preciso che rendevano grafico il suo bel volto. Le magliette a righe messe una sopra l’altra, i jeans ampi. Gli accessori che lei scovava ovunque. Lei sapeva tenere tutto insieme senza pregiudizi. Le piacevano le sovrapposizioni, sorta di personalissima post production. I cappelli tanti, e le stavano sempre tutti bene. Gli occhiali importanti che mettevano in evidenza i suoi occhi attenti e curiosi. Ecco Anna, io sono lì in campo Santa Margherita, forse ti aspetto alla Marcopolo, e tu arrivi e mi dici che non è vero mentre mi abbandono al calore di quel tuo corpo grande e generoso.
[M.L.F]
Nella borsa ho un astuccio, una busta di tela écru con la cerniera tortora che mi ha regalato Anna qualche anno fa. A un certo punto ho preso una borsa nuova perché ci stesse dentro meglio. C'è stampata sopra, con la sua calligrafia, una delle sue poesie. "Io con le parole faccio cose / con le parole svuoto una stanza / con le parole compio una danza / cucino un risotto, vado al ridotto. / Con le cose faccio parole / scelgo un baule / e lo riempio di sillabe nuove". Anna con sapienza e pazienza quotidiana ha restituito delle parole a una persona schiva e asciutta come me perché potessi riutilizzarle, è la persona con cui giorno dopo giorno ho condiviso nell'ordine cani, attrezzi, piante, cuori, cappuccini freddi e, naturalmente, libri. Entrambe golosastre autolimitantesi, con Anna voglio condividere ancora un biscotto.
[S.R.]

Ti chiamo col tuo nome, Anna, e ti chiamo antenata.
Antenata coetanea – tu grande, io molto più piccola – con una vocazione comune di orfane da parte di madre per vie divergenti: ripercorrere la strada a ritroso, cucire arazzi con i detriti seminati dalle altre, detective sulle tracce delle parole di chi ci ha precedute, archeologhe di matrilogie. Ogni donna che scrive sa che lo fa sulle loro ossa: entra in uno sterminato cimitero e si accomoda su quello che altre hanno pensato, poi scritto.
Ti chiamo col tuo nome, Goliarda, e ti chiamo ancestrale.
Qualcuna di atavica, primordiale, che sa cose che noi altre non sappiamo. Come: che non conviene sottrarsi, ma accoglierla, quando arriva, e farsi ricoprire dal suo corpo di pietra caldo di sole. E anche: che il buio non è nero, che il giorno non è bianco, che fermarsi è correre ancora di più.
Ti chiamo col tuo nome, Janet, e ti chiamo tempesta.
Proprio l’altro giorno mi dicevi: della tempesta ti puoi fidare, del paciugo di alghe, gusci imperfetti, uccelli laceri, rasoi affilati, corni d’ariete e conchiglie che lascia scritte sulle miglia di spiaggia. E poi hai aggiunto: tu piangi ora e mi parli di vita. E tu che non piangevi.
Ti chiamo col tuo nome, Wisława, e ti chiamo cuore.
Ascolta, ti dico ora, come mi batte forte il tuo, di cuore. Lo sapevamo, poteva accadere, doveva accadere, è accaduto prima. Però morire – questo a una gatta non si fa. Perché cosa può fare una gatta in un appartamento vuoto?
Ti chiamo col tuo nome, Anna, e sopra tutto tutto questo ti chiamo amica, mia nostra.
L’autunno si è fermato sui rami, è immobile. Forse sei solo andata nell’altra stanza al buio a prendere gli occhiali. Perché chi è amato non conosce morte, perché l’amore è immortalità. O meglio, è sostanza divina.
[L.P.]
Anna, zazzera corta che non sapeva ingrigire, occhiali tondi e magliette a righe su pantaloni ampi e scarpe sempre pronte a saltare nel vento e nel mare, quando ho saputo che la tua anima era libera ero su treno che non mi stava portando da te come altre volte, e tra le lacrime ho scritto due (brutte) poesie che parlano della distanza e del tempo, ero furiosa con loro. Volevo farti una torta di mele, che ti piaceva tanto, e invece ho scritto una poesia. Era successo così anche alla tua Goliarda che in una notte di disperazione, quando perde sua madre, inizia a scrivere. Forse per questo la amavi tanto, entrambe sapevate che la propria parte di gioia si ricava scavando con le unghie e la penna nella roccia dei dolori. Eri poesia. Tu accettavi la vita perché sapevi danzare con la morte e la perdita, invitandole a un buffet, prendendole in giro, tirando loro i noccioli dall’altro capo del tavolo, divertita. La tua voce per me era un flauto magico e mi prendevi in giro con Gianni perché a ogni vostro reading di poesia io piangevo sempre, come se quella tua voce con un solo sussurro potesse smuovere in me slavine trattenute troppo a lungo. L’ultima volta che l’ho sentita è stato a novembre, raccontavi di un incontro immaginario tra Lisetta Carmi e Goliarda Sapienza. Era la tua voce di sempre, solo un poco più stanca. Ora ti vedo entrare in quella stanza con loro e tutte le altre che hai amato, nella luce obliqua di dicembre, prendete un tè e una fetta di torta, ridete, ti vedo stringerle come hai fatto con noi Altre a cui hai aperto la porta e il cuore, rendendoci sorelle, ovunque fossimo. Hai scritto in una delle tue poesie che in questa vita tutto è in affitto, tutto va ceduto, prima o poi, tranne che il cuore, quello è l’unico posto che si occupa per intero. Il nostro oggi è allagato da te, diventato in un giorno una Venezia dall’acqua sempre troppo alta. La tua Goliarda diceva che “i morti hanno torto se dopo morti non c’è nessuno che li difende” e tu, qui da noi, avrai sempre ragione, finché non ci vedremo di nuovo, al mare.
[G.A.]
Anna ha sempre visto oltre la trama del visibile: me ne sono accorta dalla prima conversazione che abbiamo avuto, riguardo una scrittrice di fulgido talento scomparsa troppo presto, cosicché la memoria di lei si era dissolta e i suoi libri erano rimasti a navigare alla deriva, senza nessuno che se ne ricordasse. Nessuno tranne Anna, la sola persona che all'epoca delle mie ricerche su Brianna Carafa seppe mostrarmi la via. Siamo diventate amiche parlando di letteratura e poi subito di cani, poi di capelli, di anelli e manichini, poi di Fortuny e di Proust e delle pietre di Venezia, poi ancora di amore, di case, di paure. Ho in testa le increspature nella sua voce mentre manda un messaggio vocale salendo e scendendo da un ponte come in quella sua poesia bellissima in cui il ponte è il passaggio e oltre il ponte lei torna bambina, con le scarpe con gli occhi e tutto ricomincia. Anna ha avuto – ha ancora, perché l’ha impressa nelle poesie che in questi giorni zampillano da ogni dove – delle cose invisibili e sommerse, una visione così precisa da permetterle di porgerti pensieri quasi calmi, pacificati in una saggezza percorsa da un’inquieta corrente sotterranea: nell'equilibrio della sua specifica forma di eleganza ribolliva una personalità forte persino nelle delicatezze, un’allegria tenace per virtù di coraggio. In lei ho sempre sentito una forma di assoluto che si sposava all'attenzione per cose minuscole, rivelazioni splendidamente pragmatiche.
Non ho incontrato mai nessuno che guardasse come lei: con un’esattezza misurata e appassionata, da dietro i suoi occhiali inconfondibili, come tutti gli oggetti che intorno a lei si animavano di vita infusa dal suo gusto per il bello, l'essenziale, il poetico. In una domenica di settembre, dopo avermi raccontato i segreti di Venezia, sotto il cielo bianco mi ha sorriso dall’imbarcadero, Gianni accanto, le canette al guinzaglio. E mentre il vaporetto si allontanava, dalla laguna ho guardato quel loro amore strepitoso, per sempre salvo.
[I.G.]
Mi sono crogiolata molto
tra parentesi (mie o di altri)
senza scansione del tempo che non fosse interna.
Non avevo capito che è il punto
- come dicono anche i manuali di scrittura -
che rende possibile il respiro.
[A.T.]